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Il Foglio Rassegna Stampa
12.09.2014 Volano i coltelli tra Abu Mazen e Hamas, ma l'alleanza di governo prosegue
Analisi di Rolla Scolari

Testata: Il Foglio
Data: 12 settembre 2014
Pagina: 3
Autore: Rolla Scolari
Titolo: «Hamas vuole fare un golpe contro di noi. Lo sfogo di Abu Mazen»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 12/09/2014, a pag. 3, con il titolo "Hamas vuole fare un golpe contro di noi. Lo sfogo di Abu Mazen", l'analisi di Rolla Scolari. La tensione tra Abu Mazen e Hamas, condizionata da sondaggi che danno la popolarità del primo al minimo, mentre quella dell'organizzazione terroristica che opprime Gaza è molto alta, non è finora stata sufficiente a incrinare l'alleanza di governo.
Per un quadro completo dello scenario palestinese, rimandiamo all'analisi di Mordechai Kedar: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=&sez=320&id=55230

In alto a destra: Abu Mazen, lo sceicco del Qatar e Khaled Meshaal


Rolla Scolari 

Non è riuscito a trattenersi il rais palestinese Abu Mazen nelle stanze del potere di Doha, alla presenza dell’emiro del Qatar, quel Tamim bin Hamad al Thani che ospita i capi politici di Hamas e dona milioni di dollari alla Striscia, e le cui immagini spesso ricoprono i muri di Gaza. “Il loro proposito è distruggere la Cisgiordania e creare uno stato di anarchia per orchestrare un colpo di stato contro di noi”, avrebbe detto il presidente all’emiro, riferendosi alle attività del gruppo islamista che dal 2007 controlla la Striscia di Gaza. La trascrizione della presunta conversazione avvenuta il 21 agosto – e di quella tenutasi poco dopo l’arrivo nella stessa stanza anche del capo dell’ufficio politico di Hamas, Khaled Meshaal – è stata pubblicata i primi di settembre sulle pagine di un quotidiano libanese, al Akhbar. E’ un colpo fatale, e non l’unico durante l’estate di guerra, contro i destini già traballanti del governo d’unità nazionale palestinese, nato senza troppa convinzione agli inizi di giugno, dopo un accordo tra Fatah, movimento del presidente che governa la Cisgiordania, e i vertici di Hamas. Così mentre a Gaza c’è la guerra, mentre sono in corso l’Operazione Margine Protettivo dell’esercito israeliano contro Hamas, il lancio di razzi palestinesi, i tentativi di incursione dei miliziani attraverso le gallerie sotterranee, l’emiro tenta la via della mediazione, invitando al suo tavolo le fazioni palestinesi. La campagna militare israeliana, il crescente numero dei morti civili nella Striscia – duemila il bilancio totale secondo fonti mediche locali al termine dell’operazione – e la necessità di trovare una soluzione a settimane di conflitto avrebbero dovuto unire i ranghi della politica palestinese, creare un fronte compatto per innescare una trattativa. I cablogrammi “rubati” raccontano invece un’atmosfera carica d’astio. Davanti all’emiro, Abu Mazen accusa Hamas di aver complottato contro la sua autorità in Cisgiordania proprio durante i giorni tragici del conflitto a Gaza e assicura d’avere prove fornitegli dagli 007 dello Shin Bet, i servizi segreti interni israeliani. “Un funzionario [israeliano] è venuto da me due settimane fa e mi ha raccontato della cellula che è stata arrestata e che stava pianificando un colpo di stato contro di me”, avrebbe detto il rais palestinese, prima d’essere accusato da Meshaal di avere più fiducia in Israele che in lui. “Credo al rapporto israeliano”, sarebbe stata la secca e poco conciliante risposta di Abu Mazen. Fonti palestinesi hanno poi confermato alla Radio israeliana che in agosto Yoram Cohen, capo dello Shin Bet, ha in effetti visitato Ramallah e gli uffici del presidente palestinese per metterlo in guardia da un possibile colpo di Hamas proprio nella sua Cisgiordania. Sempre in agosto, in una conferenza stampa, i funzionari dei servizi israeliani hanno raccontato alla stampa locale i dettagli sui 93 arresti e 46 interrogatori di palestinesi – operativi di Hamas – portati a termine tra maggio e l’estate, che proverebbero l’esistenza di una cellula del gruppo islamista attiva in Cisgiordania con l’obiettivo di organizzare attacchi contro Israele – con un budget di 170 mila dollari –, creare instabilità e minare il potere dell’Autorità nazionale e del suo presidente. Secondo gli inquirenti, il personaggio dietro la formazione di questa rete sarebbe un ex detenuto nelle carceri israeliane e oggi residente in Turchia: Saleh Arouri, lo stesso nome fatto da Abu Mazen nelle sue accusatorie parole di Doha. Abu Mazen è tornato sabato, dal Cairo, su quella conversazione a tre: “L’80-90 per cento di quello che ho detto è vero”. E’ con un’insistenza che non gli è propria che in queste settimane il rais palestinese attacca i compagni di governo di Hamas. Dall’Egitto – dove sono avvenute le mediazioni per mettere fine al conflitto estivo – ha minacciato di dissolvere l’esecutivo, ha accusato il gruppo islamista di gestire a Gaza “un governo ombra”, di aver commesso “atrocità” e giustiziato nella Striscia 120 persone senza processo per sospetti di collaborazionismo. “Se Hamas non accetterà uno stato palestinese con un governo, una legge e una pistola non ci sarà una partnership tra noi”, ha spiegato. Prima, davanti alle telecamere della televisione nazionale palestinese, aveva accusato Hamas di aver prolungato la guerra a Gaza per non aver accettato il cessate il fuoco: “Avremmo potuto evitare duemila martiri, diecimila feriti, 50 mila case distrutte”. L’inquietudine di Abu Mazen segna dopo soli tre mesi l’improbabile destino dell’ennesimo tentativo palestinese di unità nazionale. Quel governo, deciso ad aprile e nato a giugno, aveva messo fine ai deboli e già segnati colloqui tra israeliani e palestinesi. Non sbaglia il Washington Post quando scrive però che “l’apparente unione tra Fatah e Hamas era nata più per disperazione che per reciproca comprensione”. E se Abu Mazen ha cercato nell’unità nazionale un modo per tornare a influenzare la politica a Gaza, allargare la sua legittimità, il nuovo esecutivo salvava i vertici della Striscia dall’isolamento politico. In questo senso nulla è cambiato nemmeno oggi. La popolarità di Abu Mazen è più che mai bassa. Secondo un recente sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research, se si votasse oggi il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, vincerebbe le elezioni senza nessuno sforzo, spinto anche dall’effetto postbellico che ha rafforzato l’immagine interna di Hamas. La fortuna del rais è da sempre legata alla sua capacità d’unire i ranghi della vita politica palestinese, mantenendo una stabilità in grado di garantire una parvenza di normalità in Cisgiordania. Dall’altra parte, la ricostruzione di Gaza – e quindi la tenuta interna per i vertici di Hamas – passa attraverso Abu Mazen, visto che nessun donatore internazionale è disposto a versare denaro direttamente nelle casse dei padroni di casa della Striscia, considerati da Unione europea, Stati Uniti e Israele un gruppo terroristico.

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