Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 08/10/2014, a pag. 15, con il titolo "Raid contro l'Isis poco efficaci, l'America prova ad accelerare", la cronaca di Maurizio Molinari; dal FOGLIO, a pag. 1, con il titolo "Se cade Kobane, cadiamo tutti", l'analisi di Daniele Raineri.
Curdi in fuga presso Kobane, al confine tra Siria e Turchia: le milizie Isis continuano ad avanzare
LA STAMPA - Maurizio Molinari: "Raid contro l'Isis poco efficaci, l'America prova ad accelerare"
Maurizio Molinari
I raid della coalizione contro le posizioni dello Stato Islamico (Isis) a Kobani fanno entrare la campagna aerea in una nuova fase: quella degli scontri ravvicinati con le forze avversarie. Anche perché finora le bombe non hanno fermato gli jihadisti. Tanto che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha ribadito la necessità di un intervento di terra per salvare la città curda oramai sul «punto di cadere». Ma alle sue condizioni: no fly zone in Siria e rimozione di Bashar al Assad.
La svolta di Kobani «Da 48 ore la coalizione ha iniziato a fare sul serio a Kobani» osserva Jeffrey White, analista militare del Washington Institute, spiegando che «in precedenza gli attacchi aerei erano stati pochi e inefficaci» mentre «adesso puntano a eliminare postazioni Isis davanti a quelle curde» nel tentativo di «cambiare in extremis le sorti della battaglia». La svolta di Kobani «coincide con quanto sta avvenendo da domenica a Ovest di Baghdad - continua White - dove il Pentagono ha iniziato a impiegare gli Apache per favorire gli iracheni negli scontri ravvicinati». In entrambe le situazioni si tratta di attacchi a bassa quota e ciò significa che a dirigere il fuoco di precisione «c'è probabilmente personale militare a terra, americano, britannico o australiano». Può essere «un passo avanti verso l'intervento di terra - osserva White - e conferma come questa campagna aerea è progressiva, progettata per espandersi nel tempo».
I primi obiettivi Quando il presidente Barack Obama ordina l'inizio dei raid sull'Iraq l'8 agosto aerei, droni e missili del Pentagono «colpiscono in gran parte blindati, tank, artiglieria e basi» osserva Jack Murphy, veterano del III battaglione di Rangers ora alla Columbia University di New York, «mentre hanno meno successo contro leader, centri di comando e controllo, e snodi logistici perché nessuno sa bene dove siano». È un esordio che consegna alla coalizione dei successi. «A Sinjar l'assedio alla minoranza yazidi viene rotto e le postazioni Isis attorno alla diga di Mosul e in altre località dell'Iraq vengono spazzate via» dice Jonathan Schanzer, ex analista di intelligence del ministero del Tesoro Usa, ma poi «Isis ha adottato le contromisure, evitando di spostare mezzi incolonnati e imbandierati, sparpagliando le unità, rendendosi meno visibile ai voli di ricognizione».
Bersagli siriani Dal 22 settembre Obama estende le operazioni alla Siria. «La maggiore novità è l'attacco del 25 settembre ai pozzi di petrolio controllati da Isis, in Siria e in Iraq - osserva White - perché colpisce le loro entrate economiche». Per il resto i raid si concentrano su bersagli di Isis simili a quelli colpiti in Iraq ma c'è una differenza tattica: gli obiettivi in Siria sono di più, perché è qui che Isis è nata, mentre gli aerei impiegati sono meno perché gli altri occidentali non partecipano e gli alleati arabi contribuisco poco. La coalizione coglie comunque risultati, come a Raqqa, dove l'intervento a sostegno dei peshmerga curdi consente di allontanare i jihadisti dalla città.
I trucchi del Califfo È il generale dell'Air Force Jeffrey Harrigan, titolare della pianificazione delle operazioni, ad ammettere che «nonostante i progressi compiuti, Isis resta combattiva» grazie a contromosse come «disperdersi per non costituire obiettivi visibili dall'alto». Ed a complicare le cose c'è «l'assenza di nostri team sul terreno per valutare l'impatto dei raid perché i partner iracheni e siriani non riescono a farlo». Dopo oltre 3800 missioni e circa 300 attacchi dunque «abbiamo reso più difficile a Isis operare e muoversi ma restano in grado di colpire, fare progressi e controllare territori». Per questo la campagna della coalizione «si dirige verso un passaggio cruciale - assicura Schanzer - trovare l'intesa con la Turchia affinché dia inizio all'intervento di terra».
