Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 12/10/2014, a pag.1-25, con il titolo "L'importanza di un Iran 'normale' ", l'analisi di Roberto Toscano.
Leggendo l'analisi dell'ex ambasciatore Roberto Toscano ci chiediamo per l'ennesima volta quali possano essere i motivi per cui è stato assunto come editorialista alla STAMPA. Quando scrive dell'Iran, i suoi pezzi sembrano veline dell'ambasciata iraniana a Roma, non analisi serie di un esperto equilibrato. A Toscano andrebbe attribuito il "premio Igor Man", che il quotidiano torinese appioppa a tutti i propri collaboratori, volenti o nolenti, costretti a riceverlo a denti stretti. Toscano considera unicamente gli interessi del regime di Teheran, che l'Iran sia il centro del terrorismo internazionale, che finanzia abbondantemente, viene ignorato del tutto. L'uso dell'arma nucleare per colpire Israele non viene menzionato, al contrario Israele e Usa vengono dipinti come Stati che si oppongono al benessere del popolo iraniano. L'Iran è "un paese serio e stabile in una regione instabile", cita da Roger Cohen del NY Times, il Toscano del quotidiano newyorchese. Che l'instabilità sia provocata dall'Iran stesso è un'ipotesi che non lo interessa.Descrivere l'Iran come un paese con "crescenti dosi di pluralismo" sarebbe ridicolo se non fosse tragico. Così là dove Toscano scrive che il sistema iraniano "non è ideologico".
Termina con una affermazione da super-velina "L'Iran non è un dossier nucleare, è un Paese. Un Paese importante".
Una risposta alla domanda che ci ponevamo all'inizio, sta un po' a vedere, non ci saranno mica pesanti interessi Fiat in quel Paese che sta tanto a cuore all'editorialista-velinaro del quotidiano della Fiat ?
Chiediamo ai nostri lettori di scrivere al direttore della Stampa Mario Calabresi, ponendogli la stessa domanda. La mail è a fondo pagina.
Ambasciara Iran a Roma Roberto Toscano
Ecco l'articolo:
Visitare Teheran quando si avvicina la scadenza, il 24 novembre, dell' «Interim Agreement» sulla questione nucleare iraniana concluso nel novembre dello scorso anno (e prorogato in luglio) è fonte di non poche sorprese. Per prima cosa, la città non sembra certo la capitale di un Paese in ginocchio, e nemmeno messo veramente alle strette dalle conseguenze delle sanzioni. Colpisce poi un evidente calo della tensione psicologica prodotta dalla drammaticità degli scenari che prima dell'elezione di Rohani e della svolta nel negoziato nucleare facevano temere un attacco americano o israeliano. Non solo a Teheran si è convinti che l'irrompere sulla scena regionale della sfida dello Stato Islamico non permetta a Washington di aprire un altro fronte di scontro militare, ma si spera che finalmente gli americani prendano atto del fatto che, come ha scritto pochi giorni fa Roger Cohen sul New York Times, l'Iran è «un Paese serio e stabile in una regione instabile». Questa speranza di una normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti, passaggio obbligato verso una normalizzazione dei rapporti dell'Iran con il mondo, accomuna la stragrande maggioranza degli iraniani» A Teheran si fa notare che la vera garanzia contro un simile passaggio non sarebbe certo di natura tecnica ma politica, come dimostra il caso del Giappone, che - date le capacità avanzate raggiunte dalla sua industria nucleare - sarebbe in grado di costruire armi nucleari con un ridotto «breakout time», ma che nessuno pensa potrebbe farlo dato il costo che questa opzione comporterebbe per il Giappone dato il suo inserimento sia economico che politico nella comunità internazionale. In effetti, appare evidente che non solo l'Iran non è la Corea del Nord, ma che nessuno in Iran, nemmeno i più oltranzisti di regime, pensa che il Paese potrebbe permetterselo. Ma è appunto la questione di un pieno inserimento dell'Iran nella comunità internazionale, piuttosto che la questione nucleare, ad essere la posta in gioco più importante. Lo è certamente per Israele, ma anche per i Paesi del Golfo, in primo luogo l'Arabia Saudita. Quando israeliani e sauditi chiedono agli americani di essere intransigenti sulla questione nucleare non è perché temano davvero di poter diventare un giorno oggetto di un attacco atomico, ma piuttosto per il timore che un rientro a pieno titolo di Teheran sulla scena internazionale, con la rimozione dell'handicap nucleare, possa aprire la strada ad un'egemonia regionale dell'Iran. Ma se è vero che l'egemonia dell'Iran è inaccettabile, una sua esclusione è impossibile, se non a prezzo di conseguenze molto negative sia per il popolo iraniano che per la stabilità regionale. Nel valutare l'impatto di un successo o insuccesso del negoziato nucleare, non ci si dovrebbe tuttavia limitare alla dimensione internazionale. A Teheran, anzi, ci si rende subito conto del fatto che la vera posta in gioco è di natura interna. Quello che si deciderà entro il 24 novembre - o forse anche oltre, visto che non è da escludere un'ulteriore proroga - è il futuro della presidenza Rohani, e di quello che essa significa come prospettiva di una graduale apertura del sistema politico iraniano verso crescenti doti di pluralismo e modernizzazione non solo economica. Rohani infatti ha ottenuto dal Leader Supremo l'autorizzazione a condurre un serio negoziato nucleare, ma Khamenei ha accompagnato questa autorizzazione con ostentate espressioni di sfiducia nei confronti della buona volontà americana, evitando così di dare un avallo incondizionato. Va ricordato che il sistema iraniano, nonostante le apparenze, non è ideologico, ma è piuttosto caratterizzato dalla capacità di «cambiare registro» a seconda delle circostanze. Rohani ha fmora messo in sordina quelle che sono le sue priorità (non certo misteriose) su questioni come le sorti di Moussavi e Karroubi, dal 2009 agli arresti domiciliari, o gli spazi per la società civile, ma solo un successo nel negoziato nucleare gli permetterebbe di consolidare il governo e affrontare in chiave di cambiamento una più ampia gamma di questioni politiche. E' quindi legittimo da parte dei negoziatori americani ed europei esigere dall'Iran tutte le garanzie possibili per far sì che un accordo sia sostanziale e credibile («Trust but verify», come diceva Ronald Reagan ai tempi del negoziato strategico con i sovietici). Non andrebbe però dimenticato che un eventuale fallimento del negoziato comporterebbe una fine prematura del tentativo, sostenuto dalla maggioranza degli iraniani, di conseguire l'obiettivo di un «Paese normale» - sia sotto il profilo internazionale che sul piano interno - e darebbe invece respiro e forza politica a quelle correnti che, pur minoritarie, hanno mantenuto un peso non trascurabile all'interno del regime, e che attendono un fallimento del negoziato per tornare alla chiusura militante e al rigore ideologico. L'Iran non è un dossier nucleare, è un Paese. Un Paese importante. Sarebbe opportuno che non lo si dimenticasse, e che prevalessero, giunti a questa fase cruciale del negoziato, sia il realismo politico che un'etica della responsabilità. A Washington, ma non solo: l'Europa non può certo accodarsi, sia per il proprio interesse nel rispetto dei propri principi, all'oltranzismo di chi fa finta di non capire il senso politico, e le vaste implicazioni, della questione nucleare iraniana. Un oltranzismo che finisce per far convergere chi, a Washington e a Teheran, spera in un fallimento per conseguire finalità che non hanno molto a che vedere con le armi nucleari o la sicurezza.
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