Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 24/10/2014, a pagg. 1 e 9, con il titolo "Il Califfo trova adepti sui social", l'analisi di Maurizio Molinari; a pag. 11, con il titolo "Marsiglia, droga e sharia: la via per la Siria passa da qui", il reportage di Francesca Paci; dal GIORNALE, a pag. 1 e 13 con il titolo "Convertiti all'attacco: e in Italia ogni anno 4mila passano all'islam", l'articolo di Fausto Biloslavo.
In rosso le zone occupate dallo Stato islamico
LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Il Califfo trova adepti sui social"
Maurizio Molinari
L’attacco al Parlamento canadese da parte del jihadista Michael Zehaf-Bibeau, convertito all’Islam, alza il velo sul metodo con cui il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi riesce a beffare i più sofisticati sistemi anti-terrorismo dei Paesi occidentali.
L’ex reclutatore dei taleban Mubin Shaikh, oggi collaboratore della sicurezza canadese, lo riassume con l’espressione «Jihadi Dawa» ovvero «invito a praticare la guerra santa».
Per comprendere di cosa si tratta bisogna ascoltare Aymenn Jawad al-Tamimi, il ricercatore della Oxford University che da due anni analizza ogni mossa del «Califfo Ibrahim»: «Si serve del web per diffondere in maniera sofisticata e professionale l’invito alla Jihad adoperando non solo i siti estremisti tradizionali ma anche i social network, riuscendo a trasformare la sua ideologia in un contagio». Se l’Al Qaeda delle origini si limitava a postare messaggi video del leader Osama Bin Laden e filmati di addestramenti, ora la «Jihadi Dawa» si nutre di dissertazioni sul Corano, possibilità di dialogare sui social network e video altamente professionali per spiegare non solo come si combatte o additare i nemici da colpire ma anche per descrivere le aspettative di vita nello Stato Islamico.
Proprio tale sovrapposizione fra Jihad e nuove tecnologie è all’origine del crescente successo con le donne - da Denver a Parigi - perché i reclutatori sono abili, attraverso i social network, a guidare le «conversazioni» in maniera da spingere ragazze adolescenti a «cercare la felicità, un marito e dei figli nel Califfato» spiega al-Tamimi. Ciò spiega la moltiplicazione della minaccia di «lupi solitari» rispetto alla stagione in cui Al Qaeda colpiva nelle capitali europee, da Madrid a Londra, con gruppi organizzati.
«Isis non dispone ancora di basi organizzate, capaci di mettere a segno attacchi sofisticati - spiega un alto funzionario europeo da Londra - e dunque adopera il web per diffondere un’ideologia tesa a radicare il proprio messaggio nelle comunità musulmane in Occidente». Ma Mubin Saikh aggiunge: «I video che postano online sono di tale qualità che non possono essere confezionati a Raqqah o Mosul». Da qui l’ipotesi, all’esame di più agenzie anti-terrorismo, che Isis sia riuscita a creare in Europa e in Nordamerica dei centri di produzione di propaganda digitale, pensati e realizzati per fare breccia nei musulmani o convertiti europei. E spingerli ad attacchi che possano mettere in difficoltà i governi impegnati nei raid sul Califfato. Con qualsiasi arma: «Usate in coltelli - è l’invito - e se non li avete investite i civili con le auto». Si spiega così anche il testo di una circolare inviata a prefetti e questori italiani dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza nel quale si invita a porre la «massima attenzione» per «evitare gesti emulativi ed estemporanei di singoli soggetti» che potrebbero entrare in azione anche nel nostro Paese.
È un timore che nasce anche dai risultati dell’inchiesta australiana sull’arresto della cellula che si proponeva di mozzare teste di passanti catturati a caso in una strada di Sydney.
L’altro esempio viene dal Sinai, dove i jihadisti di «Bait al-Maqqdis» dopo aver giurato fedeltà al Califfo, hanno iniziato a decapitare i militari egiziani catturati affermando di «richiamarsi agli esempi di esecuzioni diffuse sul web da Isis», premunendosi di precisare che «non abbiamo avuto contatti diretti».
LA STAMPA - Francesca Paci: "Marsiglia, droga e sharia: la via per la Siria passa da qui"
Francesca Paci
Una strada di Marsiglia: la seconda città francese in quanto a presenza islamica
«Eravamo a cena quando è arrivata la telefonata di un uomo che in buon francese c’informava di aver atteso invano Samia all’aeroporto. Io sapevo che era andata a un matrimonio. Ho richiamato, era un cellulare turco. Da mesi Samia indossava il velo integrale, ripeteva di voler vivere in un Paese regolato dalla sharia ma nessuno immaginava che partisse». Papà Hafez racconta una storia che la polizia di Marsiglia ha già sentito più volte. La figlia 19enne, fermata sabato ad Ankara e rimpatriata, nega d’essere diretta in Siria. Ma la versione della turista naïve non convince né l’intelligence né i parenti barricati oggi nella casa di La Viste, distretto XV, il cuore dei famigerati quartieri Nord a cui la seconda città di Francia deve la fama di capitale del crimine. Qui, all’ombra delle infinite torri popolate da famiglie di origine maghrebina, il racket controlla il mercato della droga e, a patto di salvaguardare il business da 12 milioni di euro al mese, lascia agli imam quello delle anime.
I marsigliesi in Siria non sono tanti. Ma hanno visto passare parecchi dei mille connazionali arruolati dall’Isis. L’attentatore del museo ebraico di Bruxelles Nemmouche, arrestato su un pullman proveniente da Amsterdam. I 3 sospetti jihadisti atterrati un mese fa a Marignane in barba agli 007 appostati a Parigi. Sahra Mehenni e Assia Saidi, due delle 100 francesi sedotte dal Califfato.
«Ha lavorato qualche giorno qui, diceva che sarebbe rimasta poco, aveva la carta di credito» ammette riluttante una ragazza dietro al banco del McDonald’s dove 20 giorni fa mamma e papà Saidi hanno trovato in extremis Assia, tra il commissariato del vecchio porto e quella stazione Saint Charles alle cui spalle sfumano le luci di Marsiglia Capitale della Cultura 2013 e inizia il distretto III, il primo girone della periferia riservata ai musulmani, il 40% degli abitanti e la metà dei disoccupati.
«Marsiglia è un centro di smistamento per la Siria perché da qui si raggiunge facilmente la Turchia in aereo, nave o treno» ragiona Omar Djellil, 44 anni, titolare della moschea al Taqwa e controcanto della comunità passato da SOS Racisme a Jean Marie Le Pen. Si è allontanato dal Fronte Nazionale quando Marine ha paragonato i fedeli carponi sui marciapiedi di Francia all’occupazione nazista: «Dall’11 settembre 2001 noi musulmani dobbiamo sempre giustificarci. E il clima di diffidenza amplifica la nostra tendenza a evitare le responsabilità. Il problema della radicalizzazione c’è e cresce nonostante gli imam lavorino con la polizia. Da un lato le politiche d’integrazione per le banlieues hanno investito milioni di euro in corsi di jambè anziché di francese. Dall’altro il Consiglio francese del Culto Musulmano e il Consiglio regionale, le 2 creature di Sarkozy, non insegnano come dovrebbero l’islam nei quartieri ma si limitano a pianificare pellegrinaggi alla Mecca. Le periferie sono in mano al racket e la nuova immigrazione le sta riempiendo di fondamentalisti che aizzano i giovani. I musulmani lo sanno, 6 su 10 mandano i figli alle scuole cattoliche e molti votano a destra».
A Les Eglantiers, Clos la Rose, nei 100 blocchi di grigi grattacieli marsigliesi detti «cité», le moschee sono un rifugio. Non c’è altro dove l’attivista Amal aspetta il 25, l’unico bus per Downtown. Zero negozi, nessuna farmacia né campi di calcio sebbene nella vicina Castellana sia nato Zidane. «Come fa una donna a tornare qui di sera? Ti veli. Almeno gli spacciatori ti rispettano», dice Amal. La notte escono ratti e «chouf», gli adolescenti in felpa e cappuccio che piantonano le strade. Uno di loro siede accanto al garage che il venerdì trabocca fedeli: «Ovvio che vado in moschea. Lavoro, mica faccio cose illegali. Porto a casa 70 euro al giorno».
