Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 15/10/2014, a pag. 3, con il titolo "Chi sono i curdi fascisti-sunniti che menano i curdi in Turchia", l'analisi di Daniele Raineri.
Daniele Raineri
Il simbolo di Huda Par Resistenti del Pkk
Roma. La battaglia di Kobane riporta in vita una lotta di curdi contro curdi nel sud della Turchia – si tratta di una rivalità che negli anni Novanta fece 500 morti, soprattutto in forma di esecuzioni e di vendette. Da una parte c’è il partito islamico Huda Par, che può essere descritto come ultraconservatore sunnita nel programma e fascista nei modi. L’Huda Par è la reincarnazione legale spuntata a fine 2012 di un gruppo ormai sciolto che si chiamava “Hezbollah”, il partito di Dio, come quello libanese, ed era influenzato molto dall’Iran di nuovo come il movimento sciita libanese – ma le similitudini finiscono qui (la grande distinzione di partenza è che Huda Par è sunnita e di questi tempi confondere sunniti e sciiti è un disastro, specie dalle parti del confine con la Siria e l’Iraq dove il partito è molto forte). Una traduzione libera del nome turco Huda Par è: “Sul sentiero di Dio”. Dall’altra parte nella lotta ci sono i manifestanti vicini in qualche modo al Partito comunista del Kurdistan (Pkk), o che ne fanno direttamente parte. Gli scontri in strada tra i due schieramenti – curdi islamisti e curdi comunisti – si confondono nello scontro più grande tra la polizia e i curdi che ricordano la violenza degli anni Ottanta e Novanta: trenta manifestanti morti, 350 feriti, più di mille in carcere, soldati e carri armati schierati nelle strade e coprifuoco imposto in sei città. La protesta violenta è contro il governo del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che non apre un piccolo segmento di frontiera e non lascia arrivare i soccorsi al cantone di Kobane assediato da più di tre settimane. In generale, i curdi in strada sono in stragrande maggioranza – forse in massa – più vicini alle posizioni antigovernative del Pkk, esasperati dall’inerzia deliberata dell’esercito turco davanti Kobane e convinti che – come dice il Partito – “del governo turco non ci si può fidare”. Gli islamisti dell’Huda Par stanno con la polizia, ma non sono ideologicamente schierati con lo Stato islamico, fin dalle parole che usano nei loro discorsi: “Daesh”, che è il termine arabo dispregiativo per indicare il gruppo di Abu Bakr al Baghdadi. Sebbene la Turchia abbia sacche di simpatizzanti dello Stato islamico, Huda Par non è un serbatoio di reclutamento per i volontari che partono per la Siria – almeno: finora non c’è alcun collegamento. Come non c’è collegamento con i giovani che con mazze e coltelli minacciano gli studenti che a Istanbul manifestano contro lo Stato islamico. Piuttosto l’ispirazione di Huda Par è il gruppo palestinese Hamas. La decisione di fondare il partito dopo i guai con la giustizia per i gruppi precedenti è stata caldeggiata da Khaled Meshaal, capo politico di Hamas, quando ancora viveva a Damasco sotto l’ala protettrice del presidente Bashar el Assad. A conferma di questo posizionamento di Huda Par nella gamma dei movimenti sunniti c’è il fatto che lo Stato islamico non sopporta Hamas, che considera troppo morbida e compromessa con Israele e l’Egitto (sì, questa nozione potrebbe essere discussa). Entrambe le parti in strada sostengono che il governo di Ankara sta con l’altra. Il sindaco di Diyarbakir, una delle città dove le proteste curde sono state più violente, dice che quelli di Huda Par sono “il piano B” del governo, sanno che possono usare le armi e attaccare le manifestazioni con il consenso tacito di Ankara e con la protezione della polizia. Avrebbero, insomma, quel ruolo informale di repressione contro le proteste che in Siria è toccato agli “shabiha” e in Egitto ai “baltageya”. Il portavoce dell’Huda Par accusa Ankara di essere invece in combutta con il Pkk e di non volere rovinare il processo di pace: “Il governo ha lasciato il sud-est del paese al Pkk per non danneggiare il processo di pace. In quel vuoto di potere, il Pkk sta estorcendo denaro e ha aperto le proprie corti di giustizia. Dominano la regione. Quando il nostro partito è stato attaccato, nessuno è intervenuto per ore. Se non c’è stato, allora i cittadini si proteggeranno da soli”.
Nel nome di Saladino Domenica aerei turchi hanno bombardato postazioni del Pkk, dopo che per tre giorni avevano sparato contro un avamposto dell’esercito nella regione di Daglica, nel sud-est del paese, ha scritto ieri il giornale turco Hurriyet. Non succedeva da due anni ed è un segno di crisi in quel processo di pace tra Pkk e governo che stava andando avanti con lentezza da ghiacciaio e che ora sta per saltare a causa della battaglia di Kobane (se la città cade – ha minacciato il Partito comunista – ripartirà la nostra guerra contro la Turchia). Appena al di là del confine, attorno alla piccola enclave siriana che resiste allo Stato islamico, è stata la giornata con più missioni aeree americane: 23 bombardamenti per aiutare gli assediati, che hanno recuperato posizioni e hanno spinto indietro i baghdadisti verso i quartieri a est, quindi verso il lato da cui sono entrati. I raid aerei americani hanno ucciso secondo alcune fonti locali anche Abu Khattab al Kurdi, nome di battaglia di uno dei leader dell’offensiva dello Stato islamico sul cantone di Kobane e tutta l’area attorno. Il ruolo di al Kurdi era rimasto sconosciuto fino a pochi giorni fa, quando sui social media sono cominciate a circolare sue foto – forse per sottolineare che ci sono anche curdi che combattono il jihad e secondo le stesse fonti sono circa 400. Al Kurdi sarebbe di Halabja, quindi della zona dell’Iraq del nord colpita con armi chimiche dall’esercito di Saddam Hussein venticinque anni fa. La presenza di curdi nell’offensiva contro le aree curde non è una sorpresa, considerato che all’interno dello Stato islamico prevale sempre l’elemento religioso su ogni altro. Un esempio su tutti: il condottiero medievale Saladino, di origini curde, che guidò l’esercito islamico in battaglia contro i crociati ed è oggi ammiratissimo nel jihad moderno. Curdi contro curdi contro altri curdi, gettati sui lati opposti di linee di separazione ideologica o religiosa che attraversano Turchia, Siria e Iraq, e condannati a combattersi.
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