NIR OZ: il kibbutz al confine con Gaza in cui la vita prevale sulla morte.
(Quello che le Jene non dicono)
Israele ogni volta mi lascia la pienezza di avere scoperto quanto viva posso essere mentre i miei piedi poggiano su di lei e nello stesso tempo mi insegna quanto l'assenza da lei può essere dolorosa. Imparo la vita, quella che altrove resta sempre incompleta, desidero ora trovare il modo di dirla. Ci provo dal fondo del mio ultimo attraversamento, da Nir Oz. Nir Oz ci si presenta nei panni di uno dei suoi abitanti, è lui ad accompagnarci in un breve intensissimo viaggio attraverso la terra del kibbutz. Un uomo nodoso, vestito da lavoro, una maglietta bianca, pantaloni corti, sandali, un cappello in testa ad asciugare il sudore. La voce è intensa, parla in maniera fluente e partecipata, non ci sta spiegando, vive la descrizione. Ciò che mi colpisce sono le mani, nodose, callose, un paio di dita hanno mezza falange tagliata, sono mani che lavorano, che prendono con cura, si muovono sapienti quando ci fermiamo a ridosso di una piantagione di rimonim (melograni). Si avvicina ad un complicato intrico di tubi e pompe e ci spiega cosa sia la mancanza d'acqua,come sia possibile coltivare la terra arida del deserto attraverso un controllo preciso di ogni singola goccia. Le piante, basse e piene di frutti rossi sono impolverate, soltanto alcuni rami, quelli cresciuti dopo il conflitto, sono di un verde brillante e si protendono solitari verso l'alto, come se volessero separarsi dal resto della pianta, sofferente. Ci spiega che la polvere sarà un grande problema, mentre parla, la voce calda e arrotolata mescolata al vento, raccoglie una decina di frutti, apre un rubinetto e li lava per donarceli. Mi commuove questo gesto, ogni goccia di quell'acqua è più preziosa di un diamante della stessa grandezza e lui generosamente lava per noi questi frutti, lisci, sodi, succosi. Pochi chilometri da noi il villaggio di Khan Yunis, all'interno della striscia di Gaza da cui è stato scavato uno dei tunnel che esce proprio lì, a poche centinaia di metri da dove ci troviamo. Da quel villaggio sono piovute nella parte abitata del kibbutz 40 bombe nel corso dei 50 giorni di conflitto, sui campi coltivati, dove siamo, ne sono cadute 100. Si tratta di bombe di mortaio, non intercettabili dalla kipat barzel (conosciuto come Iron Dome). Gli abitanti del kibbutz avevano 15 secondi per mettersi al riparo e“quando vi trovavate sui campi come facevate?” non serve comprendere le parole con cui risponde, il gesto delle braccia che cingono la testa e la flessione delle gambe descrivono lo slancio al suolo, la preghiera, unica protezione. Il passaggio dei carri ha distrutto il raccolto ma in queste poche settimane si sono già dati da fare per piantare le patate al posto del grano così da avere comunque qualcosa. Nir Oz vive di agricoltura invernale, dai sui campi nel deserto vengono le verdure che in europa troviamo disponibili quando la terra da noi è ghiacciata. Lo ascolto, osservo l'espressione pacata del suo viso, il sorriso che si allarga dalla bocca agli occhi, luminosi e vitali colmi di una dolcezza che non so raccontare. Nel kibbutz vivono e lavorano 100 famiglie, 500 persone, circa 150 bambini. Vive lì da oltre 50 anni, ci sono stati momenti più tranquilli e momenti meno ma non hanno mai smesso di vivere,sviluppare tecniche di coltivazione sempre più progredite, nel rispetto della terra. Hanno anche un'industria di vernici fatte senza l'utilizzo di solventi chimici. La terra per queste persone è fondamentale, non sono disposti ad abbandonarla neppure sotto le bombe, non sono disposti a sfruttarla, la conoscono, la rispettano,la assecondano, la toccano... Lui ha lavorato sia come agricoltore che come operaio, negli ultimi anni ha cominciato ad andare in giro per il mondo a tenere lezioni e conferenze nelle quali gli viene chiesto di spiegare, condividere le conoscenze agricole maturate nel kibbutz. In Israele è piuttosto frequente incontrare persone, soprattutto nei kibbutz, che lavorano come agricoltori ed operai ma sono anche specialisti, persone in grado di tenere lozioni nelle università di tutto il mondo. La pacatezza delle sue parole ancora risuona dentro di me, in fondo il villaggio dal quale sono partiti alcuni degli attacchi più violenti, il villaggio nel quale è stato rapito l'ufficiale poi trovato morto nei tunnel, una montagnetta di terra dalla quale si apre un aggressione feroce condotta verso una comunità inerme e pacifica che poteva svegliarsi nella notte all'interno di una strage. In tutto questo neppure una parola di lamento, neppure una frase detta per fare provare pietà per alimentare una facile empatia,neppure una parola detta contro quelli che rendono la loro vita così difficile da richiedere l'assistenza psicologica continua per adulti e bambini. Neppure una volta ho visto passare sul volto segnato dal lavoro, nelle mani nodose e delicate che non soltanto hanno accolto ed ospitato azioni cortesi, ma anche la fatica, l'assenza d'acqua, la durezza di un lavoro distrutto da ricostruire interamente, nessun minimo accenno di ostilità. Quest'uomo mi ha insegnato a guardare dentro di me e riconoscere lamia rabbia, il mio risentimento, la mia diffidenza ed a confrontarmi con i limiti profondi che questi sentimenti segnano nella mia vita. Essere a Nir Oz mi ha insegnato che quando hai un lavoro in cui credi da compiere per una comunità che è la tua, sulla terra ostile che hai saputo rendere generosa con l'ingegno e con il lavoro non ti lamenti, combatti la guerra più vera e creativa, con ogni singola cellula VIVI.
Edith Besozzi