Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 08/10/2014, a pag. 3, con il titolo "Battibecchi nei pressi della Farnesina sulla guerra e sull'Iran", il commento di Carlo Panella.
Emma Bonino non è più, per fortuna, Ministro degli Esteri. Pericolo evitato, dunque, come quello di Massimo D'Alema, se fosse riuscito nel suo sciagurato intento di occupare la Farnesina. Toccherà a Renzi decidere, ai primi di novembre, la nomina del nuovo ministro. Augurandoci che non si tratti di Lapo Pistelli, un altro politico che da sempre strizza l'occhio al sanguinario regime degli ayatollah e non perde occasione per condannare Israele,un copia-incolla della linea dalemiana,
La pena per gli omosessuali in Iran: impiccagione
Carlo Panella Emma Bonino Massimo D'Alema
La pagina apre con un redazionale:
Roma. Sullo Stato islamico e su come combatterlo, sul dialogo con l'Iran, sulla coalizione messa in piedi dagli Stati Uniti per intervenire in Iraq e Siria, su come gestire quel groviglio di alleanze sbilanciate e rapporti violenti che è diventato il Medio Oriente, la vecchia amministrazione della Farnesina avrebbe molto da dire. Dentro l'entourage dell'ex ministro degli Esteri Emma Bonino, dicono voci di corridoio al Foglio, c'è scetticismo. Il primo problema è pensare, come fanno America ed Europa, che i musulmani sunniti siano sempre e comunque alleati più affidabili degli sciiti, in particolare dell'Iran. Non è sempre vero, e infatti Bonino è stata il primo ministro degli Esteri italiano a recarsi in visita ufficiale a Teheran per riaprire uno spiraglio di dialogo con l'Iran dopo embargo e sanzioni. E' da una dinamica regionale di contrasto che da sempre governa i rapporti di forza in Medio Oriente che nasce lo Stato islamico. Quella dello Stato islamico non è storia recente, e se il gruppo ha acquisito importanza, si dice nell'entourage di Bonino, è perché l'Arabia Saudita, nel tentativo di contrastare il presidente siriano Assad, alleato dell'Iran, lo ha fornito di appoggio e mezzi. Lo stesso vale per il gruppo qaedista Jabhat al Nusra, con il Qatar come finanziatore. La vera novità degli ultimi anni non è dunque lo Stato islamico, ma il fatto che oltre al conflitto storico tra l'Iran e le potenze sunnite ne esiste un altro, interno al blocco sunnita, tra l'Arabia Saudita (più Emirati Arabi Uniti ed Egitto) e Qatar (più Turchia).
Lo Stato islamico rientra in queste dinamiche, è uno strumento usato dalle potenze regionali per accrescere il proprio peso, e solo dopo che la creatura è sfuggita di mano al suo creatore si è posto il problema della sicurezza. Per contrastare la nuova minaccia gli Stati Uniti hanno aperto un dialogo anche con l'Iran, grazie alla mediazione dell'Oman. Ma nella coalizione militare creata per contrastare il gruppo terroristico ciascuno stato persegue la propria agenda, e il peso dell'Arabia Saudita ha costretto gli Stati Uniti a interrompere il dialogo con gli iraniani. In questo modo, dicono al Foglio, possiamo anche sconfiggere lo Stato islamico, ma il problema non si risolverà se non cambiamo atteggiamento, anzitutto nei confronti dei nostri ambigui alleati che con una mano finanziano i movimenti armati e con l'altra ne denunciano il pericolo. Anche sull'Egitto, ormai inglobato nella sfera di influenza dell'Arabia Saudita e degli Emirati arabi, l'entourage di Emma Bonino avrebbe molto da dire. Dopo la deposizione del presidente Mohammed Morsi da parte dell'esercito egiziano, Bonino è stata l'unica, insieme a Svezia e Polonia, a porre la questione dei diritti umani e della legalità del passaggio di governo, mentre le altre cancellerie facevano la corsa a normalizzare i rapporti col nuovo rais al Sisi, uno che in un anno ha fatto più morti di quanti ne abbia fatti Mubarak in 30.
