Guerra e pace
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
A destra, israeliani in un rifugio antimissile il 10 luglio scorso
Cari amici,
tirare un sospiro di sollievo perché non è più necessario fare il conto degli allarmi missilistici e tener d'occhio il rifugio più vicino o temere per la vita dei figli che ci difendono è più che legittimo, è ovvio e naturale. E dire che la tregua che ci dà questo sollievo sia una vittoria è ragionevole: in fondo le perdite dei militari di Hamas sono probabilmente 20 volte più numerose di quelle dei soldati israeliani, i danni al suo apparato bellico e all'infrastruttura sono gravissimi, mentre Israele è stato protetto dai suoi soldati e dalla sua tecnica così bene da sventare non solo la perdita di vita umane ma anche buona parte dei danni materiali. Se fosse una partita di calcio il punteggio sarebbe sei a zero. Ma la guerra non è una partita di calcio, e non lo è soprattutto la guerra asimmetrica che praticano i terroristi. Lo teorizzavano già i grandi capi della guerriglia cinese e cubana, da cui ha preso esempio esplicitamente il terrorismo palestinese a partire dagli anni Sessanta: negli scontri asimmetrici, un esercito regolare non vince se non riesce a liquidare completamente i terroristi. In questo caso non solo Israele non ha distrutto Hamas, ma si trova a dover pagare anche dei prezzi, l'allargamento della “zona di pesca” che è il territorio del contrabbando acquatico, una certa apertura dei confini, che consentirà quantomeno la circolazione delle persone, cioè l'import-export di personale, tecnologie, addestramento, se non di materiali che saranno trasformati in armi. Certo, non darà quel che voleva Hamas: porto, aeroporto, liberazione dei terroristi detenuti, libera circolazione di merci e persone attraverso Israele. Ma qualcosa ha già concesso e qualcos'altro dovrà forse accettare, se proseguiranno i negoziati del Cairo. Aggiungete che oltre alla sua deterrenza, consolidata con la distruzione di strutture militari e capi terroristi, si è stabilita una controdeterrenza di Hamas, che è riuscito a far fuggire buona parte della popolazione attorno al confine, soprattutto tornando nell'ultima fase del conflitto al fuoco dei mortai, assai più primitivi e di minor gettata rispetto ai missili capaci di arrivare fino a Gerusalemme e Tel Aviv, ma inarrestabili da Iron Dome. Si parla di una nuova generazione di antimissili laser che potrebbero fermare anche gli obici dei mortai e che forse entrerà in servizio fra un anno o due, come i rilevatori di tunnel: armi che potranno cambiare ancora il gioco, come ha fatto Iron Dome, ma che al momento non ci sono. Israele non ha perso, certamente. Ma non ha neanche vinto del tutto. Per vincere avrebbe dovuto occupare tutta Gaza per qualche tempo e mantenervi la possibilità di intervento che c'è in Giudea e Samaria. Non sarebbe stato impossibile, continuando l'azione di terra. Ma sarebbe costato molte più vittime sia fra gli israeliani, sia fra gli arabi. Netanyahu l'ha minacciato, ma chiaramente non l'ha ritenuto possibile. Intendiamoci, Netanyahu non è uno sciocco, né un masochista. Tanto meno credo neanche a quelli che parlano di viltà e tradimento. Sta pagando un prezzo altissimo per un politico, la caduta verticale della popolarità, il rischio di una crisi di governo da cui verrebbero prima o poi nuove elezioni, che sembrerebbe dover perdere. Ha fatto quel che ha fatto perché costretto, io credo. Ricattato. Non lui personalmente, è chiaro, ma Israele. Obama non ha più credibilità in Medio Oriente, ma può fare ancora molti danni. Per esempio bloccare i rifornimenti militari, come a un certo punto ha fatto, facendo trapelare per di più una scelta che nella logica dei rapporti fra gli stati è segreta (e mentre nel frattempo forniva armi a Qatar e Turchia, gli unici stati grandi sostenitori di Hamas oltre all'Iran). Per esempio rifiutarsi di porre il veto americano alla proposta franco-britannica di mozione esecutiva del consiglio di sicurezza dell'Onu che proponeva una tregua contenente tutte le richieste di Hamas. Per esempio non ponendo il veto neanche alla richiesta di Abbas di fissare un