Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 09/10/2014, a pag. 1, con il titolo "In guerra il dominio dei cieli non basta a sconfiggere il nemico", l'analisi di Gianni Riotta; dal FOGLIO, a pag. IV, con il titolo "La disfatta di Obama", l'articolo di Carlo Panella.
"Obama sembra così confuso in questo periodo... che persino chi è suo alleato... non è suo alleato"
LA STAMPA - Gianni Riotta: "In guerra il dominio dei cieli non basta a sconfiggere il nemico"
Gianni Riotta
Rattenkrieg, guerra da topi, chiamavano la battaglia di Stalingrado, i fanti tedeschi, combattendo casa per casa, nelle fogne, contro i soldati del generale russo Chuikov, alla fine del 1942. «Gli animali scappano da questo inferno ardente, le pietre si sciolgono, solo gli uomini resistono» scriveva un veterano di allora. Oggi la guerra da topi si combatte a Kobani, al confine tra Siria e Turchia, assediata su tre lati dai fondamentalisti dell'Isis e difesa da disperati miliziani e civili curdi. I raid dell'aviazione Usa non fermano l'offensiva Isis e l'opinione pubblica mondiale si chiede perché una coalizione che comprende l'esercito più formidabile e tecnologico della storia e vari Paesi arabi, non abbatta le nere bandiere Isis.
Per comprenderlo - scrive la rivista Foreign Policy - il 13 e 14 ottobre il Capo di Stato Maggiore americano generale Martin Dempsey incontrerà a Washington una ventina di Paesi della coalizione anti-Isis tra cui Regno Unito, Francia, Belgio, Danimarca, Arabia Saudita, Emirati. Non confermata, ma possibile, la presenza dell'Italia: se uno dei nostri militari intervenisse all'incontro farebbe bene a portar con sé una copia originale del saggio «Il dominio dell'aria», pubblicato nel 1921 dal generale italiano Giulio Douhet. Nome troppo dimenticato da noi, ma considerato nelle accademie «il Clausewitz dell'aria», Douhet ebbe vita da film (previde la rotta di Caporetto e dunque, come capita in Italia, il generale Cadorna gli fece affibbiare un anno di carcere militare...), organizzò in Libia i primi bombardamenti da alta quota e lavorò allo sviluppo dell'arma aerea, fino a sognare guerre vinte solo da aerei. La storia, finora, non ha confermato le teorie futuribili del geniale Douhet, «il dominio dell'aria» non basta.
Tra 1944 e 1945, umiliata la Luftwaffe del borioso Göring, gli alleati ebbero il controllo dei cieli sulla Germania. «Bomber» Harris, comandante inglese che coordinava i bombardamenti strategici, si illuse di spezzare la produzione bellica nemica, ma, pur in città rase al suolo l'architetto Albert Speer, cocco di Hitler e responsabile dell'industria militare, riuscì a mantenere ritmi frenetici sfornando armi e munizioni. Dopo la guerra, una commissione alleata, tra i membri il futuro economista kennediano Galbraith, non poté che prender atto, malinconicamente, dello scacco.
Solo 9 anni più tardi, nel 1954, i francesi a Dien Bien Phu, Vietnam, pur controllando lo spazio aereo anche grazie a piloti americani in grado di lanciare paracadutisti in soccorso alla piazzaforte assediata del generale De Castries fino all'ultimo, non riuscirono a impedire né il trasporto dei cannoni del generale Giap (via biciclette...), né l'assalto finale alla piazzaforte, come racconta nel magnifico «Hell in a very small place» il testimone Bernard Fall.
11 anni dopo, nel 1965, tocca agli americani verificare i limiti della teoria di Douhet, in una battaglia poco nota ma decisiva nella valle di Ia Drang. Il colonnello Moore arriva con i suoi elicotteri, che fin lì hanno terrorizzato i contadini-soldato di Ho Chi Minh, spesso poco avvezzi perfino alle automobili. Invece a Ia Drang - la ricostruzione nel film di Hollywood «Eravamo soldati» con Mel Gibson nella parte di Moore - i vietnamiti accerchiano i soldati e colpiscono gli elicotteri, spesso usando la tecnica del «cacciatore di anatre», sparando parecchi metri avanti il rotore, finendo magari falciati dai mitraglieri, ma con il pilota che l'abbrivio trascina tra le pallottole. B52, napalm, deforestazione, bombardamenti su Hanoi e Haiphong non bastano. I vietnamiti creano la loro «rattenkrieg» nei tunnel di Cu Chi, spostandosi, vivendo, armandosi, curando i feriti in un'immensa città sotterranea.
