Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 17/09/2014, a pag. 53, con il titolo "Abuso di 'terrorismo': meglio evitare parole sbagliate", la risposta di Sergio Romano alla lettera di Ferdinando Fedi.
La parola "terrorismo", a partire dalla stessa etimologia, non rimanda a "società segrete, reti clandestine, cellule composte da un numero limitato di militanti", come scrive Sergio Romano, ma al puro e semplice terrore. Si tratta innanzitutto del terrore che il miliziano terrorista vuole diffondere nella popolazione civile, come quello che Hamas cerca di insinuare in Israele con il lancio di migliaia di missili nel corso degli ultimi otto anni. Ma è anche il terrore imposto senza via di scampo alla stessa popolazione da cui il terrorista nasce e di cui vorrebbe essere espressione.
Il numero dei militanti è un criterio che non può condurre alla definizione di che cosa sia "terrorismo". L'Isis è una entità terrorista pur avendo assunto ormai le dimensioni e in buona misura la struttura di uno Stato. Ma questo è soltanto un motivo in più per fermarlo.
Sergio Romano
Non è terrorismo questo?
Gli appartenenti a Isis vengono in più ambiti definiti terroristi mentre è opinione di molti giuristi internazionali che per metodi di combattimento tipici delle battaglie tradizionali e per l’effettivo controllo del territorio conquistato essi possano essere considerati parte di un conflitto ai sensi delle convenzioni di Ginevra e dei successivi protocolli aggiuntivi. Tale collocazione consentirebbe di sottoporre le forze di Al-Baghdadi alle regole del diritto umanitario e qualificare gli illeciti commessi ai danni dei civili come crimini internazionali non assoggettabili solo alle giurisdizioni penali interne, con garanzia di pene più certe e severe.
Pur essendo difficile raggiungere un consenso sulla definizione giuridica di terrorismo e sulla identificazione degli atti qualificabili come terroristici sarebbe interessante conoscere un suo parere a riguardo anche al fine di superare l’ambiguità terminologica che si è creata.
Ferdinando Fedi
ferdinando.fedi@alice.it
Caro Fedi, La parola «terrorismo» evoca società segrete, reti clandestine, cellule composte da un numero limitato di militanti, attentati che colpiscono soprattutto le popolazioni civili. Di una organizzazione terroristica è possibile conoscere il nome del leader e del suo più diretto collaboratore, come nel caso di Al Qaeda, ma il suo organigramma è un segreto gelosamente custodito. Isis è alquanto diverso. Ha un esercito che secondo stime della Cia (lo ha scritto Guido Olimpio sul Corriere del 13 settembre) si comporrebbe di forze comprese fra i 20.000 e i 31.500 uomini. Si proclama «Stato» e ha un capo che si indirizza pubblicamente al mondo. Occupa una parte del territorio siriano e di quello iracheno. Ha una sorta di capitale provvisoria (la città siriana di Raqqa nel Nord del Paese) che è nelle sue mani, ormai, da un anno. Là dove arriva con le sue truppe, installa organi amministrativi e una sorta di giustizia sommaria fondata sulla sharia (la legge coranica). I suoi metodi sono spietati, ma tipici delle guerre di religione e non diversi da quelli dei crociati che conquistarono Gerusalemme nel 1099 o massacrarono tutta la popolazione della città occitana di Béziers durante la sanguinosa guerra contro l’eresia cristiana dei catari nel 1209. Parlare di terrorismo nel caso dell’Isis è concettualmente sbagliato. Abbiamo il diritto e il dovere di combatterlo perché rappresenta una grave minaccia a quel tanto che ancora rimane della stabilità mediorientale. Dobbiamo evitare che il suo fanatismo contagi le comunità musulmane in Occidente. Ma «terrorista», in questo caso, è soltanto un artificio retorico, la parola con cui i governi demonizzano il nemico per dimostrare la propria fermezza e giustificare le misure d’eccezione che si accingono a prendere. Queste cose non accadono soltanto nel contesto medio-orientale. Nelle scorse settimane, durante gli scontri in numerose località dell’Ucraina orientale, i ribelli filorussi venivano definiti «terroristi» dal governo di Kiev e quest’ultimo, a sua volta, veniva definito «fascista» dai dirigenti del Cremlino. Le due definizioni erano egualmente infondate e hanno avuto probabilmente l’effetto di rendere il conflitto ancora più emotivo e viscerale. Quando devono definire il loro avversario, gli uomini politici farebbero bene a ricordare che anche le parole possono uccidere.
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