Riprendiamo questo saggio sull'umorismo ebraico di David Meghnagi uscito negli anni '80:
Immagini dell'ebreo e dell'antisemita nell'umorismo ebraico
Commento di David Meghnagi
«Non so del resto se accada spesso che un popolo rida tanto della propria indole» (Freud, 1905, p. 100)
Sigmund Freud
Freud attribuiva al Wizt (motto di spirito) e all’umorismo un ruolo rilevante per la comprensione della vita culturale ebraica e del suo ethos: «Un’occasione particolarmente favorevole al motto tendenzioso si verifica quando l’intenzionale critica ribelle è diretta contro la propria persona o, per dirla più cautamente, contro una persona della quale fa parte anche la propria persona, una persona collettiva, per esempio il proprio popolo. Questa determinante esigenza di autocritica può spiegare perché siano sorti proprio dal terreno della vita popolare ebraica numerosissimi motti calzanti (…). I motti coniati dagli stranieri sugli ebrei sono quasi sempre facezie brutali (…). I motti ebraici (…) conoscono sia i (…) difetti che il nesso di questi con le proprie qualità, e ciò che essi hanno in comune con la persona da biasimare determina la condizione soggettiva, di solito così difficile da produrre, per il lavoro arguto (...)» (Freud, 1905, p. 100). «Se veramente è il Super-Io che nell’umorismo parla in tono così amabilmente consolatorio all’Io intimidito, ciò ci ammonisce che sulla natura del Super-Io abbiamo ancora moltissime cose da imparare» (Freud, 1927, p. 508). Sulla scia delle considerazioni che Freud (1905, 1927) fece nei saggi sul Witz e sull’umorismo, molti studiosi, scrittori e analisti si sono interrogati sull’umorismo ebraico, sulla sua tecnica e sulle sue sorgenti vitali (Reik, * Una versione precedente – letta a un convegno internazionale organizzato dall’Istituto Gramsci Toscano il 18-20 marzo 1987 nell’ambito delle manifestazioni promosse nel 1986-87 in occasione della designazione di Firenze a “Capitale Europea della Cultura” – è stata pubblicata in: Cesare Luporini, a cura di, Ebraismo e antiebraismo: immagine e pregiudizio. Firenze: Giuntina, 1989, pp. 3-9.
All’interno della pratica clinica ci si è interrogati sul significato da attribuire alla comunicazione umoristica nei suoi molteplici aspetti difensivi e creativi, di allontanamento dell’ansia e di creazione di significati nuovi. La profonda analogia con i processi di creazione artistica e letteraria ha spinto in molti a parlare, nel caso del Witz e dell’umorismo, della presenza di un processo terziario, distinto da quello primario e secondario (Arieti, 1976; Corrao, 1982, pp. 269-294). Di fronte alle accuse antisemite, gli ebrei sono in una situazione kafkiana. Qualunque cosa si dica, è usata contro. La “colpa” di cui si è in realtà accusati non è legata ad atti commessi. È una colpa “ontologica”, che trascende la responsabilità per gli atti realmente compiuti. In questa logica perversa si è colpevoli in partenza per il solo fatto di esistere. Le accuse sono delle razionalizzazioni di un pregiudizio più antico, che deve essere confermato indipendentemente dai fatti discussi. L’umorismo ebraico è la risposta creativa a questa situazione, la difesa di chi sa già in partenza che affrontare l’antisemita sul suo terreno è già un’ammissione di colpa, che mette a dura prova l’integrità morale e psichica della vittima. Per questo motivo l’umorista non censura le accuse. Portando la sfida all’estremo, la fa apparentemente sua e la depotenzia, facendo scaturire significati nuovi che la smascherano. L’effetto è catartico. L’ebreo può ridere delle sue angosce e paure. L’antisemita può liberarsi della sua paranoia. L’apparente messa in discussione di alcuni aspetti della vita ebraica determina un inaspettato capovolgimento di valori, che fa scaturire significati nuovi e opposti. Le tensioni della vita ebraica sono artificialmente riprodotte e drammatizzate con lo scopo di liberare chi ne è oggetto dal fardello che impongono. Alla fine è l’accusatore che ha qualcosa da apprendere. L’apparizione dell’altro con le sue accuse è nelle battute umoristiche più riuscite uno strumento potente di autocomprensione individuale e collettiva, una via verso la simbolizzazione e la conoscenza. Alcuni esempi Le storielle che seguono sono in larga parte americane e hanno per oggetto il rapporto tra la psicoanalisi e l’ebraismo. Appartengono alla terza generazione degli ebrei: i nonni vivevano ancora nelle shletle delle zone di residenza coatta nell’impero zarista o ne erano appena usciti per emigrare verso il nuovo continente. Riflettono condizioni di vita e un sentimento di sicurezza sconosciuti alle generazioni precedenti. Pur essendo nate in America, esse volano dall’altra parte dell’oceano per incontrarsi con l’umorismo ebraico europeo, sefardita e israeliano, e fanno la fortuna di chi le sa raccontare meglio, nelle pause di un convegno scientifico, di una cena d’affari e in qualsiasi occasione in cui più ebrei hanno modo di trovarsi “in maggioranza”. Il successo del romanzo e del cinema ebraico americano (si pensi ai film di Woody Allen negli anni 1980) è un esempio concreto di come l’esperienza ebraica abbia assunto 4 55 per larghi strati della cultura contemporanea una valenza paradigmatica, un significato di valore più ampio e universale. Nell’umorismo ebraico la tensione fra il registro dell’accusa e quello dell’autodifesa può essere tale che basta poco per snaturare il significato. La stessa battuta raccontata in situazioni “non empatiche” può essere fraintesa. Chi si è sbellicato dalle risa ascoltando una storiella il giorno prima in casa di amici, potrebbe provare una sensazione di disagio se la situazione in cui l’ascolta è non “amichevole” o, peggio, ostile. La costruzione del motto umoristico è complessa e delicata. Il piacere è collegato all’ordinamento di senso che mette ordine a una doppia confusione, risultato momentaneo di un’unificazione degli opposti e di un superamento delle scissioni interiori. Il godimento nel motto poggia sulla reciproca rassicurazione d’aver per un momento distrutto, ma anche e soprattutto di essere riusciti a ricostruire; di avere per l’appunto creato, sia pur nei limiti del motto, qualcosa di nuovo. I motti buoni si trasmettono e girano di bocca in bocca perché testimoniano questa riuscita. Le storielle più riuscite sono spesso riadattate e riattualizzate per fare posto a nuovi insight. «Non so del resto se accada spesso che un popolo rida tanto della propria indole» (Freud, 1905, p. 100). L’affermazione di Freud vale anche oggi, nella vita della diaspora e in Israele, dove gli ebrei sono “la maggioranza”. Per dispiegare pienamente i suoi effetti, il motto richiede che siano presenti tutti gli elementi per cui è stato ideato. Ha bisogno del suo pubblico, che deve sapere che a raccontare è “qualcuno di noi”, che la situazione è, per così dire, heimlich. Altrimenti la storiella, soprattutto se è delle “più feroci” e “autolesive”, rischia di essere stravolta nei suoi significati profondi. Freud, che di umorismo ebraico s’intendeva, fu indotto in vecchiaia a fraintendere per vera una barzelletta umoristica nera secondo cui gli ebrei di Berlino avevano inscenato sotto Hitler una manifestazione con dei cartelli in cui era scritto “Buttateci fuori!”. Come ricorda Ernest Jones in una lettera ad Arnold Zweig del 13 giugno 1935, Freud sfogò il suo rancore contro il tratto che più rifiutava degli ebrei tedeschi, il voler essere «più tedeschi dei tedeschi » (Jones, 1953-57, vol. 3, p. 239). In realtà, come poi fu appurato, era una reazione disperata al sentimento d’impotenza di fronte all’assurdo di dovere ormai considerare un “lusso” irraggiungibile poter fuggire dal proprio paese.1 Soffermarsi su alcune di queste storielle può essere utile per comprendere dall’interno il complesso rapporto che lega l’opera di Freud all’ebraismo e al suo ethos. Non per caso, il fondatore della psicoanalisi amava fare collezione di storielle ebraiche e ne faceva ampiamente uso nella vita quotidiana e nello scambio con gli amici più fidati, dedicandovi uno spazio ampio nel saggio sul motto di spirito (Freud, 1905). «Chi è uno psicoanalista? Un dottore ebreo che ha paura del sangue». 1 Questo brano della lettera ad Arnold Zweig del 13 giugno 1935 è stato omesso dai curatori nell’edizione integrale del carteggio tra Freud e Zweig (Meghnagi, 2000, pp. 9-44). 4 56 Chi ha nozione dei divieti alimentari ebraici sa quanta parte abbia l’interdizione del sangue per la Torah: «Chi haddam hu hannefesc» (“Il sangue è l’anima”), si legge nel libro di Devarim (XII, 23). All’uscita da un cimitero, nella tradizione qabbalistica simbolicamente denominato Bet Hachaim (“La dimora dei vivi”), è d’obbligo per la tradizione rabbinica recitare il versetto biblico: «Ve’anu ve amru yadenu lo shafkhu et haddam hazè ve’enenu lo raù» (“E così protestino e dicano: le nostre mani non hanno versato questo sangue e i nostri occhi non hanno visto») (Devarim, XXI, 7). Nella tradizione religiosa dell’ebraismo, il tabù del sangue versato e i suoi nessi con gli impulsi sadici e l’aggressività sono rafforzati dal divieto di consumare insieme carne e latte. «Lò tevashel ghedi bcahalev immò» (“Non cuocerai il capretto nel latte di sua madre”), si legge in Devarim (XIV, 21). La carne, prima della cottura, deve essere salata per togliere i residui di sangue liquido. Dopo un pasto a base di carne, bisogna attendere almeno tre ore (per taluni sei) prima di passare al latte. Dopo un pasto a base di latte, occorre attendere mezz’ora prima di passare alla carne. Il motto va alle radici della vita ebraica, al suo rapporto col cibo e ai nessi di quest’ultimo con la condizione storica degli ebrei, privati per secoli del diritto all’autodifesa (divieto di portare con sé armi) e soggetti a umilianti norme, tra cui l’obbligo di portare segni distintivi e di vivere in ghetti malsani da cui non potevano uscire dopo il tramonto. Questi elementi della vita ebraica, che il motto deride, sono a un livello più profondo lo strumento per ribaltare l’accusa contro chi l’ha formulata. Lo psicoanalista è apparentemente deriso. A differenza del medico, egli ha “paura del sangue”. Insieme a lui sono derisi gli ebrei e l’ebraismo, dal cui seno è scaturita una scienza che contesta alle radici la medicina del suo tempo e afferma che il malato ha una dignità insopprimibile e che i disturbi sono messaggi da ascoltare. All’origine della “nuova scienza”, sembra voler dire l’umorista, ci sono “la paura del sangue” e la derisione degli analisti. Questa è però la facciata, per affermare altro: “Sì, sono vile, forse come tu dici, ho paura del sangue. Se anche ciò fosse – ma non è come pensi tu – non è forse meglio così? Chi va a caccia e fa soffrire inutilmente gli animali, è da considerarsi forse più coraggioso? E chi opprime il suo simile, come dovremmo considerarlo?”. “Chi ha realmente paura? Tu che mi neghi il diritto di esistere e fai la voce grossa approfittando del fatto di essere in maggioranza, o il sottoscritto, che pur essendo disarmato e in minoranza, non ha paura di farti esistere nel suo discorso?”. Chi ha esperienza clinica sa quanto strettamente correlata al bisogno di controllare l’angoscia sia questa necessità di elevarsi sopra le proprie debolezze e miserie per farne oggetto di humor, quale estrema risorsa essa sia per l’integrità dell’Io e dei suoi fragili equilibri. La capacità di ridere affettuosamente di sé e delle proprie debolezze è un segno importante di maturazione ed equilibrio psichico. Situazioni con valenze distruttive e potenzialmente devastanti per l’integrità dell’Io possono essere affrontate. Anche se la situazione esterna resta tale o si aggrava, l’Io non va in pezzi e conserva la sua unità. 4 57 Nella storiella del medico ebreo che ha paura del sangue, il motto parla al suo pubblico composto di ebrei e di psicoanalisti, anch’essi in maggioranza ebrei, per dire che le accuse di cui sono oggetto e i difetti che temono di riscontrare in sé sono inscindibilmente legati alle loro qualità. Fuggendo dai loro presunti difetti, essi finirebbero per perdere le qualità positive che li contraddistinguono. Diventando come il medico “che non ha paura del sangue”, avrebbero solo da perdere, umanamente e moralmente. Una variante triestina di questa gustosa storiella è la seguente: «Che cosa è la psicoanalisi? Una scienza inventata da uno scienziato ebreo per rendere i tedeschi simili agli italiani». Ebraismo e psicoanalisi sono qui simbolicamente identificati con gli aspetti più umanitari della tradizione culturale italiana. Gli stereotipi dell’italiano “sfaccendato”, poco incline al lavoro, sono utilizzati per far emergere una verità di segno opposto. L’idealizzazione del carattere “sfaccendato” degli italiani è un ammonimento a non farsi accecare dalle sirene dei treni puntuali. In determinate situazioni, lentezza e disorganizzazione possono diventare un merito. Anche nella tragedia – sembra voler dire il motto – gli ebrei sono in grado di distinguere e soppesare. Per quanto atroce sia la conta dei morti e grande il dolore, l’umorista non fa di un’erba un fascio. Nonostante la caccia criminale all’ebreo, le retate e le spiate, dei quarantamila ebrei che si trovavano sul territorio italiano all’epoca degli stermini nazisti, quattro quinti si sono salvati. In una variante di questa storiella, che ho ascoltato da un collega di Zurigo, l’autore del motto non si contenta di questo finale “zuccheroso”. La psicoanalisi serve sì a rendere i tedeschi come gli italiani e gli italiani come gli ebrei. Fin qui siamo sul terreno dell’idealizzazione della vita ebraica e dei suoi valori fondanti (“la rimozione e sublimazione degli impulsi aggressivi”), che sono poi i valori della convivenza civile. Ma agli ebrei che cosa accade alla fine di questo percorso accidentato? La risposta del motto è inattesa. Ha un che di esplosivo: mentre i tedeschi diventano come gli italiani e questi ultimi come gli ebrei, gli ebrei diventano “come gli antisemiti”! «Che cosa è la psicoanalisi? Una scienza inventata da uno scienziato ebreo per rendere i tedeschi come gli italiani, gli italiani come gli ebrei, gli ebrei come gli antisemiti». Giocando sul paradosso, il motto invita a riflettere sulle dinamiche inconsce sottese alla decisione di rivolgersi a un analista. Chi si rivolge a un analista in fondo che cosa chiede agli inizi? Se è dominato dal dubbio ossessivo, vorrebbe esserne liberato. Se soffre di un sintomo, vorrebbe non averlo più. Prigioniero delle sue ossessioni, tende a idealizzare la condizione altrui. Vorrebbe essere come loro, ma senza cessare di essere come è. Una contraddizione da cui può uscire solo se valorizza quel suo essere come è. Il rapporto tra psicoanalisi ed ebraismo è considerato in un’altra storiella sotto l’aspetto della temporalità e della funzione