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La Repubblica Rassegna Stampa
18.09.2014 Turchia 2014: l'inarrestabile deriva islamista di un paese che fu laico
Analisi di Marco Ansaldo

Testata: La Repubblica
Data: 18 settembre 2014
Pagina: 42
Autore: Marco Ansaldo
Titolo: «Nel cuore del dilemma turco»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, a pagg. 42-43, con il titolo "Nel cuore del dilemma turco", l'articolo di Marco Ansaldo.

Marco Ansaldo             Recep Tayyip Erdogan


Erdogan su un minareto: l'immagine dell'involuzione di un Paese che non molti anni fa poteva dirsi laico

Un chilometro dalI'aeroporto di Istanbul. Quartiere di Bagcilar. Passate le tende della Fondazione musulmana per l'aiuto turco, in una via zeppa di ristoranti di kebab e vetrine di elettronica, un piccolo negozio con il nome Islami Giyim, abbigliamento islamico, vende magliette nere con il logo dell'Is, il Califfato di Iraq e Siria. Su una, a lettere bianche, è scritto «Non c'è Dio ma Allah». Sono le divise indossate dai terroristi. Un'azienda indonesiana, la Zirah Moslem, fiutato l'affare, le vende via Internet a meno di 15 dollari l'una. Le T-shirt della jihad, le magliette della guerra santa.
Ankara. Distretto di Hacibayram. Zona popolare: una scuola, sette moschee. Gli abitanti dicono che qui più di 100 persone sono state reclutate per andare a combattere in Siria. Ai giovani minorenni vengono offerti 150 dollari al giorno. Tre anni fa un residente, Ozguzhan Gozlemcioglu, partito per la città di Raqqa, è diventato in Siria un comandante regionale. Ad Hacibayram guardano online le sue foto, armato di tutto punto. Ma la Turchia, questa Turchia che si esprime nell'Islam sempre più acceso e ormai non più moderato di Recep Tayyip Erdogan, ora eletto capo dello Stato, è con noi o contro di noi? L'anatomia che i Paesi occidentali stanno compiendo sulle reali intenzioni della Repubblica fondata da Ataturk non scioglie il dubbio se Ankara sia da considerarsi ancora un alleato fedele oppure no. Così le domande restano: questo Paese che aspira a entrare in Europa, e che però si è lasciato infiltrare dai terroristi, è davvero in grado di lottare con i tagliagole di Abu Bakr al-Baghdadi? E questo Stato che giura di essere pienamente democratico ( e tuttavia ha i peggiori record per la libertà di stampa ), vuole sul serio far parte della coalizione internazionale nella battaglia contro gli eredi di Al Qaeda?
Asli Aydintasbash è una editorialista del quotidiano Milhyet, appena tornata da una missione nel Kurdistan iracheno, fronte dove i guerriglieri peshmerga curdi combattono con i fanatici del terrore. «Le esitazioni turche sono cornprensibili — spiega — il Califfato ci tiene in ostaggio. Ci rendono indifesi e fragili non solo i 49 rapiti (a Mosul i terroristi tengono sotto sequestro decine di cittadini e diplomatici di Ankara, ndr.) —ma anche il fatto che controllano una parte della regione lungo il confine con la Siria e che centinaia di turchi combattono con lo Stato islamico». L'Occidente però dubita della leadership turca. «Siamo disponibili a missioni di aiuto logistico e di tipo umanitario — è la gelida risposta data dal nuovo premier Ahmet Davutoglu al segretario di Stato americano John Kerry, arrivato ad Ankara in cerca di un sì convinto — ma non lo siamo per una collaborazione militare». Così ora c'è chi parla di «alleato ambiguo» e chi di «amico riluttante». La Turchia potrebbe essere l'asse portante dell'offensiva. Però gli anni in cui il leader di Ankara ha flirtato con i ribelli siriani, situati lungo i 900 chilometri della frontiera porosa con Damasco, nella speranza di far cadere il regime di Bashar al Assad, lo pongono in una situazione di imbarazzo. Erdogan si trincera dietro la paura per i diplomatici sequestrati a Mosul. Ha imposto sulla vicenda il silenzio stampa, e negoziati segreti sono condotti dal suo capo dell'intelligence, il fidatissimo Hakan Fidan. L'accusa che Usa ed Europa però gli muovono è di aver permesso alla Turchia di diventare "l'autostrada" dei jihadisti. Trasformandosi progressivamente in un ostacolo. Con i copiosi proventi del petrolio iracheno niente affatto estranei ai calcoli di Ankara. Sono i dati commerciali più recenti a confermarlo. Una delle attività più redditizie del Califfato è il contrabbando di greggio in Turchia. I terroristi lo esportano illegalmente usando i mezzi più insoliti, dalle taniche a dorso di mulo alle zattere che scendono la corrente dei fiumi. Due milioni di dollari al giorno. Ankara ha chiuso un occhio.
