E' morto ieri Vittorio Dan Segre. Ce l'ha fatta a vivere, malgrado la malattia, fino al giorno in cui il suo ultimo libro ha fatto bella mostra di sè nelle librerie. Chi lo conosceva, lo sapeva bene, nessuno si è stupito, ha tenuto duro con la caparbietà che l'ha sempre contraddistinto.
Per ricordarlo, riprendiamo dalla STAMPA i pezzi di Maurizio Molinari e Alain Elkann. Dal GIORNALE, al quale è stato fedele sino all'ultimo, dopo l'uscita dal Corriere della Sera con Indro Montanelli, alcuni brani della sua autobiografia appena uscita.
Vittorio Dan Segre
La Stampa-Maurizio Molinari: " Dan Segre, il nostro Risorgimento, da Govone a Gerusalemme"
Maurizio Molinari
Faceva yoga con David Ben Gurion e fu reporter di Indro Montanelli, con la divisa della Brigata Ebraica salvò molti orfani della Shoah in Italia e dalle cattedre di Haifa e Lugano ha avvicinato l'Europa a Israele e viceversa. Vittorio Dan Segre, morto ieri a Torino a 92 anni, è un protagonista del Novecento che ha incarnato la sovrapposizione tra Risorgimento italiano e sionismo ebraico. Nella casa di famiglia a Govone la stanza con i cimeli di Arturo Segre, padre di Dan e ufficiale della Reale Cavalleria, è a fianco di quella in cui il figlio ha raccolto le testimonianze di un'avventura sionista - mostrine militari, medaglie, feluche e riconoscimenti di ogni tipo - che iniziò con l'emigrazione nella Palestina del mandato britannico per fuggire dalle leggi razziali del 1938, ovvero il tradimento del Risorgimento per cui il nonno aveva sguainato la sciabola. Volontario nella Royal Navy contro i nazisti e soldato della Brigata Ebraica, Dan Segre risale l'Italia con i liberatori svolgendo una delle numerose missioni segrete della sua vita: bussa alle porte dei conventi per riprendersi i bambini ebrei orfani a causa della Shoah. In alcuni casi trova ampia collaborazione, in altri riscatta i bambini con sacche di dollari. Prima di impiegarlo nella Penisola, il comando britannico gli aveva affidato la sezione Radio italiana clandestina delle trasmissioni anti-fasciste: la sede era in un monastero sulle pendici del Monte Zion, poco distante dal luogo del Cenacolo, e fu lì che si trovò all'improvviso come assistenti due italo-americani «amici» del boss Lucky Luciano che inviavano nell'etere i messaggi per preparare lo sbarco in Sicilia del 1943. Durante la guerra d'indipendenza di Israele del 1948 Dan Segre è nei ranghi del Palmach, conosce Ben Gurion e tra i due si crea un'amicizia basata sul comune hobby per lo yoga. «Con Ben Gurion parlavamo sempre stando a testa in giù», amava ricordare. Diplomatico di carriera con la passione per l'Africa, autore di una dozzina di libri - l'ultimo, Storia dell'ebreo che voleva essere eroe, autobiografico, è uscito in questi giorni per i tipi di Bollati Boringhieri - tiene a conservare un legame intenso con l'Italia ed è assieme a Indro Montanelli nel 1974 quando viene fondato Il Giornale. Gli resterà accanto nella sfida della Voce, condividendo l'idea di Italia e Israele volti complementari di un Occidente assediato da mille pericoli e altrettanti nemici. Nulla da sorprendersi se è a lui che Gianni Agnelli si rivolge, all'inizio degli Anni 70, per andare in Israele. A breve distanza dalla Guerra dei Sei Giorni. l'Avvocato vuole sapere tutto della piccola nazione riuscita a sbaragliare gli eserciti arabi. Entrano assieme nella cucina del premier Golda Meir, incontrano Yizthak Rabin eroe della riunificazione di Gerusalemme e lo scrittore Amoz Oz gli apre le porte del suo kibbutz. «Accompagnai l'Avvocato e Donna Marella a prendere il tè a casa Oz - raccontava -, Agnelli ascoltò a lungo senza parlare. Poi chiese: "Splendida uguaglianza, ma come si fa quando una 'compagna' nasce brutta?". E la risposta di Oz fu: "E un problema di cui il socialismo reale preferisce non occuparsi"». Gli ultimi anni della vita li ha dedicati all'Istituto di Studi Mediterranei dell'Università di Lugano, approfondendo la convinzione che nel futuro di Israele c'è uno status di neutralità simile a quello degli elvetici, perché «gli ebrei non appartengono a blocchi». Abile nelle provocazioni intellettuali, a suo agio nelle polemiche letterarie - come quella contro Lettera a un amico ebreo di Sergio Romano - e dotato di una memoria enciclopedica, Dan Segre resta soprattutto l'interprete della parabola dell'Ebreo fortunato, che diede il titolo al libro di Bompiani del 1985 ancora oggi in vendita da Barnes & Noble a Manhattan perché descrive il successo nel trasferire la tempra del Risorgimento da Govone a Gerusalemme.