IL FOGLIO, Daniele Raineri: "Se cade Kobane, cadiamo tutti"
Daniele Raineri
Roma. In Siria il sistema di riscaldamento più povero e comune è la stufa a diesel e brucia un filo denso di carburante che gocciola ipnoticamente nel suo ventre – basta modificare la portata dello sgocciolio per avere più o meno calore. Procurarsi il diesel però ora è più difficile da quando gli aerei della coalizione a guida americana hanno bombardato le dieci piccole raffinerie gestite dallo Stato islamico nella parte orientale del paese. Il Pentagono dice correttamente che quei siti portavano nelle casse del gruppo di Abu Bakr al Baghdadi milioni di dollari di ricavi ogni settimana e andavano distrutti almeno parzialmente, ma per quel fenomeno disastroso di eterogenesi dei fini che in Siria devia ogni buona intenzione adesso tutto il paese affronta una penuria insostenibile di carburante. Anche la parte fuori dal controllo dello Stato islamico, che è la più estesa e di molto; in alcune zone il prezzo è raddoppiato e l’inverno sta arrivando. Per molti commentatori il giudizio su questa guerra aerea vicino e dentro il paese di Bashar el Assad è finora negativo. La campagna contro lo Stato islamico in Siria compie due settimane e quella in Iraq due mesi – i bombardamenti americani sono cominciati l’8 agosto, quando le operazioni avevano una giustificazione diversa, soltanto difensiva. Il Los Angeles Times sostiene che entrambe sono ancora troppo deboli e ricorda che nel 2001 le operazioni dell’aviazione contro i talebani in Afghanistan durarono 76 giorni e furono lanciate 17.500 bombe. Secondo i dati della Difesa americana aggiornati al 1° ottobre, gli aerei hanno fatto cadere 800 bombe su Iraq e Siria. Il Times chiede l’intervento di forze speciali americane a terra perché “questa guerra è troppo aerea”. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, è su una linea simile e ieri ha detto: “Gli aerei non bastano, in Siria serve un intervento con le truppe a terra”. E’ una dichiarazione ufficiale che potrebbe preludere a conseguenze importanti nelle prossime settimane (un intervento di terra a questo punto è proprio quello che anche lo Stato islamico vuole, per ricominciare la guerriglia come negli anni prima del 2011).
Il Wall Street Journal scrive che gli uomini del gruppo di Abu Bakr al Baghdadi si sono adattati in fretta alle nuove condizioni, si spostano di notte, in piccoli gruppi, non usano più radio e telefoni per non tradire la propria posizione e riescono a evitare i bombardamenti. L’intelligence americana sarebbe in affanno per trovare bersagli da comunicare ai piloti, e questa difficoltà è tradita dal numero delle missioni a vuoto degli aerei americani, sempre fornito dalla Difesa: 1.700 voli effettuati per colpire 322 obiettivi. Inoltre molti bersagli ovvi erano ormai stati evacuati da tempo. “La maggior parte dei campi d’addestramento e delle basi era già vuota quando è stata colpita dalle bombe”, dice Mohammed Hassan, un attivista che si trova nell’est della Siria, una delle aree con la più alta concentrazione di obiettivi. Associated Press scrive che proprio per la lacune nelle informazioni dell’intelligence il Pentagono non sta più rispettando la politica della “quasi certezza di non fare vittime civili” – annunciata dal presidente Barack Obama nel 2013. Quello standard va bene per le missioni sporadiche e su scala ridotta con i droni in Yemen e Somalia, ma la Difesa sostiene che in Siria e in Iraq “è una missione di guerra”, non più di controterrorismo, e che non c’è la possibilità di verificare che i bombardamenti non abbiano fatto vittime civili. “E’ molto diversa per gli scopi e per la complessità – dice Adam Schiff, che fa parte della commissione Intelligence del Senato – penso che sarebbe davvero difficile applicare quelle regole molto restrittive usate in altri teatri d’operazione”. Come l’enclave curda di Kobane, arida ed esposta in teoria agli attacchi aerei, anche Anbar, il più grande governatorato dell’Iraq, sta per cadere quasi del tutto sotto il controllo dello Stato islamico, e gli aerei non cambiano il corso della cose. Gli almeno dodici raid americani nelle aree siriane fuori dal controllo di al Baghdadi hanno ancora obiettivi vaghi: in teoria c’è il cosiddetto Gruppo Khorasan, secondo la Casa Bianca, formato da una ventina di veterani di al Qaida arrivati dall’Afghanistan. In pratica finora sono morti soprattutto volontari occidentali del jihad, inglesi e olandesi, e si dà la caccia a un disertore dell’intelligence francese.
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