Riprendiamo dal MANIFESTO di oggi, 18/09/2014, a pag. 8, con il titolo "Gaza, non resta che la fuga", l'articolo di Michele Giorgio.
Come al solito Michele Giorgio costruisce il proprio articolo sulla menzogna omissiva, ovvero sul tacere consapevolmente elementi essenziali per la comprensione della situazione e del contesto di Gaza. Lo scopo? La demonizzazione di Israele.
Come vuole la prassi dell'informazione faziosa su Israele, non c'è traccia di termini come "Hamas", "terrorismo", "jihad".
Giorgio si dilunga sull' "oppressione del popolo palestinese", propinando l'idea che sia dovuta a Israele, mentre è determinata da Hamas e dagli altri gruppi terroristi che hanno come obiettivo la distruzione dello Stato ebraico e dei suoi abitanti. Terroristi che, purtroppo, godono spesso dell'appoggio di gran parte della popolazione civile palestinese. La fuga da Gaza, che Giorgio mistifica, dipende quindi da Hamas, non da Israele
Michele Giorgio
Naufragio di immigrati clandestini provenienti da Gaza
Una nuova catastrofe sta emergendo dalle macerie dei bombardamenti israeliani di luglio e agosto su Gaza. «La nostra è una vita in prigione - spiega Abdel Halim Qudaih, di Khuzaa, uno dei centri abitati più colpiti dagli attacchi delle forze armate israeliane - non c'è lavoro, non ci sono prospettive per i giovani, gli israeliani ci bombardano, la nostra casa è stata distrutta a metà. Per i miei figli, tutti laureati, l'unica strada è la fuga da Gaza, dall'oppressione, dalla miseria, verso paesi che possono offrire un lavoro, la dignità a noi palestinesi». Abdel Halim elenca i figli: Maatasem, Ahmad, Amir, Mohammed. Al momento di pronunciare il nome del quinto, Hamada, si commuove. Hamada era su quei barconi di migranti che nei giorni scorsi hanno provato a raggiungere le coste italiane ma sono finiti in fondo al mare. «Quei disgraziati, abbiamo letto, hanno cercato di ucciderlo assieme a tutti gli altri (migranti), hanno speronato la sua barca - dice Abdel Halim Qudaih, con la voce rotta dall'emozione, riferendosi agli scafisti -, non abbiamo notizie di Hamada da una settimana ma noi speriamo ancora». Pregano per i loro figli tante altre famiglie. I Masri non sanno più nulla di 15 parenti saliti sui barconi affondati. Oltre 20 sono i dispersi della famiglia Abu Bakr. Un destino terribile quello degli Abu Bakr. A luglio quattro dei loro bambini furono uccisi dal fuoco della marina militare israeliana sulla spiaggia di Gaza city. Le scene di quei piccoli corpi anneriti portati via dalle ambulanze in un estremo e vano tentativo di strapparli alla morte, sono rimaste impresse per giorni nella mente di milioni di persone in tutto il mondo. Ma tanti, troppi, le hanno già dimenticate, come quelle delle decine di famiglie di Gaza decimate dai bombardamenti andati avanti per 50 giorni. La Gaza simbolo dell'oppressione del popolo palestinese ora viene guardata come un territorio colpito da un terremoto e non da un martellamento a tappeto di artiglieria e aviazione, specie nelle sue zone orientali trasformate in cumuli di macerie. A proposito. L'Anp di Abu Mazen, Israele e l'Onu hanno raggiunto un accordo per la «ricostruzione di Gaza». Vietato il coinvolgimento di Hamas, pena l'interdizione del «flusso di aiuti», anche se il movimento islamico era e resta il governo di fatto nella Striscia. Alle Nazioni Unite spetterà monitorare l'ingresso dei materiali da costruzione, in modo che non siano usati per «fini militari». In realtà è un accordo temporaneo che permetterà l'ingresso a un numero di autocarri tre volte più alto di quello attuale, però ancora insufficiente a garantire una ricostruzione rapida. Anche a questo ritmo ci vorranno anni per ridare una casa a circa 100 mila palestinesi. Lo hanno capito gli abitanti di Shujayea - il quartiere orientale di Gaza city distrutto per un 50% dall'esercito israeliano - che si sono rifiutati di ricevere decine di «case mobili» (2 stanze, gabinetto e cucinotto) regalate dagli Emirati. Motivo? Temono di rimanerci dentro per anni, come accade ai terremotati in molte parti del mondo. Ma questa non è una emergenza umanitaria, è la conseguenza di una offensiva militare devastante e a Shujayea come in tutta Gaza continuano a chiedere soluzioni politiche vere, la libertà e la fine del blocco israeliano. Le case mobili andranno tutte a Khuzaa. Dai cumuli di macerie scappano i migranti di Gaza. Si fa fatica a definirli migranti i palestinesi della Striscia che a migliaia, passando per l'Egitto, provano ad andare in Europa seguendo flussi migratori più consolidati dall'Egitto e dalla Libia. Pagano tra i 3 e i 4 mila dollari, 500 dei quali servono per ungere gli agenti della sicurezza egiziana che devono garantire l'arrivo senza problemi ad Alessandria e altre località sulla costa Mediterranea. A Khan Yunis, c'è anche un «ufficio mobile» (nel senso che ogni giorno è in un posto diverso) di un trafficante locale di esseri umani. Si passa per i tunnel sotterranei con il Sinai ricostruiti di recente, o anche in superfice, se si ottiene il visto, per il valico di Rafah. Infine si tenta di arrivare in Europa, assieme a siriani ed egiziani. E' un fenomeno nuovo per la gente di Gaza, ma destinato a crescere, prevedono tutti. «Non scappano solo i più emarginati - ci dice Sami Ajrami, un giornalista - in realtà chi è disposto ad affrontare il mare spesso ha una laurea e alle spalle una famiglia che ha cercato di costruirgli un futuro. Sono palestinesi giovani, ma non solo, che sognano una vita diversa da quella che hanno sempre fatto, che scappano da una prigione, che non dimenticano la loro terra ma che tentano di cambiare la loro esistenza». A Gaza nessuno condanna queste persone, tanti altri pensano di imitarle, di tentare la fuga verso l'Europa. Non manca però chi fa notare che fuggire fa il «gioco» dell'occupante israeliano. Distruzioni, morti, feriti e mancanza di prospettive - dicono i più critici - spingono i palestinesi ad abbandonare e, di fatto, a rinunciare a lottare per un futuro diverso per tutta la gente di Gaza e non solo per poche migliaia. Scappano anche donne e bambini, intere famiglie. Tra i pochi superstiti certi del naufragio costato la vita a centinaia di persone ci sono proprio due donne, una delle quali si chiama Nour Farad, assieme a una bimba e un bimbo. Tutti erano ricoverati all'ospedale di Palermo e stanno bene. Per gli altri le speranze di ritrovarli in vita sono pochissime. Non si fa illusioni Samir Abu Toameh di Bani Suheila. «Non so più nulla di mio figlio Ibrahim - dice ormai rassegnato - so che difficilmente riuscirò a rivederlo. Dove avevo mai la testa quando ho consentito la sua partenza? Non dovevo permetterlo ma sognavo per lui un'altra vita. Non abbiamo nulla, nessuno dei miei figli qui a Gaza lavora. Un figlio è andato a Dubai e riesce a malapena a sostenersi. Questa non è vita, è solo sofferenza». Samir parla e intorno a lui vediamo solo case distrutte, macerie, solitudine, l'abbandono di un mondo che vuole dimenticare Gaza, ancora una volta.
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