Unica eccezione, che il generale Dempsey e i suoi alleati esamineranno a Washington, è la campagna nei Balcani del generale Nato Wesley Clark, che alla fine degli Anni 90, con una serie coordinata di bombardamenti - l'Italia tra i belligeranti - piega il regime serbo di Slobodan Milosevic. Chiesi a Clark «Prima guerra vinta da Douhet?», sorrise «Per ora sì». Kobani non sarà Belgrado, Milosevic cadde per la politica, non solo per la guerra. I carri armati, l'artiglieria, i sistemi di puntamento Isis sono bersaglio per i raid fino a un certo punto, poi diventa difficile localizzarli, specialmente tra le case. I curdi implorano armi anticarro, visori notturni, munizioni e bombardamenti massicci. I profughi vedono oltre una siepe di filo spinato la fanteria turca Nato in attesa, fermata dal leader Erdogan che intende seminare dissensi tra le fazioni curde e pressare il presidente Obama contro Assad. Conclude l'analista curdo Mutlu Çivirolu «Kobani è un'isola circondata dall'Isis. A Ovest c'è Jarabulus, a Sud-Ovest Manbij, a Sud Raqqa, a Est Tal Abyad» se Kobani cade il regno Isis si connetterà. La Guerra dei topi arriva nel XXI secolo, gli aerei di Douhet non la vinceranno. Servirà la fanteria.
IL FOGLIO - Carlo Panella: "La disfatta di Obama"
Carlo Panella Barack Obama
Barack Obama supera se stesso: continua a ignorare Von Clausewitz e si lancia nella sua seconda guerra, dopo quella di Libia, senza alcuna visione politica. Per di più alleandosi di fatto con nazioni e sanguinari eserciti nemici degli Stati Uniti. Un capolavoro che porta diretti a una nuova Dunkerque, se va bene, a una esplosione sanguinaria di tutto il medio oriente, se va male. Se pensate che sia un’esagerazione, guardate alle conseguenze del primo exploit dell’innovazione nell’arte della guerra perseguita nel 2011 da Obama. Ma, almeno, per la guerra senza strategia politica che ha disintegrato la Libia nel sangue e nel caos, Obama aveva due scusanti. Innanzitutto la pressione di due dilettanti della guerra come David Cameron e Nicolas Sarkozy – con l’appoggio esterno dell’emiro del Qatar – che finsero, tramite al Jazeera, che fosse iniziata una primavera araba libica per cominciare un conflitto che mirava a eliminare la Russia (e l’Italia) dai rifornimenti energetici. La seconda scusante era la sconcertante illusione dei suoi consiglieri, che pensavano che Bernard-Henri Lévy avesse ragione e che esistesse un “rivoluzionario popolo di Bengasi” in armi. Si è visto come è finita: col regalo ad al Qaeda e al Califfato di una inespugnabile testa di ponte nel Maghreb e sul Mediterraneo.
Quanto a oggi, la vergogna della mancata difesa di Kobane, l’insulto dei miseri cinque raid aerei al giorno per fingere di aiutare i peshmerga curdi, sono prove definitive della follia di una guerra obamiana condotta senza principi strategici e senza politica. Questa “non strategia obamiana” è conseguenza diretta di un postulato: “Non siamo in guerra con l’islam”. Affermazione condivisa da David Cameron e Federica Mogherini che condanna alla sconfitta perché non puoi vincere se non comprendi chi sia l’avversario, il nemico. Peggio ancora se il politically correct non ti fa vedere quello che è sotto gli occhi di tutti: combattiamo contro una parte dell’islam. La coalizione obamiana non è in guerra con l’islam – come è ovvio – ma combatte contro uno scisma dell’islam. Contro un Califfato che ha uno spessore religioso – volgare, violento, feroce, inaccettabile – che data secoli. Soprattutto, un Califfato che ha consenso tra i suoi nuovi sudditi, come prova un dato di fatto inequivocabile: a Fallujah, Tikrit e Mosul gli arabi sunniti – tranne pochissime eccezioni – non solo non si ribellano, ma addirittura non fuggono. I profughi iracheni sono i perseguitati: cristiani, sciiti, yazidi, curdi.
