Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 24/10/2014, a pag. 21, con il titolo "L'inverno di Tunisi tra rabbia e speranza: 'Così la rivoluzione è rimasta a metà' ", l'analisi di Giampaolo Cadalanu.
Giampaolo Cadalanu
Manifestazione a sostegno dell'Isis in Tunisia
Quando i blindati della polizia montano sui marciapiedi di Avenue Bourghiba, per allontanare i dimostranti assiepati di fronte al ministero dell’Interno, sembra una scena già vista. Ma i giorni della rivoluzione, tre anni e mezzo fa, sono lontani: non ci sono urla, sassi, e tanto meno lacrimogeni o spari. Tutto si svolge nella calma. «Ora andiamo via. Abbiamo chiesto l’autorizzazione per due ore di manifestazione. È questione di rispetto delle regole», dice senza scomporsi Radhia Nasraoui, avvocatessa specializzata in diritti umani e moglie di Hamma Hammemi, leader del Fronte popolare. Cammina rapida, quasi lasciando indietro il robusto poliziotto in borghese che la scorta. Entrambi i coniugi vivono sotto protezione dopo gli omicidi di Chokri Belaïd e Mohamed Brahmi, due politici laici colleghi nel fronte della sinistra.
Le foto dei politici assassinati sono quelle brandite più in alto dai militanti che si ritrovano a chiedere giustizia davanti al ministero una volta alla settimana, accanto a quelli che vogliono la fine della tortura nelle carceri. «Dal punto di vista della repressione è cambiato poco. In Tunisia c’è un regime di impunità», dice la Nasraoui: «Non ci sono punizioni nemmeno per chi ha commesso abusi ai tempi di Ben Ali. Il nuovo regime non vuole che la gente usi i suoi diritti fino in fondo. Insomma, la rivoluzione non è finita, dobbiamo continuare».
In vista delle elezioni politiche, domenica prossima, e in attesa delle presidenziali di novembre, in Tunisia è il momento di un primo bilancio della rivoluzione nata dal sacrificio di Mohamed Bouazizi, il venditore che si era dato fuoco a fine 2010 e aveva dato via all’incendio dei paesi arabi. «I giornali l’hanno chiamata rivolta dei Gelsomini, a me piace chiamarla rivoluzione della dignità», dice la blogger Lina Ben Mhenni, protagonista di quei giorni del 2011, e aggiunge: «Sento sempre più persone rimpiangere Ben Ali, venditori del mercato ma anche docenti all’università ». La democrazia ha portato tanto entusiasmo, ma anche minore sicurezza e prezzi alti. Persino il tradizionale tè alla menta è diventato un lusso, perché i pinoli che lo guarnivano adesso costano troppo. E sotto i ficus del centro i caffè con i tavolini preferiscono servire bibite importate.
Accanto all’avvocatessa in tailleur, le madri dei detenuti morti in carcere sfilano in abito tradizionale, tenendo le foto basse, con maggior timidezza ma uguale determinazione. Anche per loro la rivoluzione ha cambiato poco. È così per Zakia Gazmi, madre di Ali Khemais Louati, lavoratore a giornata con qualche precedente per piccoli furti, morto a 27 anni nel carcere di Borj el Amri. Zakia non ha quasi più lacrime, si lamenta piano mostrando le foto del figlio, nella casa poverissima di Hammam Lif. A lei le autorità carcerarie hanno detto che Ali ha avuto un ictus, no, un infarto, no, si è suicidato tagliandosi i polsi con la stagnola dello yogurt. Chi ha lavato il corpo dice di non aver visto nessun segno sulle braccia. E il caso di Ali, denunciano Amnesty International e Human Rights Watch, è solo uno dei tanti.
