La Guerra contro l’Isis e la coalizione Usa
Commento di Zvi Mazel
(Traduzione di Angelo Pezzana)
Barack Obama Abdel Fattah Al Sissi
Il Medio Oriente
Il destino non è stato benigno con il presidente Obama, che ha ammesso per ben due volte negli ultimi giorni di aver fallito. Nel programmare una strategia adeguata contro l’Isis, e, peggio ancora, di aver fallito nell’ottenere in tempo reale l’informazione su quella che stava per essere la minaccia più grande per l’Occidente. Adesso si sta sforzando di convincere sempre più stati arabi a unirsi nella grande coalizione che sta costruendo per dimostrare che invece di combatterli li difenderà contro la minaccia del terrorismo. Subito dopo il barbaro assassinio di Steven Sotloff, Obama aveva affermato che quegli assassini non rappresentavano nessuna religione, insistendo sul fatto che Isis – lo Stato islamico di Iraq e Siria – non rappresentasse l’islam.
Il presidente ha sempre dimostrato la sua simpatia verso l’islam, esprimendo la volontà di voltare pagina dopo decenni di conflitti politici e militari che avevano convinto i musulmani che gli Stati Uniti erano contro l’islam, opprimendoli senza alcun motivo. Simpatia che non è venuta meno nemmeno dopo l’11 settembre. Nei suoi interventi al Cairo e Ankara, subito dopo essere stato eletto, aveva cercato di convincere il mondo musulmano che l’America non nutriva alcuna ostilità. Si era impegnato a liberare i detenuti di Guantanamo, cancellare il sostegno a Mubarak, far cadere Gheddafi, far rientrare i soldati dall’Iraq, ha ignorato per troppo lungo tempo la crisi siriana (malgrado avesse affrontato il problema delle armi chimiche), aveva posto un limite di tempo alle truppe in Afghanistan e sviluppato i contatti con i Fratelli Musulmani, credendo che rappresentassero l’islam moderato e che avrebbero promosso democrazia e sviluppo nei Paesi arabi. Aveva anche cercato di raggiungere un “accettabile compromesso” con l’Iran sul programma nucleare. In breve, ha gradualmente disimpegnato gli Usa dal Medio Oriente, senza alcuna considerazione verso i suoi vecchi alleati, l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo. Abbandonato a se stesso, l’Iraq ha iniziato a disintegrarsi. L’Egitto, per decenni il più forte alleato dell’America, veniva “ punito” per essersi liberato della Fratellanza Musulmana, infatti è ancora in attesa che gli vengano forniti gli armamenti americani da lungo attesi.
Tutto questo mentre le organizzazioni terroriste islamiche, al di fuori di ogni controllo, erano impegnate a indebolire il fragile equilibrio della regione, nel tentativo di imporre con la forza un rinato Califfato, sia in Medio Oriente che nel mondo. L’aver scoperto troppo tardi l’esistenza della minaccia dell’Isis, il presidente del paese più forte al mondo può soltanto balbettare che non sa che pesci prendere e che i suoi famosi servizi di intelligence sono stati sorpresi mentre tranquillamente dormivano. Si impone una domanda: questi servizi non saranno stati ingannati dalla rosea immagine dell’islam che ha il loro presidente? Infatti il segretario di stato Kerry sta cercando disperatamente di fare entrare paesi arabi nella coalizione contro l’Isis. Arabia Saudita, Giordania e Emirati del Golfo hanno – con riluttanza – aderito. Dopo tutto Al Qaeda, Isis e altri movimenti jihadisti sono il risultato della rigorosa cultura ed educazione wahabita basata sulla Shari’a che domina da decenni in questi stati.
In Arabia saudita, per esempio, un recente sondaggio indipendente ha rivelato che il 93% della popolazione sostiene fanaticamente l’Isis, come avviene probabilmente anche in altri paesi.
Ma l’esercito iracheno, composto da più di mezzo milione di soldati, armati e istruiti dall’America, non regge l’urto di poche migliaia di terroristi. Arabia Saudita e Emirati non sono in grado di combattere l’Isis a causa della impreparazione dei loro relativamente piccoli eserciti. In caso di sconfitta, questi regimi autocratici non avranno la forza di reagire. L’esercito giordano è più forte e meglio organizzato, ma avrebbe difficoltà a combattere da solo, e comunque è impegnato a difendere il regno minacciato dalla crisi siriana e da possibili attacchi da parte dell’Isis al suo confine con l’Iraq. L’Egitto, grazie al suo esercito forte e disciplinato, con il controllo del Canale di Suez e degli spazi aerei al confine con la Siria e l’Iraq, avrebbe potuto – e dovuto – essere il nerbo della coalizione. Sfortunatamente le relazioni fra Il Cairo e Washington non sono sufficientemente buone. Il presidente egiziano non si è rifiutato di aderire alla coalizione, ma ha detto chiaramente che il suo paese non invierà truppe nelle operazioni di guerra. Ha aggiunto che la coalizione avrebbe dovuto mirare a colpire tutti i movimenti terroristi, non solo l’Isis, per esempio i Fratelli Musulmani e i loro alleati Ansar Al Makdess e altri, sottolineando l’urgenza di una strategia regionale per poterli sconfiggere. Ha poi ricordato a Washington che l’embargo sulle forniture militari da lungo attese – inclusi gli F16 e gli elicotteri Apache – era ancora in vigore, malgrado le promesse di Kerry. L’Egitto sta ora combattendo il terrorismo non solo nel Sinai, ma anche al confine con il Libano. L’incontro da lungo tempo atteso tra Obama e Abdel Fattah al Sissi non ha portato ad alcuna svolta. Obama ha affermato che l’Egitto era stato al centro della politica americana per decenni nel Medio Oriente, ma molti osservatori hanno rilevato l’uso del verbo al passato. E Ben Rhodes, vice consigliere per la sicurezza di Obama, dopo l’incontro ammise con imbarazzo che Obama aveva chiesto alla controparte la liberazione dei giornalisti di Al Jazeera e che si era lamentato a proposito dei diritti civili in Egitto. I due leader si erano trovati d’accordo sull’importanza di mantenere buone relazioni fra i loro paesi e che i rispettivi ministri degli esteri avrebbero continuato a dialogare sulle prospettive strategiche. Secondo i media egiziani Sissi aveva criticato la politica americana di fronte ai pericoli che l’Egitto stava affrontando. In altre parole, Sissi si impegnava con la coalizione, senza però distogliere attenzione e energie nella guerra al terrorismo interno. L’isolamento dell’Egitto, inoltre, avrebbe facilitato attacchi da altri movimenti terroristi, non escluso Isis. Fintanto che Obama non ripenserà la sua strategia globale – e la sua politica verso l’Egitto – questo paese rimarrà a tutti gli effetti fuori dalla coalizione. E ora? Saranno sufficienti i raid aerei da soli a fermare e sconfiggere Isis? Sono in pochi a crederci. Chi vincerà alla fine? E che cosa rispondere alla domanda più importante, a chi toccherà affrontare il terrorismo in Medio Oriente e nel Nord Africa ?
Zvi Mazel è stato ambasciatore in Egitto, Romania e Svezia. Fa parte del Jerusalem Center fo Public Affairs. I suoi editoriali escono sul Jerusalem Post. Collabora con Informazione Corretta.