Criminalità ed estremismo religioso non sono vie convergenti ma parallele, spiega l’assistente sociale Nil Baalad, pilastro dei quartieri Nord: «A Marsiglia c’è di tutto. I francesi reduci dall’Algeria, anima del Fronte Nazionale. Spacciatori e predicatori radicali che, ognuno a suo modo, intontiscono i giovani con la droga e con un salafismo ignorante fatto solo di divieti. C’è discriminazione e islamofobia. Oggi i musulmani laureati se ne vanno in America o a Monreal e qui restano quelli che scambiano il Corano per il codice civile». Tra chi resta ci sono pure i pendolari del jihad.
Parigi che indaga la legione francese in Siria temendo il boomerang dei «lupi solitari» non può ignorare Marsiglia. L’avveniristico Museo del Mediterraneo, icona dei nuovi docks, si specchia nel suk domenicale di rue de Lyon, l’arteria delle banlieues Nord dove la lavanda svapora nella menta del tè. «Le bombe uccidono i musulmani in mezzo mondo e in Francia ci ammazzate con la droga» accusa l’ambulante tunisino Walid cresciuto a Busserine, dove il figlio dell’imam è stato freddato in un regolamento di conti tra gang. Il connazionale 21enne Hassan è arrivato da Lampedusa dopo il carcere per spaccio a Catania e ha sposato una 36enne francese convertita e assai velata. Nessuno dei 2 sogna la Siria: «La Palestina, allora sì». Ma entrambi sono potenzialmente sul mercato.
Le moschee dei sobborghi di Marsiglia danno legittimità rispetto alla droga, nota l’islamologo Gilles Kepel. Il reclutamento avviene sul web come dovunque. Per la laica Francia però, la sovrapposizione di carità e criminalità è un gioco rischioso: «Gli jihadisti partono più da Tolosa, Lione o Roubaix. Ma Marsiglia è una città estrema dove oggi, come durante gli scontri del 2005 in banlieues, il sistema malavitoso controlla il territorio meglio dello Stato».
Gli investigatori ipotizzano che la mala scoraggi i mujaheddin locali e assicuri a quelli in transito velocità e discrezione per tenere lontani i riflettori.
«Potrebbe esserci una rete logistica che assiste i terroristi perché qui è facile mimetizzarsi» rivela una fonte della polizia. Tutto si muove sotto traccia: «Le moschee sono sorvegliatissime ma sappiamo che i radicali vanno, studiano i soggetti deboli e li agganciano all’esterno».
L’arresto del killer di Bruxelles a giugno ha alzato l’allerta, nota Louis Caprioli, ex anti-terrorismo e consulente della Geos: «Marsiglia non è un focolaio jihadista ma è strategica. È possibile che Nemmouche, reduce della Siria e già radicalizzatosi in carcere, sia andato a Marsiglia per ritrovare eventuali complici e preparare, solo o con altri, operazioni terroristiche».
Se le moschee sono bypassate online, le carceri, dove il 70% degli ospiti è musulmano, restano critiche. Il sindacalista dei secondini regionali Bruno Boudon racconta la metamorfosi di Nemmouche a Tolone nel 2012: «Iniziò disertando il parlatorio, pregava, niente più tv. Volle un televisore solo quando Merah fece strage alla scuola ebraica di Tolosa. Il penitenziario in cui ho visto più persone entrare normali e uscire con la barba è Marsiglia Baumettes, dove ogni guardia segue 145 detenuti».
«La ville est tranquille» è un film del 2000 in cui il regista Guédiguian narra come la Marsiglia post-proletaria non sia affatto tranquilla. «In una città operaia come questa l’islam radicale cresce anche sulle ceneri del comunismo, del punk e delle mille varietà di ribellismo giovanile, perché dove droga e salafismo hanno la stessa origine sociale è percepito come l’unica voce contro lo Stato», chiosa Patrick del Front de Gauche. Samia Ghali, prima sindaco musulmana di Marsiglia, ha un bel rivendicare i suoi natali nei quartieri Nord: quasi impossibile qui trovare chi l’applauda.
Giuliano Delnevo, genovese convertito all'islam e al jihad
IL GIORNALE - Fausto Biloslavo: "Convertiti all'attacco: e in Italia ogni anno 4mila passano all'islam"
Fausto Biloslavo
Il giorno dopo, tutti si chiedono da quale tana sia spuntato Michael Zehaf-Bibeau, musulmano canadese che mercoledì ha messo a ferro e fuoco il Parlamento di Ottawa, uccidendo una guardia. Semplice, come tutti i «lupi solitari», è pericoloso perché non è organizzato e soprattutto perché mosso da un fervore religioso e fondamentalista tipico dei neofiti delle religioni. E per questo che ora l'occhio dell'intelligence è puntato sui convertiti, considerati la nuova leva di killer del jihad. In Italia, in particolare, se ne contano 4mila ogni anno.