emancipatoria assunta da questa disciplina per gli ebrei che uscivano dai ghetti: «Che differenza c’è tra uno psicoanalista e un sarto? Una generazione» 4 58 Per sortire i suoi effetti, il motto opera uno slittamento di significato tra il registro in cui è inscritta la domanda e quello della risposta. Facendo ricorso a una logica paradossale, scopre come unica differenza proprio ciò che lega le due professioni: l’ordine delle generazioni. La generazione dei nonni, usciti dai ghetti, era composta da sarti, quella attuale è composta in larga parte da professionisti, tra cui gli psicoanalisti. Il motto acquista maggiore risonanza e pregnanza se si tiene conto che il termine generazione (in inglese generation), inteso nella sua forma attiva, suona così: “I sarti hanno generato gli psicoanalisti”. L’insight è fulminante: opera un commovente riscatto della parte più povera e oppressa dell’ebraismo dei primi decenni del XX secolo, composta in prevalenza da sarti e da operai tessili che in America lavoravano a cottimo (Howe, 1976). Nelle shtetle abbandonate per sfuggire ai pogrom, il sarto poteva fuggire dalla sua condizione lavorando come operaio tessile per lunghe ore, in ambienti malsani, rovinandosi precocemente la vista. Boicottati nelle fabbriche metallurgiche, gli operai ebrei potevano lavorare in settori declassati dell’economia, dove più forte era la concorrenza per trovare un impiego e peggiori erano le condizioni salariali. Fuggiti dai loro paesi alla ricerca di luoghi più ospitali, i più indifesi si ritrovavano alla mercé dei loro datori di lavoro, per cui lavoravano a cottimo. Il sarto della shtetla era però anche chi conosceva importanti segreti di ognuno, quelli riferiti alla statura, all’obesità e alle proporzioni del corpo, che “doveva proporre” nella veste più accettabile per un bar mitzwah,2 o una chatunah. 3 Nell’immaginario di un’intera nazione era anche chi tesseva una seconda tela per affrontare una nuova fase della vita. “Gli sta a pennello”, “è come tagliato e cucito” (su misura) (’Aleichem, 1894-1916, p. 63 ediz. it. del 1982), sono espressioni che erano d’uso comune all’interno della shtetla.4 Non solo: nella Roma dei papi e dei ghetti, in cui gli ebrei vivevano reclusi in ambienti malsani e sovrappopolati, l’attività di “stracciarolo” era una delle principali professioni ebraiche, le sarte del ghetto erano in grado di fare miracoli nel rammendare indumenti logori e quasi inservibili. Sull’altra sponda del Mediterraneo, a Tripoli, dove sono cresciuto, era normale ascoltare nel dialetto parlato dagli ebrei del luogo frasi come questa, con riferimento alle trattative per un contratto matrimoniale: «Klclu ancià acciarsi, u’ana l’kmasc, Kss ufssl» (“Gli ho detto: tu sei il sarto e io la tela, taglia e progetta”). 2 Bar mitzwah: letteralmente, “figlio del precetto”. Indica la cerimonia per la maggiorità religiosa (tredici anni per i maschi, dodici per le femmine). 3 Chatunah: in ebraico, cerimonia nuziale. 4 Scholem ’Aleikhem – in ebraico, “pace a voi” – è lo pseudonimo utilizzato da Scholem Naumovich Rabinovic, una figura importante della rinascita letteraria in lingua yiddisch e in ebraico. Nato a Peresayavl in Ucraina nel 1859, morì a New York nel 1916. Ai funerali parteciparono circa 100 mila persone. 4 59 Da un’area all’altra, il sarto si presta a essere utilizzato come metafora della vita produttiva ebraica e come immagine simbolica del lavoro analitico: i lavoratori ebrei sono operai tessili, l’analista è il tessitore per eccellenza. Egli è il sarto di una generazione più fortunata che può trasferire nel mondo dei simboli il problema delle misure e delle proporzioni. “Come un sarto” entra in contatto con le realtà profonda del paziente, come un sarto, lavorando insieme al paziente, contribuisce a modellare una nuova veste con cui ripresentarsi al mondo. “Lo psicoanalista è figlio di un sarto” è anche un modo per ricordare quanto legata alla memoria dell’esilio e alla capacità di trasformare il dolore sia la predisposizione ebraica a farsi carico della sofferenza psichica, un modo per riaffermare i legami di continuità tra le generazioni: «Il filo a tre capi – ammonisce il Qohelet – non si spezza facilmente». La psicoanalisi è stata follemente accusata di essere una “ideologia ebraica”, strumento per la “scalata al potere”, “complotto” ai danni della cristianità e della morale. Questo tema è oggetto della seguente storiella: «“Abbiamo sofferto tanto”, dice un ebreo all’amico. “Pogrom, esili, stermini”. “Già”, risponde l’amico. “Vedi però come li abbiamo fregati?”