Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 20/10/2014, a pag. 35, con il titolo "Gerusalemme, silenzio , parlano i muri", il reportage di Elena Loewenthal sulla capitale di Israele.
Gerusalemme, immagini della Città Vecchia Elena Loewenthal
La salita è incerta. Bisogna andare piano, guardare bene dove si mettono i piedi per non rotolare giù nell’intrico di canne ed elastici. Ma una volta in cima, il panorama ripaga dello sforzo e dissipa i dubbi: Gerusalemme si dispiega sotto lo sguardo con le sue macchie di verde, la selva di gru della città moderna in continua costruzione, l’ombra dei monti di Moab in una lontananza irreale e bluastra, oltre il Mar Morto. E soprattutto la pietra onnipresente fra cielo e terra: chiara, quasi bianca, qua e là striata di ocra. La pietra di cui sono fatti i suoi innumerevoli muri, alcuni celebri, altri discussi, la più parte inosservati in questa città che è il simbolo stesso dell’eternità.Ma che dall’alto del Big Bambù, installazione creata al Museo d’Israele da Doug e Mike Starn, assume un volto nuovo.Questa enorme, fragile e provvisoria struttura che è non tanto un’opera d’arte quanto una sfida al tempo fermo di Gerusalemme, alla sua natura di pietra, è l’ideale punto di partenza per un viaggio diverso dal solito nella città, complice l’iniziativa «Open Houses » che ha consentito di visitare centinaia di edifici pubblici ma soprattutto case private di particolare significato - e suggestione. Sono i muri, in fondo, a raccontare questa città. Come quello della Kishle, straordinario esempio di tempo adagiato a strati su questa terra. Accanto all’edificio, c’è la stazione di polizia della Città Vecchia. Qualche volante parcheggiata, un silenzioso cortile interno. Sul tetto piatto si affaccia il cancello arrugginito della vecchia prigione ottomana, con il perimetro delle celle quasi intatto. Su un muro, accanto a un angusto spioncino, sono ancora riconoscibili una scritta in ebraico e una mappa della terra d’Israele: opera di un prigioniero ebreo, militante sionista, che Amit Reem, responsabile degli scavi archeologici, è riuscito a identificare. La sua squadra ha sventrato l’edificio, portando alla luce una strabiliante stratificazione: sotto la prigione i resti crociati, quelli del palazzo di Erode il grande, e sotto ancora dell’epoca dei Maccabei. Ma ancora più in basso ecco le tracce del regno di Ezechia (VIII-VII secolo a. C.). Come ere geologiche sulla pietra, questa successione di epoche a vista sarà visitabile in un prossimo futuro, entro il percorso del museo «Torre di Davide» - anche se il re biblico qui non c’entra. Ma a Gerusalemme è sempre un po’ così: muri, nomi, tempi sembrano fatti apposta per confondere la memoria. Come quando si va a trovare Rachel Netanel nella sua casa di Ein Kerem: un verde sobborgo della città alla cui fonte i Vangeli narrano l’incontro fra Maria ed Elisabetta. La casa si affaccia su un vecchio cimitero islamico, e buona parte dei suoi muri ha ottocento anni. Il salotto è pieno di luci, ombre e simboli ebraici. Bisogna solo fare attenzione a non battere la testa contro lo spunzone di ferro che un tempo serviva per tenerci legato l’asino. Rachel è un fiume in piena quando ti racconta di come ha voluto questa casa, contro tutto e tutti. Vicini ebrei e musulmani, archeologi e autorità. Nel giardino c’è sempre un gran viavai di gente, racconta con slancio. Si definisce «ebrea messianica», nel senso che da ebrea crede in Gesù messia, e propone a tutti il suo sincretismo entusiasta e in vago odore di New Age, mitigato dalla saggia accoglienza delle mura quasi millenarie. Decisamente più recenti sono quelle della «Casa Hansen», che è un modo gentile per dire «lebbrosario», usando il nome dello scienziato che studiò la cura per questa sindrome. Solo quattro anni fa l’ultimo malato ha siglato la totale riconversione della casa in sede distaccata della Bezalel School, l’accademia di arti di Gerusalemme. La lebbra è ormai memoria del piccolo museo, ma le mura circostanti incutono ancora un certo timore nella gente del quartiere, che si teneva alla larga per evitare un improbabile contagio. Ci sono muri e muri, a Gerusalemme. Anche se la pietra è sempre la stessa. Varcato quello della soglia di casa Efklides, non lontano dalla via chiamata «Emek Refaim» («valle degli spettri»...) ci si ritrova catapultati in un altro mondo. Il custode della residenza parla perfettamente ebraico e greco, ed è membro della piccola comunità di greci legati al patriarcato ortodosso. Cimeli dell’epoca ottomana, paesaggi di mare, patenti in ebraico, ninnoli in perfetto stile mediterraneo costellano i muri e raccontano la storia di una delle tantissime presenze di questa città cosmopolita ante litteram. Così come il vicino cimitero dei Templari, con il basso muro di cinta e le lapidi in gotico. I Templari dell’era moderna erano protestanti tedeschi convinti che fosse imminente il ritorno del Messia e partiti per la Terra Promessa ad aspettarlo e allestire i «templi» per la sua accoglienza nei luoghi dove era già passato. Il cimitero è suggestivo per il suo essere così fuori luogo in questa città. Qualche decennio dopo il loro arrivo, i pacifici e operosi templari fondarono a Tel Aviv la prima sezione del partito nazista fuori della Germania… e furono cacciati dagli inglesi che all’epoca governavano la Palestina. Ma quando si dice muri di Gerusalemme non si può non dire Città Vecchia, rinchiusa entro l’imponente cinta voluta dal Saladino. Qui, nel quadrante ebraico che insieme a quello arabo, cristiano e armeno popola lo spazio millenario, Miriam Siebenberg apre le porte di casa sua e per prima cosa ti porta in cantina. Dove, invece dei vini a invecchiare, lei tiene un museo archeologico con muri vecchi quasi tre millenni, venuti alla luce con il cantiere di casa, negli Anni Settanta. Sopra i resti dell’epoca del primo Tempio di Gerusalemme l’architetto ha giocato con la luce, di cui questa città è particolarmente generosa. Le bianche pareti movimentate e una sequenza di scale portano al tetto terrazza dal quale sembra di poter toccare la cupola d’oro, sulla spianata. Poco più in là, il monte degli Ulivi con la sua macchia verde e senza soluzione di continuità la distesa di tombe del cimitero ebraico. Pietra su pietra, Gerusalemme parla con la luce, con i muri, con le voci di chi la abita, un po’ per devozione e un po’ per un genere tutto speciale di follia che non è propriamente una sindrome ma un effetto collaterale di questa sua bellezza che toglie il fiato e allarga il cuore.
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