Due vendette Meir Shalev
Traduzione di Elena Loewenthal
Bompiani euro 19
A ciascuno la propria arte. Al pasticcere il segreto dei dolci, al poeta la gioia dei versi. E al romanziere, poveretto, il peso di molte, troppe parole. Non c'è da stupirsi se, di tanto, anche il più mansueto degli scrittori non ce la fa più, e vuol vendicarsi di tutte le peripezie che s'è dovuto immaginare. Allora le buone maniere possono andare al diavolo, e resta a nudo la pagina, bianca, ostile, estranea. È vero che scrivere è spesso il male minore, poiché ci sono storie che a dirle a voce brucerebbero troppo. «Non è bello sentirne le parole dentro la bocca. Invece di pungere sulla lingua come scorpioni e processionarie, meglio che striscino sulla carta e ci schizzino sopra i loro veleni». Anche questa è arte, e qualcuno l'esercita con passione. I raccogli-veleni non sono mai troppi, e svolgono un compito meritorio e pericoloso. Basta un attimo, e il liquido acre versato sulla pagina contagia l'autore e gli instilla un malanno difficile da curare. È una malattia antica, che qualcuno chiama verità. «La verità non è vera ... Solo ciò che è scritto diventa verità». Può darsi che Meir Shalev sia un po' meno famoso di altre super star della letteratura israeliana, anche se, per secchezza di stile e per l'abitudine a raccogliere sostanze letali, non è secondo a nessuno. Due vendette, appena uscito per Bompiani nella traduzione di Elena Loewenthal, di veleno n'è intriso. Se vi prendete il tempo di sedervi un poco, e vi mettete ad ascoltare la bella Ruta mentre racconta di sé e di quello strano angolo di Israele dove le è capitato di vivere, il succo di morte scivola via veloce veloce, come acqua di un acquazzone estivo. Una faida di cent'anni fa e una vendetta recente, e poi una filastrocca. Tutto comincia con un carro venuto dalla Galilea. Cosa trasportava? I doni per un giovane di belle speranze: «un fucile, una vacca, un albero e una moglie», ovvero tutto quello che serve a un uomo nella vita, per ordine d'importanza, per primo il fucile e per ultima la moglie. Una storia da far west, insomma, tra i pionieri sionisti a cui Shalev ci ha abituato. Ma ci si può mai abituare al male, quello più cupo che si nasconde dietro le apparenze di ordine e normalità? Tutto il villaggio sa cos'è successo e nessuno parla, e certo non con la polizia. «Il male s'irradia lontano e chi ne ha il cuore pieno sente facilmente il male nel cuore del prossimo». Chi è senza male nell'animo e chi - anche il più sciagurato - senza una goccia almeno di luce? Ha ragione Ruta, che racconta e racconta e non la smette più. «Altro che fondare insediamenti e tracciare il primo solco. È questo che conta: nomi, nascite, morti». Il veleno lasciatelo pure a chi scrive.
Giulio Busi - Il Sole 24 Ore