Il fatto è che con il Califfato, per la prima volta, si è di fronte a una forza jihadista che è in grado di intrecciare il più brutale governo autoritario del territorio, con una evidente capacità di riscuotere consenso. Consenso probabilmente minoritario (come è in tutte le dittature), ma comunque consenso che si esprime innanzitutto nelle forme tradizionali del raccordo con i capi tribù sunniti, ma anche con la accettazione – sia pure passiva – di parte della popolazione. Un consenso che si basa su un elemento determinante: l’applicazione rigida da parte del Califfato della più tradizionale e millenaria legge islamica (sharia) nella versione hanbalita – versione tradizionalmente seguita, a partire dal XVIII secolo, in larga parte della Mesopotamia. Il consenso non arretra di certo di fronte agli elementi che fanno orrore in occidente. Le uccisioni di massa degli sciiti sono caratteristica storica, sin dalla distruzione del santuario di Kerbala da parte di Abdulaziz ibn Saud nel 1804, e hanno scandito tutta l’attività jihadista in Iraq dal 2003 in poi, con decine di migliaia di vittime sciite di attentati kamikaze. Men che meno la platea sunnita prova orrore nei confronti delle stragi degli yazidi, considerati da sempre dall’islam non già apostati, come gli sciiti, ma addirittura adoratori del demonio. Quanto alla persecuzione dei cristiani, alla distruzione delle chiese e dei crocifissi, all’obbligo alla conversione, il Califfato non fa altro che imporre (con un sovrappiù di violenza) quanto da decenni viene imposto in Arabia Saudita, sulla scorta della sharia hanbalita e degli insegnamenti del teologo medievale Ibn Taymyya. Infine, nulla questio per le popolazioni sottoposte al Califfato quanto alla vendita di giovani cristiane e yazide quali schiave e oggetti sessuali. La schiavitù degli infedeli è contemplata in più versetti del Corano ed è regolamentata dalla sharia. Né l’abolizione ex lege della schiavitù nei paesi islamici (in Arabia Saudita è stata abolita solo nel 1962 e in Mauritania nel 1981) ha comportato la sparizione del fenomeno schiavistico.Tutte le organizzazioni umanitarie da Amnesty International a Human Rights Watch denunciano da anni le sofferenze di centinaia di migliaia di schiavi di fatto (principalmente filippini e pachistani) vuoi in Arabia Saudita, vuoi in vari Emirati del Golfo. Osservazioni scabrose, spiacevoli, dure, ma vere. Questo è il mondo arabo sunnita del Golfo e della Mesopotamia.
Il Califfo Abu Bakr al Baghdadi
Il Califfato è dunque portatore di un “pensiero totalitario” che si impone ed è largamente condiviso, perché è tutto dentro tradizione, pensiero e liturgia religiosa dell’islam. E dato che riesce grazie alle sue fiorenti finanze a diffondere un eccellente welfare islamico, applica la sharia tradizionale e contrasta la dilagante corruzione, riesce a rafforzare il suo consenso a livelli più che preoccupanti. Altro elemento deviante della non strategia obamiana è la convinzione che la causa determinante della nascita del Califfato sia la “sciagurata” invasione dell’Iraq. Una valutazione che stravolge i dati della realtà. Innanzitutto perché la dinamica di scontro feroce tra sunniti e sciiti in Iraq è millenaria ed è ripresa subito dopo la Prima guerra mondiale con una enorme rivolta sciita. In secondo luogo, perché la pur feroce pacificazione dei conflitti che viene da tanti attribuita al regime di Saddam Hussein non era affatto tale. Saddam ha massacrato decine di migliaia di sciiti prima e dopo la prima guerra del Golfo e ne ha affamati centinaia di migliaia prosciugando le paludi del sud. Solo che nessuno nel mondo ne parlava. Caduto Saddam è semplicemente successo che sunniti e sciiti hanno continuato – come sempre – a scannarsi, ma finalmente alla luce del sole, a favor di telecamera. Solo allora il mondo si è accorto di quale vulcano sia l’Iraq. Sia sempre stato l’Iraq (e la Siria). Ma non sa leggerne le cause profonde, intrinseche alla nascita dello scisma sciita proprio in Iraq, nel millenario conflitto tra arabi e persiani.
