Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 26/10/2014, a pag.11, con il titolo "Sulla primavera di Tunisi incombe l'onda islamista ", il commeno di Domenico Quirico sulle imminenti elezioni tunisine.
Domenico Quirico
Un amico mi telefona dalla Tunisia, piatto, ingrugnato, irriconoscibile: «In Europa non c’è più interesse per noi, se ne parla a vanvera come se fossimo diventati un paese normale. E invece abbiamo abitato per quattro anni in una casa non finita e ora stanno ritornando in politica con le vele gonfie, tronfi, pieni di denaro i cacicchi del partito di Ben Ali il dittatore, e pretendono di prender posto, dicono che è cosa loro. La strategia della smemoratezza avanza, ci ingannano e ci inganniamo dicendo che in fondo la dittatura aveva lati buoni. Intanto gli islamisti armati continuano ad agire. In attesa del ritorno dei “siriani”. Andiamo a votare un’altra volta, già: ma a che serve?». Penso allora a questi quattro anni: la libertà mantenuta a gran fatica, una Costituzione approvata, ma anche i delitti di stato, le provocazioni, i fantasmi di rozzi e balordi dogmatismi e il rischio che gli eroi del tempo della ribellione dei gelsomini si scorino, confondano, perdano il filo e la memoria. Oggi i tunisini andranno a votare per le legislative, per chiudere, finalmente, una transizione infinita cominciata nel 2011. Penso che la Primavera di questo paese, la prima nel tempo, la più pura, a guardarla ora, realizzata a colpi di coraggio e presentata al popolo, a cose fatte, in maniera insipidissima e con elementare semplicità e semplicioneria demagogica, ha favorito ben altra superstizione: che i fatti storici avvengano per prepotenti e fortunatimiracoli di pochi e che gli Stati poi si reggano per occulti interessi e macchinazioni. Dei quali e delle quali sono sempre i tunisini a pagar le spese, ora che il benessere mille volte promesso dai democratici di questi anni, soprattutto da quelli abitudinari della moschea, è rimasto un sogno fuor che per un ceto ristretto di politici, di politicanti e di abbienti. La cifra sicura del 50 per cento di astensione (la si deduce dalle magre iscrizioni alle liste elettorali), è l’unica che parli chiaro: bocciatura sonora per tutta la accozzaglia di partiti e partitini che si presentano ancora una volta a promettere, a garantire benessere, potere di acquisto, fine delle diseguaglianze tra regione e regione, accuratezza amministrativa, pulizia.Diserbante verbale: perché tutti sono poi senza veri programmi. Agli occhi dei tunisini, chiamati a esser sovrani senza aver avuto il tempo di diventare cittadini, la politica sta diventando in modo permanente la nemica del benessere e del benestare: stato, leggi, istituti, doveri e diritti, i concetti fondamentali della sovranità popolare, suscitano solo i sensi di una accidia crucciosa e sarcastica. E la primavera di quattro anni fa rischia con il passare del tempo di essere assimilata a una delle solite e triviali adulterazioni della Storia tirata a servire e ad esprimere passioni e fazioni delmomento. Perché la miseria dopo quattro anni di fallimentare prova del partito islamicoma anche dei tecnici laici, è grande. I candidati alle legislative di oggi e ancor più quelli delle presidenziali del 23 novembre si sono gettati a colpi di parcelle milionarie sui servizi professionali di comunicazione: per colmare il vuoto di idee e di risultati. Ennahda, il partito islamico, trionfatore delle prime elezioni libere ma oggi in crisi di identità e di consensi, ha firmato il contratto con una prestigiosa agenzia londinese, Burson Marsteller, per la cifra di 14 milioni di euro. Non basteranno, pare, come la nuova frettolosa immagine di partito della riconciliazione e del dialogo, a far delirare le passioni e dissipare l’atono malumore dei tunisini. La previsione è quella di un governo di unità nazionale come invocano tutti, ma per necessità aritmetica e non per scelta ecumenica. In Tunisia l’Islam conservatore, alla turca, a parole rispettoso delle regole democratiche ma indaffarato a occupare poltrone e società per roderla dall’interno, pare aver fatto fiasco: come in Egitto. Anche se non saranno, per fortuna, i carri armati a dissellarlo ma le urne. Ma ora il confronto è brutale. Perché restano gli Altri, gli islamisti più brutalmente totalitari con il kalashnikov e le bandiere nere. Alle elezioni si arriva con l’attenzione distratta dall’assedio di una casa nella banlieue di Tunisi, a Oued Elil, dove un commando si è barricato con donne e bambini che usano come scudi umani. Un gendarme è stato ucciso. Sono le periferie in cui spropositavano nel 2011 con gran successo, le prediche di Abu Iyadh, il fondatore di Ansar al Sharia, versione indigena della settaria e barbara insurrezione islamista. Mentre politicanti di lungo corso e di avidissimi appetiti si attardano e temporeggiano, nei corridoi del Palazzo di Cartagine ci sono 5 mila tunisini, forse di più, che indossano funebri barracani e che si stanno battendo nei territori del califfato, in Siria e Iraq. Sono i delusi di rivoluzioni tradite, convertiti all’internazionale dei ribelli in perpetuità. Non li farà certo ravvedere da queste sanguinanti quaresime lo spettacolo del ritorno in politica dei pretoriani di Ben Ali e dell’avida Prima Coiffeuse. Uno di loro, ex ministro della Giustizia negli anni della più infuocata repressione, interrogato in tv sulle violazione dei diritti umani allora commesse, ha risposto: non me ne sono accorto.
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