Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 26/09/2014, a pagg. 1 e 4, con il titolo "Moschee super controllate: il proselitismo ora va sul Web", l'analisi di Francesca Paci.
Francesca Paci
Il "jihad digitale"
C’erano una volta il Londonistan, il temibile Centro culturale islamico di viale Jenner a Milano, il focolaio madrileno dove nel 2004 l’intelligence spagnola teneva sotto tiro almeno una moschea su tre. Per 13 anni, dopo gli attentati alle Torri Gemelle, ci siamo concentrati sui minareti cercando nei sermoni degli imam più infervorati la radice dell’odio islamista.
Poi un giorno l’accento british dei tagliagola di al Baghdadi ci svela che Siria e Iraq non sono affatto lontani, che oltre 3000 jihadisti (un quinto della legione straniera del Califfo) arrivano dall’Europa e che con la stessa facilità con cui si sono arruolati con l’Isis tornano indietro per completare la loro missione in Belgio, Francia, Svezia, Regno Unito, Germania, Italia. Come hanno fatto questi pendolari della guerra santa a moltiplicarcisi sotto al naso dribblando tanto gli 007 quanto le mille politiche d’integrazione?
«L’estremismo di Daesh, il cosiddetto Stato Islamico, non cresce più all’interno delle moschee, che sono ormai controllatissime e che pur restando un ambiente salafita hanno dovuto mettere da parte la violenza, ma si propaga attraverso Twitter e le reti sociali» spiega l’orientalista francese Gilles Kepel. Chi aveva letto l’11 settembre 2001 alla luce del suo «Ascesa e declino del Jihad» deve resettarsi sulla mutazione genetica degli eredi di Osama che lui ha iniziato a indagare nel saggio «Oltre il terrore e il martirio». «Il modello di al Qaeda era piramidale mentre quello di Daesh è reticolare» continua Kepel. Vale a dire che i nuovi corrono lesti in superficie.
«Tra gli “eroi” di Twitter ci sono religiosi come il saudita Muhammad al Arefi che è stato messo al bando dall’Ue per istigazione alla violenza sulle donne e all’odio antisemita ma ha 9,4 milioni di followers» nota Ed Husain, l’ex jihadista del Londonistan oggi ascoltatissimo tra gli islamologi, dal Council on Foreign Relations al Foreign Office alla Tony Blair Faith oundation.
Il Regno Unito, secondo Kepel, resta tuttora un polo per il nuovo radicalismo europeo: «Le comunità più calde sono a Birmingham, Bedford, l’est di Londra, poi c’è il Belgio, con la maggiore percentuale di salafiti d’Europa rispetto alla popolazione, in Francia penso a Marsiglia e Roubaix che è un vero nido jihadista». Da Roubaix proveniva Mehdi Nemmouche, il presunto killer del museo ebraico di Bruxelles identificato poi dall’ex ostaggio francese Nicolas Hénin come il torturatore degli occidentali rapiti in Siria dall’Isisi.
«Le moschee sono ormai i luoghi più monitorati d’Europa, chi vuole far qualcosa non va a prendere contatti lì ma chatta, si collega facilmente, in una settimana varca il confine turco, mette una divisa e in tre settimane è sposato e stipendiato» ragiona il sociologo Stefano Allievi, da anni studioso di musulmani nativi e convertiti. Anche l’Italia è un trampolino per il fanatismo di andata e ritorno, sostengono i nostri servizi segreti che finora hanno contato una quarantina di volontari partiti da qui. Ma a detta di Allievi è la natura fluida dell’ultima generazione di jihadisti a rendere insignificante la geografia: «Potrei dire che c’è una certa concentrazione nel nord est e nel centro-nord ma è una questione statistica, in queste regioni c’è più lavoro e ci sono più immigrati musulmani. Il punto non è dove ma chi parte per la Siria o l’Iraq, l’identikit è molto diverso da quello dei qaedisti di Osama. Oggi gli jihadisti sono più giovani, c’è anche una nuova leva di convertiti appena usciti dall’adolescenza, hanno scarsa conoscenza del Corano al punto da essersi informati su manuali tipo «Islam For Dummies», citano poco la dottrina come lo stesso al Baghdadi, ricercano una personalità più che una fede, la sharia è per loro quel che era il socialismo realizzato per i marxisti degli anni ’70 e soprattutto possono arruolarsi senza le complicazioni dell’affiliazione ad al Qaeda evitando i labirinti della struttura segreta di bin Laden: l’Isis ha un elemento seduttivo di eroismo facile, un brand come l’anti-occidentalismo vendibile bene anche in occidente e un campo di battaglia fisico, un po’ come la Spagna nel 1936, vai lì e prendi il fucile».
Racconta lo scrittore americano convertito Michael Muhammad Knight che quando anni fa fu a un passo dall’iscriversi alla guerra santa non trovava ispirazione nei versetti del Corano «ma nei valori libertari assorbiti negli Stati Uniti».
Le comunità musulmane occidentali hanno capito che l’ambiguità genera mostri. Tanto che, dai 120 ulema internazionali pronunciatisi contro al Baghdadi all’università cairota al Azhar al direttore della moschea di Parigi Boubaker, tutti adesso condannano l’Isis (che in Francia viene chiamato col nome arabo Daesh per evitare ogni associazione con la parola islam).
«I paesi musulmani ricchi devono sostenere la nascita di scuole teologiche islamiche in Europa per colmare il vuoto di leadership intellettuale tra i musulmani europei» osserva Felice Dassetto, docente all’università cattolica di Lovanio e anima del Centre d’études de l’islam dans le monde contemporain. Nel suo paese adottivo l’allarme è rosso: 400 jihadisti dell’Isis proverrebbero dal Belgio (18% donne) e un quarto di loro sarebbe già di ritorno dalla Siria. Il gruppo radicale «Sharia4Belgium» avrebbe il compito del reclutamento.
«Un giorno l’Europa si sveglierà in un incubo, il problema non è Daesh ma Daesh dentro casa» insiste l’attivista egiziano liberal Alfred Raouf. Il governo di Hollande ha incaricato la sociologa Dunia Bouzar di studiare i metodi dei reclutatori che, rivela alla «Deutsche Welle» un convertito francese arruolato e poi pentito, si affidano a pifferai del web come Omar Omsen, fiero di aver ingaggiato parte dei 700 combattenti francesi in Siria.
«Più che nelle moschee bisogna scavare nell’ambiente sociale» chiosa Gilles Kepel. La nebulosa da cui emergono ora anche molte jihadiste, attratte, dice la Bouzar, «dal partire per motivi umanitari» e poi perdute.
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