Per di più, la guerra di Bush aveva sconfitto ed espulso dall’Iraq lo Stato islamico, così come al Qaida e i dirigenti baathisti in clandestinità, col surge condotto (con l’opposizione dell’allora senatore Obama) dal generale David Petraeus nel 2007-2008. Il ritorno dello Stato islamico in Iraq e la sua straordinaria avanzata sono stati dunque prodotti da errori capitali compiuti da Obama: non avere mantenuto una pressione militare in Iraq permettendo al governo di Nouri al Maliki di sviluppare – in raccordo con l’Iran – una politica settaria contro i sunniti; non avere armato nel 2012 i disertori dell’esercito di Assad che avevano la vittoria a portata di mano, perché agivano sull’onda dell’unica rivoluzione popolare mai scoppiata in un paese arabo; avere puntato tutto sull’appeasement con l’Iran, facendo finta di non vedere che Hassan Rohani ha innescato la crisi di Gaza, la crisi yemenita e ha garantito con pasdaran e Hezbollah quella sopravvivenza di Assad che è stato brodo di coltura per la nascita del Califfato. Quanto alle conseguenze immediate degli errori di Obama, oltre alla vergogna dell’inazione su Kobane, non è necessario aver frequentato West Point per comprendere che i colpi inferti dai raid aerei americani e arabi alle basi di al Nusra e dello Stato islamico in Siria saranno subito sfruttati per una controffensiva di terra dalle milizie di Bashar el Assad. Infatti, superati i primi timori, lo stesso Assad, verificati i target stabiliti da Tampa, constatato che non colpiscono affatto le sue forze e che costringono gli islamisti ad arretrare, permettendogli di avanzare, ha promosso l’operazione: “I raid vanno nella giusta direzione”. La campagna aerea di Siria rischia di favorire un rafforzamento del regime di Damasco. Con questo consolidamento di Assad dovranno peraltro confrontarsi un domani quegli oppositori siriani che solo ora Obama addestra e arma in Giordania. Caos strategico allo stato puro. Non a caso il presidente turco Recep Tayyp Erdogan – che si vanta in pubblico “di non rispondere al telefono a Obama da mesi” – ha avuto tutto lo spazio per mettere il presidente americano con le spalle al muro. Martedì ha dichiarato: “I raid aerei non fermeranno i terroristi dello Stato islamico, ma noi dispiegheremo il nostro esercito in Siria solo se la strategia degli Stati Uniti includerà un piano per il rovesciamento del regime di Assad”. Erdogan è cinico e aspetta che il Califfato massacri i curdi suoi avversari prima di intervenire. Erdogan è doppio, perché in realtà ha favorito in tutti i modi l’affermazione del Califfato. Erdogan è ambiguo, per la sua politica islamista. Ma almeno Erdogan ha una strategia politica e la dispiega in campo militare con la ferocia – eccidio dei curdi incluso – degna un “commander in chief”. Così, sferzato e ricattato da Erdogan, Obama non sa che pesci prendere. Se autorizza Erdogan (e i sauditi) a fare cadere Assad, fa entrare in guerra la sua coalizione contro i pasdaran iraniani che, con Hezbollah, sono gli unici a sostenere il regime di Damasco. Ma questo significa di fatto entrare in guerra con l’Iran. Comporta ribaltare la politica di appeasement con gli ayatollah e scegliere di usurare il regime iraniano con uno scontro militare con i suoi pasdaran su campo terzo, la Siria. Strategia peraltro auspicabile, perfetta, perché punta a indebolire il regime di Teheran schiantando quell’Assad che è un suo indispensabile alleato (come si è visto dall’impegno che ha dispiegato per salvarlo).
Bashar al Assad
Ma Obama non vuole entrare in guerra con l’Iran, non vuole combattere sul suolo né in Siria né in Iran, non vuole scegliere né il fronte sunnita, né quello sciita. Il suo distacco dal principio di realtà e di responsabilità è totale, mai visto in un presidente americano. Per di più Obama, avendo disertato il dossier siriano, non ha un uomo sul terreno che indirizzi i raid che colpiscono obiettivi inutili, e non ha la minima idea di chi intronare a Damasco, una volta caduto Assad. Di nuovo spazio immenso di iniziativa per la Turchia, e l’Arabia Saudita, per manovrare un eventuale regime change. Ma se il quadrante siriano è penoso, il quadrante iracheno è addirittura disastroso con una continua progressione del Califfato verso Baghdad, contrastato solo dai peshmerga con alcune, piccole, vittorie. Sull’orlo del masochismo, il baricentro strategico enunciato più volte da Obama è infatti basato su due principi. Innanzitutto “no boots on the ground” dei militari americani e occidentali. Al loro posto, l’immane compito dello scontro di terra è tutto affidato ai peshmerga e all’esercito iracheno. Invano il generale Martin Dempsey gli ha fatto notare il non piccolo particolare che l’esercito iracheno – se mai è esistito – non esiste più. Dissolto come neve al sole durante la battaglia di Fallujah e poi di Mosul, ha tentato di dare timidi segni di ripresa nelle due controffensive per riprendere Tikrit a luglio, miseramente fallite, e nella difesa (di nuovo fallita) delle poche basi militari rimaste al di fuori del perimetro meridionale sciita. La ragione di questa dissoluzione dell’esercito iracheno è conseguenza diretta della strategia di tutti i partiti sciiti iracheni. Invece di creare un esercito nazionale, che hanno usato solo come greppia per accaparrarsi finanziamenti americani, hanno rafforzato solo le milizie di partito, oggi effettivamente operative e temibili. Se mai riuscirà a svolgere un qualche ruolo, quel poco o nulla che resta dell’esercito iracheno saprà difendere Baghdad e il meridione dall’assalto del Califfato (così come i peshmerga potranno difendere il Kurdistan).
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