. “E come?”, chiede l’amico. “Non vedi? Con la psicoanalisi!”». Qui l’ebreo fa apparentemente sua la più assurda delle accuse, liberandosene. Oggetto di proiezioni distruttive nella vita sociale, l’ebraismo si riprende una rivincita come “teoria del transfert”. Identificato col “demoniaco” e accusato di deicidio, ritorna nella forma di “teoria dell’inconscio” e si prende una rivincita con una teoria che mette al centro delle sue attenzioni le dinamiche fra genitori e figli. Un trionfo assoluto del narcisismo. «Hada suk l’ihud», recita un proverbio che ho ascoltato fra gli ebrei di origine nordafricana di Parigi, con riferimento alla malattia mentale. Letteralmente la frase significa “Questo è il mercato degli ebrei”, ossia, in gergo mercantile, “Questa è mercanzia ebraica”. La parola suk, nel contesto, significa un intero mondo di competenze e di saperi. Nelle civiltà del Vicino Oriente il suk è un luogo carico di simboli. È una città che può estendersi per chilometri: nel suk si fanno affari, si mangia, si prega e ci si diverte. Vi è il mercato dei tessuti, quello dei fabbri e degli artigiani, dove gli ebrei prima della loro fuga dal mondo arabo hanno svolto ruoli importanti, contribuendo in modo significativo allo sviluppo della società. C’è poi il mercato della frutta e quello del pollame, legato ai prodotti della terra, al cui possesso gli ebrei, in quanto dhimmi, erano esclusi.5 Ogni mercato aveva le sue leggi e le sue regole interne. Vi erano mercati “calmi” e mercati “caldi”, dove bastava poco perché si scatenasse 5 Nella concezione dei conquistatori arabi, gli ebrei, i cristiani e anche gli zoroastriani erano da considerarsi popoli “vinti”, autorizzati a praticare le loro tradizioni in cambio di un atto di sottomissione che comportava il pagamento di tasse particolari e una condizione giuridica e morale d’inferiorità. Da questa condizione di subalternità e dominazione, che nei momenti di crisi del potere centrale esponeva le comunità ebraiche a grandi pericoli, si poteva uscire con la conversione all’Islam (Meghnagi, 2010). 4 60 il finimondo. «Se Dio permettesse a coloro che abitano il Paradiso di commerciare – si legge in una Sunna6 – essi trafficherebbero in tessuti e spezie» (Rodinson, 1966, p. 36 ediz. it.). L’esclamazione «hada suk l’ihud» può quindi essere ritradotta così: “Questo è un luogo in cui l’ebreo è di casa”. Detto da ebrei ad altri ebrei, è una rivendicazione orgogliosa dell’appartenenza e del ruolo svolto nello sviluppo della civiltà umana. All’ebreo si affida il compito di lenire il dolore psichico e di trasformarlo, perché ha saputo trasformare il dolore e ha appreso come non soccombervi. Inscritta in un sistema di segni, la condizione ebraica non può sfuggire al “destino” di essere anche un simbolo. Fingendo di fare sua l’accusa, l’umorista ne evidenzia il carattere paranoico. La “vittoria” e la “vendetta” sono tali solo nella mente dell’antisemita. C’è un antisemitismo nonostante Auschwitz. C’è anche un antisemitismo più subdolo, che non si dichiara apertamente come tale, preferendo declinarsi come “antisionismo” (Poliakov, 1969; Meghnagi, 2010). Una risposta creativa all’angoscia provocata dall’antisemitismo è la storia dei coniugi Katzman, che hanno lasciato Berlino per Parigi. La decisione di trasferirsi è stata presa all’indomani della prima guerra mondiale. I vicini francesi non sanno che sono ebrei, ma sono loro ostili in quanto tedeschi. «“Potremmo tradurre il nostro nome in francese e trasferirci in un altro quartiere dove nessuno saprebbe che siamo ebrei e tedeschi”, dice la moglie. “Mentre io cerco casa – risponde il marito – tu traduci il nostro cognome”. La traduzione ha però un effetto boomerang. Tradotto in francese, il cognome dei coniugi Katzman (“uomo gatto”) ha dato luogo a Shalom!». L’occultamento dell’identità, ammonisce il motto, rischia di peggiorare la situazione. Alla fine, ci si ritrova sul banco degli accusati, con l’aggravante di avere tenuto nascoste le origini per “tramare” contro la società circostante. L’ostilità contro gli ebrei emancipati può essere più violenta. Inoltre, a forza di “occultarsi” il rischio è di finire per “odiare se stessi”. In un modo analogo, due ebrei di Parigi divenuti soci scoprono che l’occultamento, con cui avevano pensato di proteggersi, era esistito solo per loro. Per non dare nell’occhio avevano deciso di chiamarsi Dupont, registrando con questo nome la società. Come nel re che è nudo, tutti sanno, tranne loro, che si sono illusi che basta cambiare il cognome per vivere più tranquilli. «Squilla il telefono: “Hallo, c’è il Signor Dupont?”. “Dupont Perlman o Dupont Jankelevitc?”, chiede la segretaria». Una storiella analoga, ambientata in Inghilterra, racconta di un ebreo nominato lord. Nell’imminenza della Pasqua, il cavaliere è stato invitato con gli altri membri dell’aristocrazia a un ricevimento. Al suo ingresso in sala, la re- 6 La Sunna è il complesso delle tradizioni islamiche che riportano tutto ciò che il fondatore dell’Islam avrebbe detto o fatto. 4 61 gina non riesce a trattenersi ed esclama: «How different is this knight from the other knights!». La moglie, che non capisce bene l’inglese, chiede sotto voce al marito, che le cammina accanto, che cosa stia dicendo la regina. Il marito le risponde: «Parla piano, è dei nostri. Sta recitando la Haggadah!».7 Giocando sulla confusione della parola knight (cavaliere) con night (notte), con cui ha inizio il racconto del Seder di Pesach, il motto ottiene un mirabile risultato. La regina aveva esclamato: «Come è diverso questo cavaliere dagli altri cavalieri! ». Ma lui aveva pensato dicesse: “Come è diversa questa sera dalle altre sere!” («Ma nishtannah hallailah hazeh miccol halleloth»). Un altro gustoso esempio è il racconto di Yaakov Cohen, un ebreo in viaggio a Londra. L’uomo, di pelle nera, ha un accento oxfordiano. Incuriosito dal suo portamento, un viaggiatore inglese intrattiene con lui una lunga conversazione. Al momento di separarsi, l’inglese si presenta: «È assurdo che nel mondo ci sia ancora il razzismo». Non rendendosi conto del razzismo veicolato dai suoi complimenti, aggiunge: «Lei è la dimostrazione vivente che si può essere neri e dei veri lord. Permetta di presentarmi. Mi chiamo Harold Smith». «Lieto di conoscerla, Signor Smith. Il mio nome è Yaakov Cohen». Colto alla sprovvista dalla scoperta che il suo interlocutore, oltre a essere nero, è anche ebreo, il Signor Smith non riesce a trattenersi: «Ah! Pure Ebreo!». Il tema dell’antisemitismo ritorna in un’altra storiella, che ha per oggetto la figura di Giovanni XXIII. La scena si svolge a New York in una sinagoga riformata, al termine della cerimonia del Kippur.8 Il Rabbino annuncia che Giovanni XXIII sarà considerato “giusto fra le nazioni” per la meritevole azione svolta togliendo dalla preghiera del venerdì il riferimento ai “perfidi giudei” e per aver contribuito con la sua azione ad abolire l’accusa di “deicidio”. Fra il pubblico c’è anche un rappresentante della Chiesa americana, che all’epoca del Concilio Vaticano II si era attivata in tal senso. La sinagoga è gremita, la gente commossa. All’uscita una bambina si rivolge alla madre: «“Mamma, se noi non abbiamo ucciso Gesù, chi è stato?”. La mamma, colta di sorpresa, ha un attimo di esitazione. Sorridendo la nonna risponde: “Oh, my darling, Portorican of course!” (“Oh, mia cara, sono stati i portoricani!”)». Il bisogno di avere qualcuno di esterno su cui dirottare le tensioni interne al gruppo è una caratteristica umana. Le comunità rinsaldano la propria alleanza proiettando all’esterno l’aggressività accumulata e non trasformata. In situazioni di guerra, il nemico può cessare di avere sembianze umane, le sue qualità negative possono essere ingrandite sino all’inverosimile. Il motto ammonisce le vittime di ieri a guardarsi bene dalla tentazione di identificarsi con l’aggressore spostando su altri l’aggressività che prima era rivolta contro di 7 Haggadah di Pesach è il racconto dell’Esodo. Si recita la sera di Pesach (la Pasqua ebraica), prima del pasto. 8 Il Kippur è la più importante ricorrenza ebraica: giorno di perdono e di riconciliazione in cui è d’obbligo digiunare da un tramonto all’altro per espiare i peccati e rinnovare i rapporti con Dio e con gli uomini. 4 62 loro. La memoria della schiavitù in Egitto – ammonisce il motto – non serve a coltivare il rancore per le sofferenze subite, né autorizza lo spostamento dell’aggressività verso altri più deboli per sentirsi “uguali”. Un’ultima storiella completa il quadro: «Tre madri ebree vantano l’amore dei rispettivi figli. La prima si vanta dei preziosi regali fatti dal figlio. La seconda dice che il figlio la va a trovare tutti i giorni; rientrando da un viaggio passa prima da lei, e solo dopo va dalla moglie. “Tutto questo è niente!”, esclama la terza. “Mio figlio paga un famoso dottore e ci va quattro volte alla settimana. Sapete perché? Solo per parlare di me!”». Le storielle sulle mamme jiddish sono innumerevoli e hanno fatto la fortuna dei romanzi e dei film ebraici americani. In un gioco di specchi che si riflettono a vicenda, le madri WASP9 sono “fredde” e “scostanti”, e perciò hanno figli “freddi” e “distanti”. La madre ebrea è al contrario “iperprotettiva” e perciò ha dei figli “buoni” ma “ipocondriaci”. In questa situazione, al giovane ebreo non resta altro, per sfuggire all’eccesso di amore della madre, che il lettino analitico. Ma anche così non ha scampo. Di quello non ebreo non si parla nemmeno. In un trionfo di narcisismo, tutto si svolge all’interno. Il figlio ebreo cerca in queste storielle di liberarsi dalla logica di un ricatto senza fine, ma invano. Qualsiasi cosa faccia, resta il beniamino della madre. Quale più grande testimonianza d’amore di un figlio che paga ad alto prezzo un dottore per parlare solo di lei! In una gustosa variante della stessa storiella, una madre ebrea chiede al figlio, di ritorno dopo la prima seduta d’analisi: «Cosa ti ha detto il dottore?». «Niente», è la risposta. «Come niente?», ribatte la madre. «Non lo so. Il dottore mi ha detto che ho il “Complesso di Edipo”». «Ma che cosa è questo Edipo? ». Spiegarlo non è facile. Il figlio ci prova. Al termine della spiegazione, dopo un breve silenzio imbarazzato la madre sbotta: «Ma che Edipo, Shmedipo. 