Se non è finita la conquista dei diritti civili, è incompleta anche la transizione verso l’economia di mercato. Persino la Banca Mondiale ha voluto intitolare il suo rapporto sulla Tunisia «la rivoluzione incompiuta». Vi si legge che il paese ha le potenzialità per diventare una “Tigre del Mediterraneo”, ma l’esplosione economica è rallentata da fattori storici ancora decisivi: la burocrazia asfissiante, la corruzione diffusa e la mancanza di reale concorrenza. Il sistema è semplice: le aziende statali e quelle che appartenevano al clan del dittatore Ben Ali godevano di facilitazioni assolute, e anche adesso che sono passate di mano, in parte persino ri-privatizzate, non devono affrontare meccanismi di mercato corretti. In altre parole, chi non ha “buoni contatti” si scontra con il muro di gomma della autorizzazioni e alla fine con continue richieste di pagamenti “extra”.
«Questa situazione non ha solo conseguenze economiche, ma anche sociali, molto significative», spiega Antonio Nucifora, che firma il rapporto della World Bank: «È un sistema che di fatto esclude chi non ha contatti politici e crea risentimenti. È stato così anche per Bouazizi: questo senso di esclusione è una delle ragioni principali della rivolta ». Insomma, all’economia tunisina serve un’apertura vera, rivolta all’interno, non soltanto agli investitori internazionali che finora avevano la possibilità di produrre in Tunisia a condizioni favorevoli purché destinassero la produzione ai mercati internazionali e lasciassero in pace il feudo di Ben Ali e il suo mercato interno. Il documento della Banca Mondiale sottolinea anche l’altissima disoccupazione giovanile, che supera la metà fra i diplomati e raggiunge il 65 per cen- to fra le ragazze.
È fra i 350 mila giovani senza lavoro né prospettive che vanno a pescare gli imam radicali in cerca di carne da cannone per la guerra santa in Iraq e Siria. Tremila combattenti tunisini tra Is e Fronte al Nusra, novemila bloccati alle frontiere ma comunque pronti al sacrificio, segnali di irrequietezza anche interna (è di ieri l’ultimo scontro fra uomini armati e forze di sicurezza, con un morto a Oued Ellil, nella periferia della capitale): la Tunisia è il primo fornitore di aspiranti martiri per l’integralismo islamico. Ma la spinta iniziale non è certo quella del fanatismo, in un paese diventato simbolo dell’islam moderato.
«Le partenze numerose verso il fronte sono un risultato delle politiche di tre anni di governo Ennahda», dice senza mezzi termini Beji Caïd Essebsi, leader dei centristi di Nidaa Tounes e candidato favorito per la presidenza della Repubblica, a novembre: «Il partito islamico ha incoraggiato politicamente i movimenti jihadisti ed estremisti, e si è svegliato solo quando questi hanno cominciato a minacciare il suo potere». E quando i giovani ritorneranno, addestrati militarmente e dunque molto più pericolosi, secondo il leader centrista la prima risposta per neutralizzarli non può che essere «uno Stato di diritto, giusto ma forte». Essebsi lo ripete con chiarezza: «Non è solo un problema di sicurezza, è un problema politico e sociale, che va affrontato su più piani: serve una strategia a livello regionale, di tutto il Maghreb, magari con il sostegno dell’Europa ». Per bloccare la deriva fanatica dei più fragili, e allo stesso tempo frenare le partenze dei più disperati verso l’Europa, Essebsi conta su un piano di rinascita economica sostenuto dai paesi del G8 che dovrebbe creare 450 mila posti di lavoro e una crescita fino all’8 per cento entro il 2019. Essebsi conta sulla delusione degli elettori di Ennahda per puntare alla poltrona presidenziale ed è favorito nei sondaggi. Ma nella Tunisia di oggi, libera dalle censure di Ben Ali, le stime troppo ottimistiche sono accolte con un sorriso: nel caso di Essebsi è una risata, quella di Hatem Karoui, protagonista in teatro e nello “slam”, le gare di poesia improvvisata in musica. Dopo la rivoluzione, Karoui ha portato in giro i suoi spettacoli in tutta l’Europa francofona, sghignazzando sulle paranoie dei militanti di Ennahda. Adesso prende di mira il grande favorito delle elezioni con un irresistibile video su YouTube in inglese che ironizza sul «candidato sexy, nato all’inizio dell’umanità» (Essebsi è del ‘26). Dice Karoui: «Altro forse non avremo avuto dalla rivoluzione, ma la libertà di espressione ormai non ce la possono più togliere».
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