La Stampa-Alain Elkann: " Un ebreo piemontese fortunato"
Alain Elkann Vittorio Dan Segre
Vittorio Segre o Dan Avni, come lo chiamavano in Israele, era come si definì egli stesso nel suo bel libro autobiografico «un ebreo fortunato». Fortunato per essere nato in una numerosa e variegata famiglia ebrea piemontese con appendici a Trieste. E per aver vissuto fin da ragazzo per via delle leggi razziali l'avventura del sionismo e della nascita dello Stato ebraico. Vittorio Segre coagulava in un'unica persona il meglio di un grande borghese piemontese, di un israeliano di altissimo profilo intellettuale e di ebreo osservante. Se fosse ancora vivo, chi lo rimpiangerebbe molto sarebbe Indro Montanelli che gli era veramente amico. Vittorio Segre lo divertiva con i suoi aneddoti e le sue eccentricità, e lui lo considerava un ottimo giornalista. Vittorio appariva in Italia poi spariva e tornava in Israele. Questo dava alla sua vita un alone di mistero e di fascino. Lo ricordo il giorno del digiuno di Kippur raccolto nelle sue preghiere al Tempio maggiore di Torino. Il prossimo sabato, appunto il giorno di Kippur, la comunità ebraica di Torino sentirà un grande vuoto. Ora nella nostra numerosa famiglia sono rimasto solo come scrittore. Con Vittorio ci vedevamo poco, ma ci stimavamo e in qualche modo seguivamo strade parallele. Mi auguro che nelle nuove generazioni vi sia qualcuno della nostra famiglia che abbia anche lui o lei, come Vittorio e come me, il gusto dell'avventura, delle radici piemontesi e delle molteplici appartenenze, qualcuno che voglia scrivere, testimoniare e sentirsi "un ebreo fortunato".
Il Giornale-Vittorio Dan segre: " Dalle Missioni in Africa alla guerra dei Sei giorni, 90 anni da protagonista "
Dan Vittorio Segre: "Storia dell'ebreo che voleva essere eroe", Ed.Bollati Boringhieri
Nel suo ultimo libro, scritto durante la malattia, una grande testimonianza di umanità e coraggio.
Pubblichiamo alcuni passaggidell'ultimo libro di Vittorio Dan Segre, uscito pochissimi giorni fa: "Storia dell'ebreo che voleva essere eroe" (Bollati Boringhieri, pagg. 288, euro 16,50): un racconto di una vita vissuta sotto il segno dell'azione e dell'inquietudine, dagli anni dell'adolescenza in Piemonte alla Palestina prima e dopo la nascita dello Stato di Israele, agii affetti e le passioni, la fede, gli intrecci di bene e di male, lino alle delusioni e ai successi.
Osservandola dall'alto dei miei novant'anni e più, mi sembra che la mia vita sia stata un cocktail di bene e di male, di allegria e sentimentalismo, funestata dal continuo chiedermi: Perché? Perché sono passato indenne fra le gocce di sangue e fuoco che hanno distrutto attorno a me tanta gente, il mio popolo in Europa, un pezzo della mia famiglia bruciato dai repubblichini in un forno sul lago di Garda e tanti compagni di guerra? Perché c'è tanta differenza fra q uello che gli altri vedono in me da fuori e quello che io vedo da dentro? [... ] Mi confortano le lettere e il pensiero che ciascuno deve convivere con il suo dr. Jeckyll e Mr. Hide. Non ho mai capito in cosa consiste quello che la gente e gli psicologi chiamano «io», ovvero ciò che per Jung porta al risveglio, guardandoti dal di dentro. Forse non l'ho. Rileggendo i miei diari e le lettere di affetto di gente che ho dimenticato, mi consolo di aver agito spesso senza farlo sapere. Se questo testo venisse un giorno pubblicato, vorrei potesse essere un atto di allegra confessione e ringraziamento per i doni che ho immeritatamente o per sbaglio ricevuto.