Abdul Fattah al Sisi Hassan Rohani
Segue il commento di Carlo Panella:
A voler essere cattivi, la prima reazione a queste tesi è chiedere come mai la questione dei diritti umani non sia stata posta in modo duro e crudo dall'allora ministro degli Esteri Emma Bonino proprio ai suoi interlocutori iraniani. La bestialità della repressione in Iran è solida, spessa e ben più grave di quella dell'egiziano al Sisi. Le 450 condanne a morte del solo 2014, regnante Hassan Rohani - "il riformista" - parlano chiaro, anche perché spesso gli impiccati accusati di crimini comuni sono in realtà oppositori politici. A voler essere maligni, si può notare la grave imprecisione: l'Arabia Saudita non ha mai finanziato né lo Stato islamico né al Nusra, ma in Siria ha riversato tutti i suoi appoggi sul Fronte Islamico che li combatte armi alla mano. Così cade parte dell'argomentazione. A voler essere pignoli si deve contestare l'affermazione che la novità di questa fase sia la spaccatura del fronte sunnita-wahabita tra Arabia Saudita e Qatar (e Turchia). Questa divaricazione è in atto da tempo ed è conseguente alla rottura che si è consumata tra Riad e i Fratelli musulmani da un decennio in qua. A voler essere comprensivi si può capire la confusione di chi non ha dimestichezza con la tradizione politica musulmana che ebbe il suo Machiavelli nel Grande Vecchio della Montagna. Il grande teologo sciita-ismailita Hassan al Sabbah praticò una ars politica tutta e solo misurata sulla struttura califfale e di corte del potere, in un mirabile intreccio tra sicari, complotti e contestazioni teologiche della legittimità stessa del potere califfale (questo è oggi il punto dirimente tra sciiti e sunniti). Solo se si ha presente che in tutti i paesi arabi domina ancora il Valentino con la sua corte, non una società e una struttura di potere moderna, tutto diventa chiaro. Inclusa la divaricazione di una casa regnante a Riad che disattende la sua stessa ideologia wahabita, la applica solo quanto a codici formali, per tradirla in pieno quanto ad alleanze internazionali. E qui è il punto. Qui è l'errore marchiano di chi propone la ricerca di un accordo con l'Iran, piuttosto che puntare sull'alleanza con paesi sunniti. In sintesi: sviluppare la strategia di Obama dal 2009 a oggi e abbandonare la strategia del containement dell'oltranzismo iraniano attraverso la "trincea sunnita" perseguita da Condoleezza Rice. Ma, in realtà, l'ipotesi dell'accordo con l'Iran non esiste (come si constaterà ben presto anche col fallimento di Ginevra sul nucleare). Basta avere un minimo di senso della realtà e non basarsi sul wishful thinking, per vedere che con Rohani più che con Ahmadinejad l'Iran ha reso incandescenti tutte le aree di crisi, in funzione acremente antioccidentale. L'Iran, chiunque ne sia il presidente, è strutturalmente antagonista dell'occidente, e la sua trentennale alleanza strategica con Mosca, anche in campo militare e nucleare, non può essere definita solo un accidente, una conseguenza secondaria. Rappresentato da un demagogo cafone come Ahmadinejad o da intellettuali perfettamente capaci di gabbare gli occidentali come Khatami e Rohani, l'Iran si afferma come nazione e come motore della rivoluzione sciita internazionale, in quanto confligge con l'occidente. L'Iran destabilizza il Libano con Hezbollah, eccita e arma in guerre irresponsabili Hamas a Gaza, salva Bashar al Assad in Siria con i Pasdaran. Basterebbe questo per ritenere Teheran impraticabile. Ma non è tutto: il vero motore della rinascita dello stato islamico è proprio l'Iran degli ayatollah. La politica settaria del governo di Baghdad che ha gettato i sunniti nelle braccia di Abu Bakr al Baghdadi non è infatti frutto della follia di Nouri al Maliki, ma dell'influenza settaria del gruppo dirigente di Teheran sui principali partiti sciiti iracheni, Sciri, Dawa e il blocco di Moqtada al Sack. L'illusione che il nuovo premier Abadi abbandoni questa politica è immotivata. L'auspicio che l'Iran sia il perno per combattere i sunniti califfali in Iraq è sintomo di un dilettantismo sconvolgente. Dal punto di vista dei sunniti, è come se si ipotizzasse un intervento in Mesopotamia di Tsahal, l'esercito israeliano. Un oltraggio. Un'infamia. Gli arabi sunniti iraniani infatti si scannano con i persiani sciiti ininterrottamente dal 640 dopo Cristo (500.000 i morti nell'ultimo conflitto cessato solo 26 anni fa). Da parte loro, gli arabi sunniti iracheni dal 1920 in poi scannano gli sciiti iracheni ininterrottamente, col massimo durante il regno di Saddam Hussein che sterminò 50.000 sciiti, tra cui decine di ayatollah e migliaia di mullah. Da qui la "vendetta" di al Maliki. Un groviglio di catene del sangue e risentimenti in cui solo seppe muoversi con successo il generale D. Petraeus col suo "surge", che non a caso Obama contrastò da senatore. All'opposto, prepotenti e storicamente fondate sono le convergenze strategiche tra l'occidente e i paesi sunniti, a partire dall'Arabia Saudita. Nessuna omogeneità ideologica o di principio (figurarsi!) ma una certezza che va oltre i comuni interessi energetici (non poca cosa): il loro patrimonio di migliaia di miliardi di petrodollari è investito nell'economia occidentale. E', materialmente, nelle casseforti americane ed europee. E dipende dal valore del dollaro. Per di più, è gestito da manager occidentali per la semplice ragione che la loro arretratezza culturale - fatte salve poche eccezioni - non ha prodotto élite manageriali competenti. Gli sceicchi non hanno mai impiegato le loro migliaia di miliardi per creare sviluppo nei loro paesi, né industria, né agricoltura, né tecnologie, né ricerca. Al massimo, speculazione fondiaria da nababbi mal arricchiti con le varie "palme" invivibili e invendute. In più - e non è poco - perno della "trincea sunnita" della Rice sono Abdullah di Giordania e Mohammed VI del Marocco (anti iraniani) che incarnano l'unica ipotesi di sviluppo moderno e democratico dell'islam. Infine, parliamoci chiaro: chi oggi privilegia la strada di un dialogo con l'Iran come Romano Prodi, Massimo D'Alema e altri si fa portavoce di potenti interessi industriali, economici e petroliferi d'Italia, Europa e Stati Uniti. Niente di male, nulla di disonesto, all'insegna del non olet. Basta dirlo. Basta essere trasparenti. Ricordando sempre però che la superficiale conoscenza del contesto arabo-iraniano ha portato danni all'Italia per decine di miliardi di euro (condotte a Bandar Abbas, Bnl-Atlanta, fregate vendute a Saddam, ecc...). Detto questo, chapeau! Qui si ripropone con fervore la strategia mediorientale di Obama, proprio nel momento in cui si rivela senza appello fallimentare. Prova encomiabile di generosità.
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