I terroristi che in 48 ore hanno sconvolto il Canada con attacchi individuali non devastanti, ma di grande impatto simbolico, sono entrambi convertiti all'Islam. E l'Italia non è immune dal pericolo di convertiti che potrebbero esplodere come bombe ad orologeria della guerra santa. Martin Rouleau, 25 anni, che martedì ha travolto e ucciso un militare canadese e ferito un altro, era un convertito. Dopo averlo ucciso la polizia ha trovato nel suo computer una serie di link alla propaganda in rete dello Stato Islamico in Siria ed Iraq. Anche l'attentatore che ha sparato ad un soldato italo-canadese al monumento dei caduti e poi è riuscito incredibilmente ad entrare nel Parlamento aveva abbracciato la fede in Allah. Classe 1982, all'anagrafe risultava come Michael Joseph Hall con un passato di droga e furti. Da quando è diventato islamico si è fatto chiamare Michael Zehaf-Bibeau. Il primo cognome sarebbe del padre di origine libica andato a combattere contro il regime di Gheddafi. Lo stesso terrorista convertito, prima che gli venisse ritirato il passaporto, si era recato in Libia. Nel nostro Paese il caso più famoso è quello del giovane jihadista genovese Giuliano Delnevo, diventato Ibrahim dopo aver abbracciato la fede islamica. Nel novembre 2012 è sbarcato in Siria dove è stato ucciso nell'agosto dello scorso anno da un cecchino. Il padre, dopo la sua morte, ha seguito la stessa strada della conversione. Su Facebook ha pubblicato di recente una foto del figlio con la barba islamica d'ordinanza ed una maglietta mimetica, che ha ottenuto diversi «mi piace» anche da convertiti italiani. Alcuni erano entrati in contatto con Giuliano/ Ibrahim prima della sua partenza per la Siria. Un altro caso eclatante che coinvolge l'Italia riguarda il convertito francese Raphael Gendron, morto a 38 anni vicino a Homs l'11 aprile 2013. Cinque anni prima era stato arrestato a Bari assieme all'imam radicale Bassam Ayachi. Gendron, nel carcere di massima sicurezza sardo a Macomer, guidava la preghiera come un santone. Uno dei discepoli era un ex detenuto marocchino di Guantanamo. Secondo le guardie il gruppetto «quando sono morti sei soldati italiani in un attentato a Kabul, appena appresa la notizia dalla televisione si è messo a esultare urlando "Allah u akbar" (Dio è grande)». Gendron una volta rilasciato è partito per la Siria dove ha trovato la morte. Il fenomeno del «ritorno all'Islam», come dicono i convertiti, si sta sviluppando. Nel 2012 erano già 70mila e aumentano ad un ritmo di circa 4mila l'anno. Inevitabile che con questi numeri possano saltare fuori delle mele marce. Molti convertiti sono sciiti, che odiano e combattono il Califfato, ma fra i sunniti ci sono alcuni vicini a chi parte per la Siria. Il 4 maggio un predicatore marocchino che ha vissuto a lungo nel Bellunese ha postato su Facebook una foto mentre guida la preghiera fra i monti di Agordo di «un fratello italiano e due bosniaci tra cui uno è morto». Il «caduto» era lsman Mesinovic, bosniaco di 38 anni partito dall'Italia per la Siria dove è stato ucciso in battaglia lo scorso gennaio. Nella stessa fila rivolta alla Mecca, in maglietta nera e barbone islamico, c'è il convertito F. Abdessalam Pierobon. Su Facebook convertiti di vecchia data o più recenti hanno postato il vessillo nero dello Stato islamico. Mai fatto male ad una mosca, ma sono convinti che «non bisogna aver paura dell'Isis. Si tratta di un movimento di liberazione dalla dittatura sanguinaria in Siria che per forza di cose si è propagato in Iraq. I giovani che partono dall'Europa ed in misura minore dall'Italia, perché siamo ancora troppo provinciali, sono come i partigiani che hanno combattuto sotto il tallone del nazismo».
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