COMBATTERE PER ISRAELE
II capo della nuova e minuscola aviazione Israeliana era Aharon Remez. Lo avevo persuaso dell'utilità di formare un'unità paracadutistica, di aprire la prima scuola e di reclutare un gruppo di volontari. La sua reazione fu tipica della cameraderie e dell'incoscienza che regnava allora in Israele. «Ottima idea» mi disse, «ma localmente irrealizzabile. Innanzitutto perché non abbiamo paracaduti e se anche li avessimo, ci sarebbe il rischio di cadere dentro le linee egiziane. Aspettiamo di allargarle con la nuova offensiva, ma nel frattempo crea la base di quest' unità in Cecoslovacchia, lì è possibile farlo». L'aereo che mi trasportava verso quel Paese sostenitore di Israele era un grosso Liberator acquistato tra i residui di guerra americani. Un paio di volte, così mi dissero, era servito a bombardare il Cairo. Nella mia missione il pilota non ebbe fortuna. Durante l'atterraggio sbattè l'ala del velivolo contro un pilastro e l'aereo toccando terra si spaccò in due: la carlinga in avanti, la coda indietro. In quel preciso istante mi trovavo sul gabinetto. Non ci furono vittime. L'ultima cosa che ricordo prima che mi trasportassero all'ospedale fu la visione di una verde radura in mezzo a grandi alberi.
DIPLOMATICO
Quando la visita presidenziale fu confermata, l'ambasciatore della Costa d'Avorio Moqé, un farmacista trasformato in uomo politico, mi venne a trovare per definire i dettagli. «Ci sarà certo» mi disse, «uno scambio di regali. Posso sapere in anticipo cosa riceverà il mio presidente per poterlo avvisare in tempo?». «Certo» risposi, «il presidente Ben Zvi gli offrirà la tradizionale Bibbia rilegata in argento e la signora Meir probabilmente prodotti artigianali dei nostri artisti yemeniti. Sono molto belli e lei ne va orgogliosa». L'ambasciatore sorrise. «Lei sa» mi disse, «che la faccenda del commercio dei diamanti fra i nostri Paesi è uno dei temi clou di questa visita, ma la decisione sulla vendita dei diamanti che abbiamo scoperto non è ancora stata presa. Israele non è solo un Paese amico, è anche uno dei più grossi clienti per le taglierie che sono al terzo posto nel mondo; per questo è importante che il presidente non ceda alle pressioni del sindacato e della Francia». «Ne sono convinto, ambasciatore, ma non avendo partecipato ai negoziati che sono condotti dal ministero dell'Industria, non saprei cosa aggiungere a quanto è stato detto. Lei ha qualche suggerimento da darmi e d a trasmettere alla signora Meir?». Ricordo ancora lo sguardo malizioso che Mogé mi lanciò prima di rispondermi. «Il presidente sarà accompagnato da una persona che ha molta influenza su di lui. È la sua assistente personale a cui è molto affezionato. A me sembra che regalare un gioiello a questa signora, a ricordo del viaggio, aiuterebbe la felice conclusione del negoziato». Quando informai il capo di gabinetto del ministro degli Esteri della richiesta dell'ambasciatore, scoppiò a ridere: «E tu credi che io abbia il coraggio di andareadire a Golda di regalare un gioiello all'amante del presidente?».
GUERRA DEI SEI GIORNI
Quel giorno, Rosetta (moglie di Segre ndr] era improvvisamente scomparsa dal rifugio, dove con gli altri inquilini e i miei figli aspettavamo che il fuoco cessasse. Andai a cercarla nel nostro appartamento al quinto piano e la trovai che stava lavando i piatti. «Sei matta» le dissi, «non vedi che dalla finestra si vedono i mortai giordani che puntano su questa zona?». «Non vorrai mica che li lasci sporchi se dobbiamo abbandonare la casa, li lavo» mi rispose impassibile. «I bombardamenti americani di Torino sono stati molto peggio».
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