10 Basta che vuoi bene alla mamma!». In una di queste storielle, un ragazzo chiede al suo maestro: «Perché Gesù era ebreo?». La risposta: «Perché visse con la madre sino a trentatré anni, credeva di essere figlio di Dio e voleva fare il mestiere di suo padre». In una variante di questa storia il maestro aggiunge: «La madre gli credeva...». Considerazioni conclusive Nate in ambiente americano, in condizioni di maggiore libertà, le storielle riportate conservano l’eco di una cultura in cui le donne hanno portato il peso più grande per la conservazione del gruppo di appartenenza, e i figli hanno rischiato di essere schiacciati dal senso di colpa. In un gioco di specchi, la 9 WASP è il noto acronimo di White Anglo-Saxon Protestant. 10 Shmedipo è una canzonatura del termine Edipo; nel gergo yiddisch si usa aggiungere il prefisso sh per svalorizzare un termine. 4 63 madre è rappresentata in modo caricaturale ma allo stesso tempo elevata al grado più grande per il suo spirito di abnegazione assoluta per il bene dei figli. Basti pensare, per contrasto, alla “freddezza” delle “madri WASP” che con la loro “freddezza” simboleggiano il rifiuto di cui gli ebrei sono oggetto. Il motto fa emergere i dilemmi di questa madre la cui vita, nell’immigrazione americana, è stata sconvolta, una madre che lotta per salvare l’unità del gruppo dalle spinte centrifughe e dagli opposti richiami cui è esposto: i figli si staccano da lei per seguire le abitudini di vita dei loro coetanei WASP. Hanno scelto di abitare da soli. Sono in fuga dal loro mondo e non vogliono mettere su una famiglia ebraica. Nelle sue notti insonni la madre si domanda: “Continuerà mio figlio la vita dei suoi avi? Avrà figli ebrei?”. Per parafrasare Elias Canetti (1960), la massa, di per sé esigua, è alle prese col deserto, si assottiglia ancor più e teme di scomparire. Chi conosce dall’interno la vita tradizionale ebraica sa quanto forte sia questo richiamo e quanta sofferenza ingeneri nelle comunità più piccole, coinvolgendo i singoli in un fardello di responsabilità cumulative per la continuità del gruppo. Che poi, nella realtà, e anche dal punto di vista religioso, i problemi possano essere declinati diversamente, è un’altra questione. Per parafrasare un antico midrash,11 lo stesso Mosè non fu forse “tentato di sfuggire” alla sua condizione di ebreo quando dimenticò di circoncidere il figlio? Per questo rischiò la morte e fu salvato solo dall’intervento della moglie Zipporah. 12 Il motto non lo dice apertamente, ma la madre, quando compare nelle storielle ebraiche, è anche metafora dell’ebraismo. «Si è ebrei se figli di madre ebrea»: così stabilisce la Halachà.13 È un fatto carico di significati e di implicazioni che fa da controcanto alla rappresentazione della madre. L’ebreo che fugge dalla madre senza riuscirvi è allo stesso tempo alla ricerca di sé in fuga da se stesso. Com’era accaduto per Mosè di fronte al roveto, la fuga ha come contraltare l’inseguimento interiore. L’ebreo vorrebbe fuggire dal Sinai, ma il Sinai, una parte più profonda, lo insegue! Nella poesia qabbalistica, Rachel che piange i suoi figli è insieme immagine di Israele e della Schekhinah, la parte femminile di Dio, il suo manifestarsi 11 Midrash, dalla radice ebraica d-r-sh, è il commento al testo biblico. Nella tradizione ebraica vi sono quattro livelli dell’interpretazione: il pshat, che rappresenta la lettera del testo; il remez, ossia l’allusione; il drash, rappresentato dal commento; e il sod, che è il significato esoterico. 12 Il midrash è riferito all’episodio della circoncisione del figlio di Mosè. Secondo l’interpretazione che ne dà Rabbi’ Eleazar di Modi’in, Mosè avrebbe ceduto da giovane alla richiesta del suocero Jetrò di allevare il primogenito come pagano in cambio della figlia Zipporah. Il midrash riflette la situazione dell’ebraismo alle prese con gli editti dell’imperatore Adriano dopo la repressione della rivolta del 135 d.C. 13 Halakhah significa, letteralmente, “la strada da seguire”. Con questo termine s’intende la norma codificata a maggioranza. Nella giurisprudenza talmudica, la posizione espressa dalla minoranza è anch’essa “figlia della Voce” e va incorporata nel testo. 4 64 come grembo materno, che contiene e consola. La Sulamita bruciata dal sole del Cantico dei cantici, che cerca il suo amato e non lo trova, è stata per le generazioni dell’esilio l’immagine del gruppo “abbandonato” dal suo Dio, un Dio che dopo lo zimzum14 vive al suo interno una condizione d’esilio e ha perciò bisogno di “aiuto” (Meghnagi, 1982, pp. 109-115; Jonas, 1984, pp. 438- 452 ediz. it. del 1986). Con quella madre l’ebreo dell’emancipazione conduce una tremenda lotta simile a quella del patriarca con l’Angelo, e la psicoanalisi è un suo commento scritto per una generazione uscita dai ghetti, ma in realtà mai pienamente accettata. La madre, che fraintende il senso di quell’andare in analisi, finisce per dire la verità ultima sull’analisi stessa e sul significato che la scelta del figlio avrà nell’evoluzione del loro legame. Grazie all’analisi la madre è riscoperta nella sua alterità: ritrovata e amata. Mitema ebraico per eccellenza, la madre rappresenta l’ebraismo da cui il figlio può aver desiderato staccarsi e separarsi, e con cui non ha smesso di lottare alla ricerca di un proprio spazio di esistenza individuale. La psicoanalisi è uno strumento elaborato da un’intera generazione per quella lotta, e si rivela così in ciò che di più prezioso contiene: la vera fedeltà implica sempre un atto trasgressivo. Il superamento nel suo significato più profondo non è dato dalla ribellione o al contrario dalla sottomissione alle leggi e all’ideologia del gruppo, bensì dalla capacità di stabilire un legame creativo col proprio passato che permetta di discernere e scegliere ciò che è vitale da ciò che invece può essere dannoso per la salute dell’individuo e del gruppo. Grazie alla presenza di un Super-Io amico che sostiene l’Io nel suo difficile cammino di trasformazione, sarà possibile costruire una propria esistenza individuale distinta. Un nuovo motto, insegna Freud, è quasi un avvenimento d’interesse generale e passa da una bocca all’altra come la notizia della più recente vittoria. Il riso rimanda alla nascita imprevedibile di Isacco, che significa appunto risata. Nel racconto biblico dell’incontro di Abramo con l’Angelo, venuto a dirgli che avrà un figlio dalla moglie ormai novantenne, Sara sorride. Nelle fiabe il riso della principessa è il segno che l’aspirante sposo sarà accettato. Qui vi è una donna anziana, di novant’anni, che non si capacita e coglie l’aspetto umoristico dell’annuncio. Avendo riso (zachaqah) alle parole dell’angelo, per volere divino il figlio fu chiamato Itzchaq (Isacco). C’è da chiedersi se il nome di Isacco non contenesse in sé l’esperienza traumatica dell’Akedah, il legamento15 14 Tzimtzum (o tzim tzum) è un’antica parola ebraica che significa letteralmente “contrazione”, ed è utilizzata originariamente dai qabbalisti in riferimento all’idea che per rendere possibile la genesi Ein Sof (la Divinità prima della sua auto manifestazione) si “ritrasse” da sé facendo così spazio alla Creazione. 15 La parola ‘Akedah significa in ebraico “legamento” e non “sacrificio”, com’è spesso erroneamente tradotto in ambito cristiano, quasi a voler significare con ciò un’anticipazione del tema cristologico della crocifissione. 4 65 di Isacco cui sarebbe stato sottoposto in seguito con il comandamento di sacrificarlo al Signore. Nel racconto biblico il Signore interviene quando Abramo sta per sacrificare il figlio della promessa, il frutto del suo amore più grande, la persona più cara. Il monoteismo nasce con l’abolizione dei sacrifici umani, e Isacco che l’ha scampata porta nel nome l’esperienza del riso, che è appunto sospensione del giudizio di morte. Il Talmud racconta che tra le dieci cose create che esistevano nella mente divina prima della creazione ci fosse l’animale che avrebbe sostituito Isacco. Nella mente esiste una possibilità di sostituire la logica del processo primario e di quello secondario con quella di un processo “terziario” che li contiene entrambi ed è apparentabile all’arte e alla letteratura. Al vittimismo e all’odio il motto contrappone una logica che oltrepassa il registro dell’accusa e delle controaccuse. L’ausilio che pone in atto implica un dispendio culturale, che trova la sua validità nella capacità di evocare in modo creativo e innovativo regolarità naturali. Per parafrasare ancora il testo biblico, «Ve nattatì lekhà et hamavet ve-et hachaim, ubachartà bachaim» (“Ed io ho posto dinanzi a te la morte e la vita, ma tu sceglierai la vita”). In tal senso la psicoanalisi è una storia ebraica, e Freud l’autore del motto di spirito più riuscito (Meghnagi, 1985, 1992, 2011). Abstract. Freud attribuiva all’umorismo e al motto di spirito (Wizt) un ruolo rilevante per la comprensione della vita culturale ebraica e del suo ethos. Nella pratica clinica ci si è interrogati sul significato dell’umorismo nei suoi aspetti difensivi e creativi, di allontanamento dell’ansia e di creazione di significati nuovi. L’analogia con i processi di creazione artistica e letteraria ha spinto in molti a parlare, nel caso dell’umorismo, della presenza di un processo terziario, distinto da quello primario e secondario. Attraverso l’analisi di alcune storielle ebraiche, viene proposta una riflessione sulle strategie dell’umorismo in risposta alle sfide poste all’esistenza ebraica. L’umorismo ebraico è articolato: non “censura” l’accusa, sembra “far sua” l’accusa. In realtà la depotenzia facendo scaturire significati nuovi che rendono l’accusa ridicola e aumentano la gamma delle conoscenze, invitando al pensiero complesso con effetti catartici e liberatori. L’analisi delle storielle diventa un viaggio nella storia e nella cultura ebraica.