Il duo Erdogan-Davutoglu respinge tuttavia le critiche. Il presidente afferma che è piuttosto l'Europa a dover fermare l'ondata di aspiranti terroristi verso Siria e Iraq. E il primo ministro che i jihadisti provengono ben più numerosi dal Vecchio continente, rispetto agli adepti locali. Il braccio di ferro con l'Occidente, del resto, è cosa nota. L'altro ieri gli strali del leader si sono appuntati persino sulle agenzie di rating, nell'ordine Standard and Poor's, Moody's e Fitch, colpevoli a suo dire di aver abbassato ingiustamente i giudizi di valore sulla Turchia. E un suo ministro si è scagliato contro Wikipedia, bollato per aver definito il presidente come incline a «tendenze autoritarie». Sono poi celebri le avversioni del "sultano" ai social network, con la chiusura a tempo di You Tube, e le minacce a Google e Facebook. Ma è giusto ricordare che Erdogan al turco medio piace, che è stato sempre eletto democraticamente, e per ben 9 volte ha stravinto alle urne. Il confronto si gioca sul piano generazionale. Soprattutto nei grandi centri, e con i media in maggior parte vicini al capo assoluto, sono proprio i social network a costituire la bandiera di libertà per i giovani. E chi non crede più ai giornali o alla tv, rivolge le sue critiche alle autorità via web, sicuro che verranno raccolte e rilanciate. La generazione di Gezi Park, travolta a Piazza Taksim, medita un ritorno organizzato. Di recente il leader, accompagnato da Davutoglu, ha visitato ad Ankara proprio la moschea di Hacibayram, a poche centinaia di metri da un altro luogo religioso usato dai radicali salafiti come posto di reclutamento. Lì in un negozio, un ragazzo di 10 anni è stato udito rispondere al padre che commentava come giusta la decapitazione del reporter americano James Foley perché considerato una spia, «giornalisti, infedeli di questo Paese, li uccideremo tutti». Ma se la politica di stampo confessionale del partito islamico conservatore ha spianato la strada ai successi interni del governo, la spina della Turchia è la politica estera dell'accademico Davutoglu. Teorico dello «zero problemi con i vicini», il "professore" si è infine trovato con tutti i Paesi confinanti contro. Così Ankara, adesso, si vede costretta a cambiare registro. L'Occidente le chiede di schierarsi senza più ambiguità.
La pressione, cui Erdogan pare sensibile, rischia di portare a scenari inediti. I turchi restano perplessi di fronte all'iniziativa europea di armare i curdi iracheni. Farlo finirebbe infatti per legittimare i curdi di casa propria, quelli del Pkk, impegnati nel Nord Iraq a fianco dei peshmerga nella difesa dei pozzi petroliferi contesi dal Califfato. Eppure lo stesso Erdogan, se vuole trasformare la Turchia, come intende, in una Repubblica presidenziale, ha bisogno in Parlamento del sostegno curdo. Il processo di pace lanciato nei confronti della minoranza, con un cessate il fuoco in campo da un anno, va anche in quella direzione. E le trattative ormai palesi nell'isola-prigione di Imrali fra il leader guerrigliero del Pkk, Abdullah Ocalan, e il capo dello spionaggio Fidan, puntano a un risultato sorprendente. Ecco perché da qualche giorno Apo, recluso da 15 anni, si è sbilanciato nel far sapere che «questa guerraè giunta a una fase nella quale potrebbe concludersi». Le antenne europee più avvertite, come quelle dei socialdemocratici tedeschi, hanno colto il segnale e parlano di un futuro storno del Pkk dalla lista internazionale delle organizzazioni terroriste. La strada della possibile riabilitazione di Ocalan, e una sua futura liberazione (era stato condannato a morte) è lontana. Ma non impossibile. Erdogan sa che non può inimicarsi del tutto l'Occidente. Ha detto sì al viaggio di Papa Francesco a Istanbul e Ankara ( fra due mesi ). E i suoi emissari si dicono pronti a collaborare perla difesa dei cristiani in Medio Oriente. Il gesuita padre Paolo Dall'Oglio, rapito in Siria più di un anno fa, viene dato ora per vivo e nelle mani dell'Is. I profughi siriani, nella zona porosa della Turchia di confine, potrebbero sapere qualcosa sulla sua sorte e sul suo nascondiglio.

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