calendario obbligatorio per “la fine dell'occupazione israeliana”, contro ogni logica del diritto internazionale. Israele è circondata, molto più di Gaza. A Nord c'è Hezbollah, che al momento pensa ad altro, ma ha dieci volte più tunnel e missili di Hamas. A Nordest la Siria, cioè il nemico Assad e il nemico Isis, che al momento si combattono ma condividono l'obiettivo della distruzione di Israele. A Est la Giordania, che è già uno stato “palestinese”, il cui re sa di poter reggere solo con l'appoggio di Israele, ma potrebbe cedere alla stessa tentazione di suo padre nel '67, quando per non farsi travolgere si unì al fronte antisraeliano di Nasser, e le prese sonoramente. Al Sud il Sinai, dove le bande terroriste restano intatte. E poi naturalmente l'Autorità Palestinese e Hamas, che sono come i ladri di Pisa del proverbio popolare, che “di giorno litigano e la notte vanno insieme a rubare”. E il popolo arabo dei territori premia naturalmente il più energico dei ladri. Se si votasse oggi per il presidente dell'Anp, un mandato di quattro anni che è scaduto da sei ed è occupato abusivamente da Abbas, vincerebbe alla grande anche in Giudea e Samaria il capo di Hamas a Gaza, Haniyeh. (http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/184676#)
A questo accerchiamento si è unita l'Europa, col suo boicottaggio strisciante e Obama, che non può dire che odia Israele perché l'America non lo sopporterebbe, ma fa quel che può per danneggiarlo. Netanyahu ha fatto il possibile per cavarsela in questo assedio, riuscendo a respingere l'assalto di Hamas (ricordiamoci che questa guerra non l'ha voluta Israele, l'ha cercata e molte volte riaccesa Hamas). Non ha vinto, perché non poteva vincere, perché sapeva che non gli sarebbe stato consentito di vincere. C'è chi, come Caroline Glick, parla di un'incapacità interna di vincere, di una responsabilità del comando dell'esercito.
(http://www.jpost.com/Opinion/Our-world-The-unfinished-war-374131)
Difficile dire. Fatto sta che Israele non ha vinto. Ma non ha neppure perso. La politica israeliana non è espansionista, checché ne dicano i nemici. Tutt'al contrario è una politica di resistenza. Se tatticamente nella maggior parte dei combattimenti Israele ha preso l'offensiva, a causa della scarsa profondità di manovra del suo territorio, strategicamente Israele è sulla difensiva, è una fortezza assediata, che cerca di prevenire chi vuole distruggerlo e di logorare il suo impianto bellico. Israele non può conquistare i paesi arabi, 500 volte più vasti e 50 volte più abitati di lui; i paesi arabi possono pensare invece di distruggerlo. E' questa la logica fin dal '48 e anche prima, dallo scoppio della guerra aperta degli arabi contro gli ebrei negli anni Venti del secolo scorso. Israele sa che non ha alleati solidi, neppure gli Stati Uniti, che gli hanno impedito di vincere fino in fondo molte volte: nel '56 e nel '67, nelle guerre in Libano, nella “seconda Intifada”. Come è stata tradita dalla Gran Bretagna diverse volte, dalla Francia nel '67, dall'Unione Sovietica a partire dagli anni Cinquanta. In queste condizioni non può vincere, solo resistere. Dissuadere gli attaccanti. Esercitare deterrenza. E' quel che ha fatto Netanyahu, meglio dei suoi predecessori immediati, probabilmente. Possiamo respirare con sollievo, ma non illudiamoci, non è finita affatto. La prossima guerriglia sarà politica, legale, mediatica, probabilmente. E non sarà facile. Ma presto, appena qualcuno nel mondo arabo si sentirà forte o avrà voglia di mostrare il suo eroismo a spese del proprio popolo, si sparerà di nuovo. Può non piacere, deve non piacere. Sarebbe molto preferibile un bel mondo di pace e di amore, come lo volevano gli hippies. Bellissimo. Ma è essenziale non confondere i desideri con la realtà, i sogni col paesaggio. Ci si fa male. Un piccolo popolo assediato ha bisogno certamente di sognare. Può farlo, deve farlo, se no non sa perché esiste. Ma ha ancora più bisogno di realismo, di vedere con lucidità pericoli e opportunità. Perché se no non sopravvive e non ha neanche più la possibilità di sognare.
Ugo Volli
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