Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 24/09/2014, con il titolo "La presa di Roma: l'ultimo incubo per l'Occidente", l'analisi di Adriano Prosperi.
Prosperi tende a circoscrivere il pericolo del Califfato, ma ne traccia il percorso da Maometto fino ai giorni nostri. Smentisce quindi la teoria che vorrebbe limitare le minacce al solo islamismo terrorista, mentre dimostra nello stesso tempo quanto quest'ultimo rifletta in modo chiaro il percorso millenario dell'Islam religioso, che non è mai stato distinto da quello politico.
Ecco il pezzo:
Adriano Prosperi Miliziani dell'Isis
"Maometto e Carlomagno" di Henry Pirenne
Spezzeremo le croci e faremo schiave le vostre donne». Il nome di Roma si è materializzato all'improvviso nel comunicato dell'Is. E così l'impero è tomato sui colli fatali. Ma questa volta non di un sogno si tratta. Quello che ci si para davanti sembra piuttosto l'incarnazione di un incubo, il ritorno di fiamma di un cupo riflesso periodicamente reviviscente della volontà di potenza: si tratta di fanatizzare i combattenti alla conquista ricorrendo al nome più ovvio, quello che simboleggia da millenni il potere imperiale. E' da Roma che sono nate le scansioni degli imperi storici — la seconda, la terza Roma — è dal nome di Cesare che sono gemmate le denominazioni del potere autocratico russo — lo zar — o germanico ( il kaiser ).
II nuovo impero islamico dovrebbe dunque nascere saccheggiando la città che incarna quel simbolo. Una cosa è certa: il linguaggio di quel comunicato, per quanto fatto di citazioni catechistiche elementari, ha creato un ponte di comunicazione tra loro e noi. E' stato facile notare che chi ha usato queste parole lo ha fatto riprendendole dal Corano e dalla tradizione islamica più antica: ma non dobbiamo dedurre da questo che siamo davvero davanti alla rinascita dell'Islam combattente, di quell' incubo che per secoli ha turbato i sonni dell'Occidente cristiano, quando i pirati turcheschi cercavano di rapire la bella Giulia Gonzaga e a Roma si cantava «A tocchi a tocchi la campana sona/Li turchi so arrivati alla marina». Maometto aveva parlato del Jihad: ma questa parola non aveva per lui il significato militare che doveva assumere in seguito durante l'espansione islamica.
Come hanno osservato gli studiosi più esperti, il termine indicava piuttosto la lotta interiore del credente che investe le sue energie nella ricerca della perfezione. Tra i detti di Maometto c'era — è vero — anche la profezia che un giorno Roma sarebbe stata conquistata. Quella profezia sembrò prossima a realizzarsi quando i saraceni saccheggiarono Lampedusa nell'812, e ancor più quando poco dopo nell'846 risalirono il Tevere con ben settanta navigli e giunsero fino a San Pietro. Ma quella che era in atto allora non era il compimento di un disegno profetico, un intervento divino sul mondo. Era, come dimostrò Henry Pirenne nel suo classico «Maometto e Carlomagno», la grande svolta della storia del mondo occidentale, il mutamento dei rapporti di forza nel Mediterraneo, maturata lentamente e irresistibilmente con la fine dell'unità romana del mondo conosciuto e la nascita della moderna Europa degli stati. Ancora alle parole del Corano si ispirarono i combattenti vittoriosi quando nel 1453 i Turchi conquistarono Costantinopoli. Perché fra i detti di Maometto c'era stato anche l'annuncio della futura conquista di quella capitale dell'Impero romano che anzi, secondo lui, doveva essere la prima ad accogliere la rivelazione del Profeta. Chi oggi ricorre alle parole del libro sacro tenta di risollevare una bandiera antica di fatto ricorre all'antica pratica del mascheramento sacrale delle ambizioni politiche. E' la stessa strategia dei predicatori cristiani delle crociate medievali o degli autori di quei manuali del soldato cristiano che furono stampati nel '500 per incitare al massacro i combattenti delle guerre di religione all'interno dell'Europa modema. La Bibbia veniva saccheggiata per mettere in fila una dopo l'altra le incitazioni più feroci. Sappiamo quante guerre e quanti stereotipi dell'alterità e dell'intolleranza segnarono da allora in poi i rapporti tra i popoli. La tesi del «Dio lo vuole», l'imposizione del dovere sacro di versare il sangue per conto di Dio e in suo nome, furono lo strumento di una smisurata volontà di potenza mirata all'obbiettivo di fare del popolo una massa compatta e obbediente agli ordini dei sovrani benedetti dal clero. Non che mancassero voci più caute e razionali. Basterà ricordare come il massimo teologo della Compagnia di Gesù Francisco Suarez nelle sue lezioni sulla guerra agli allievi del Collegio Romano di fine Cinquecento ( oggi appena edite e tradotte da Quodlibet ), provasse a ragionare a freddo sul problema della guerra giusta: una questione che aveva fatto versare fiumi di sangue e di inchiostro. Suarez levava la sua voce contro i predicatori che brandivano la croce e si mettevano a capo di folle fanatizzate urlando che bisognava vendicare l'offesa fatta a Dio: Dio — osservava il gesuita — non aveva bisogno di uomini per vendicare le ingiurie: se voleva, poteva farlo benissimo da solo.
Per inviare la propria opinione a Repubblica, telefonare 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante