Riprendiamo dal FATTO QUOTIDIANO di oggi, 27/08/2014, a pag.10, gli articoli di Francesca Borri e Alessi Scheisari, preceduti dai nostri commenti.
"Hamas è come l'Isis, l'Isis è come Hamas.
Sono nemici della pace.
Sono nemici di tutti i paesi civilizzati"
Francesca Borri- "Pace sopra le macerie di Gaza. Hamas isolata nella Striscia"
Per Francesca Borri la campagna militare di Israele contro Hamas, nella quale in realtà sono stati compiuti sforzi senza precedenti per risparmiare i civili, è paragonabile al bombardamento di Hiroshima, i ministri del governo israeliano, inclusa Tzipi Livini sono criminali di guerra, dirigenti e popolazione palestinese della Cisgiordania non sono sufficientemente impegnati nella militanza anti-israeliana. ll terrorismo di Hamas è spiegabile con "'l' idea che Israele negozierà solo se non sarà al sicuro", quando in realtà Hamas non mira a un accordo, ma alla distruzione di Israele, il quale, dal canto suo, è divenuto molto più cauto in materia di concessioni territoriali proprio in seguito al fatto che dagli accordi di Oslo in poi esse hanno sempre prodotto un peggioramento della sua sicurezza.
L'articolo, in sintesi, è un concentrato di falsità e pregiudizi ostili nei confronti di Israele.
Francesca Borri
Il presidente dell'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, aveva annunciato ieri mattina un'iniziativa politica "equivalente a una bomba atomica". Definizione non proprio opportuna oggi che la guerra, a Gaza, ha compiuto 50 giorni, e oltre 60 mila bombardamenti, una quantità di esplosivo equivalente a Hiroshima. Ma i palestinesi non commentano neppure a Gaza. E non perché siano concentrati a sopravvivere. I negoziatori al lavoro al Cairo, semplicemente, erano i soliti noti: e sono quelli raccontati da Wikileaks, oltreché dalle loro dichiarazioni alla stampa - registrati mentre dicevano a Tzipi Livni, ministro degli Esteri israeliano, che i giudici di Londra avrebbero voluto processare per crimini di guerra, che se avessero potuto, avrebbero votato per lei. Poi è arrivata la tregua duratura e le grida di vittoria di Hamas. Ma la frattura tra Gaza e la West Bank (Cisgiordania, ndr) ormai non è solo geografica. Sabato 9 QUI RAMALLAH II maxi-schermo nel centro-città trasmette pubblicità e ogni tanto un messaggio per chiedere di donare un dollaro per "i fratelli bombardati" agosto le strade di mezzo mondo si sono affollate in solidarietà ai palestinesi, stremati da 7 anni di assedio e ora travolti dall'ennesima guerra - 2100 i morti, e tempi di ricostruzione stimati in 18 anni: 18 anni, cioè, perché il 70% della popolazione possa tornare a esser sotto la soglia di povertà. I manifestanti erano 150 mila a Londra, 250 mila a Cape Town. Altre migliaia dalla Bolivia all'Australia, dall'India al Canada. Ma 100 a stento a Ramallah. E NON E STATA un'eccezione. I cortei del venerdì contro il Muro, icona della resistenza dopo l'esaurimento della seconda Intifada, ormai non contano che una manciata di adolescenti in kefiah e fionda, a volte, gli attivisti stranieri sono più dei palestinesi. "Il mondo è concentrato su Gaza, ma la partita vera si vince o si perde nella West Bank", sospira Salah Khawaja, il leader di Ni'lin, città simbolo della battaglia contro il Muro. "Perché Israele non mira alla terra di Gaza, mira alla terra della West Bank. E insediamento dopo insediamento, ci sta divorando. Dobbiamo innescare una nuova Intifada. Organizzare iniziative contemporaneamente", spiega. Ma quali possano essere, in concreto, queste iniziative, nessuno sa dirlo. Sono anni che i leader palestinesi, tutti ormai sui 60 anni qui che solo il 7% della popolazione ne ha più di 55, chiamano a una nuova Intifada. Ramallah, temporanea capitale palestinese, dista da Gerusalemme 15 chilometri. Un viaggio di due ore, spesso tre, dipende dall'umore dei soldati di turno e sempre a condizione di avere l'autorizzazione di Israele. Ma adesso il check-point, a cui grazie agli aiuti internazionali non si arriva più su taxi tenuti insieme con lo spago, ma su pullman con aria condizionata, è segnalato da un cartello che dice: Bus stop Qalandia. Come fosse una fermata qualsiasi. E anche i sol *** dati sono lì, adesso, con la pettorina gialla sull'antiproiettile, come operai in autostrada. Nel piazzale vedi un uomo su una barella: solo poi ti ricordi che i malati, anche malati terminali, sono costretti ad attraversare il check-point sulle stampelle ed essere perquisiti come tutti. Solo poi ti ricordi, per caso, dell'occupazione. Perché è così Ramallah: l'occupazione non si sente più. Tutta aperitivi e ristoranti e vita notturna, 200 mila abitanti e musica fino alle due, auto nuove, pavimenti in basalto, case eleganti tutte pietra e vetro, fiori, giardini. La divisione tra Gaza e la West Bank non è solo geografica: riflette due diverse strategie. Quella di Hamas, basata sui razzi e i tunnel e gli attacchi ai coloni, sull'idea che Israele negozierà solo se non sarà al sicuro, e quella invece di Mahmoud Abbas e dell'Autorità Palestinese, secondo cui il solo modo per ottenere una Palestina indipendente è iniziare a costruirla. Letteralmente. Mattone dopo mattone. Per questo a Ramallah è così facile avere un prestito, magari per aprire un negozio anche se poi entri, e nei negozi è tutto made in Israel. A uno sguardo più attento, infatti, la Palestina consuma, non produce il 70% del suo bilancio sono donazioni internazionali. Perché la ricchezza sia incentivo alla pace, non all'indipendenza. Ma intanto i palestinesi si sono indebitati tutti. Hanno comprato auto, casa, televisore, lavatrice. E per quanto a doppio taglio possa esser questa ricchezza, nessuno ha voglia di perdere tutto in una nuova Intifada. Era il 2002 quando nelle strade di Ramallah non c'erano auto, ma carri armati. "E comunque una rivolta, senza leadership, non ha senso" ti ripetono. Perché la sola zona senza vita di Ramallah è quella in cui ha sede il Consiglio legislativo. Non si riunisce dal 2007. Il mandato di Mahmoud Abbas è scaduto nel 2010. Al centro di Ramallah non c'è una moschea, ma un maxi-schermo. Trasmette pubblicità 24 ore su 24, e tra una crema Nivea e una Bmw, ogni tanto sbuca lo sguardo terrorizzato di un bambino. Donate un dollaro per i nostri fratelli bombardati. La guerra di Gaza è stata vinta a Ramallah.
Alessio Scheisari: " 'Jihadisti sanguinari, ma sono anche il prodotto della politica delle armi"
Anche di fronte ai crimini dell'Isis, Gino Strrada difende un pacifismo assoluto che non tiene conto del fatto che non fermare gli aggressori significa abbandinare le vittime nelle loro mani. Ribadisce inoltre il suo antioccidentalismo, riciclando persino accuse agli Stati Uniti diffuse dalla propaganda di Saddam Hussein.
Di seguito, l'articolo:
Gino Strada
Una volta che ho deciso di andare ad ammazzare qualcuno, la modalità è secondaria perché sto facendo la più grande cazzata che un essere umano possa fare". Gino Strada vive e lavora in Sudan, ma è in contatto quotidiano con i medici della sua Emergency che gestiscono ospedali e campi profughi ad Arbat e Choman (nel Kurdistan iracheno), dove sono confluiti migliaia di sfollati in fuga dalle regioni sotto attacco dell'Isis e dalla guerra civile in Siria. Che cosa sta succedendo in Medio Oriente? Ho vissuto tre anni e mezzo nel kurdistan iracheno. Era il 1996 ed era in corso una guerra civile tra le due fazioni curde: il Pdk di Masoud Barzani (l'attuale presidente del Kurdistan iracheno, ndr) e l'Upk di Jalal Talabani. Quando il Pdk stava per essere sconfitto, chiamò in aiuto i carri armati di Saddam Hussein. E quella era una guerra tra curdi. Quello che intendo è che in quello spicchio di mondo lì chi oggi è un nemico forse tra quattro mesi diventerà un alleato. Guardi quello che sta accadendo con al-Assad in Siria. Noi cerchiamo sempre di dividere il mondo in buoni e cattivi. Non è semplice. Faccio un altro esempio: nel 2003, prima dell'invasione Usa, andai a parlare con il ministro della Sanità iracheno e con Tareq Aziz (vice primo ministro sotto Saddam, ndr). L'incidenza di tumori e leucemie infantili era aumentata di dieci volte a causa delle armi chimiche e radioattive della guerra con l'Iran e del Golfo del 91, ma i medicinali non erano disponibili a causa dell'embargo. Proposi di fare arrivare un aereo 747 carico di anti-tumorali, ma mi disse di no. Preferiva usare l'embargo come tema politico contro gli Usa? Non ho più voglia di occuparmi delle ragioni degli uni e degli altri. Cie) che conta è che sono morti mezzo milione di bimbi. E quindi cosa dovrebbe fare, oggi, l'Occidente? Tenere a mente che ogni volta che si decide di combattere una guerra - che significa andare ad ammazzare qualcuno - si peggiorano situazioni spesso già disastrate. Non è bastata l'esperienza delle primavere arabe? Tre anni dopo, cos'è rimasto? In Egitto si condannano a morte i civili a cinquecento alla volta. In Libia c'è una guerra civile di cui non frega più niente a nessuno. Ma le immagini che arrivano da Iraq e Siria sono raccapriccianti. Tagliano le gole, e non solo al giornalista americano. Non mi illudo che l'Isis sia democratico e liberale, figurati! Ma in questo disastro c'è tutto il Medio Oriente, un'area completamente esplosa. Il punto è che quando uno decide di ammazzare qualcun altro, la modalità è secondaria. C'è chi taglia la gola, chi usa armi chimiche, chi bombarda coi droni: ognuno con le sue armi cerca di fare la pelle a qualcun altro. L'Italia cosa dovrebbe fare? Se io ragionevolmente credo che tu sia un pazzo scatenato, dal punto di vista della sicurezza del mio Paese sono più sicuro se metto in mano le armi al tuo nemico o se non gliele do? Se vogliamo che tra due anni qualcuno ci faccia un attentato, siamo sulla strada giusta. Il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, usa argomenti assurdi per giustificare la decisione di dare quella ferraglia ai curdi. L'arsenale della Maddalena? È folle! Come cavolo è possibile che la Marina militare abbia disobbedito alle decisioni della magistratura, che ordinb la distruzione di quelle armi di contrabbando? Oggi quella roba li, che non dovrebbe nemmeno esistere, è il regalo per gli amici del momento. Non rispettano la Costituzione, le convenzioni internazionali né la buona pratica di non vendere armi ai Paesi in guerra. Il pacifismo che fine ha fatto? Quando, nel 200I, il governo Berlusconi decise di invadere l'Afghanistan erano quasi tutti d'accordo. Solo Emergency e pochi altri parlavano ad alta voce contro quella guerra. Due anni dopo, c'è stata Piazza del Popolo, la più grande manifestazione pacifista di sempre in Italia. Tanti politici di centrosinistra si erano ravveduti: quelli che avevano votato per la guerra in Afghanistan, avevano scelto di dire "no" a quella in Iraq. Me li ricordo mentre sfilavano con le sciarpe arcobaleno addosso. E poi cos'è successo? Poi sono tornati al governo e hanno cambiato di nuovo idea. Ma io i politici li capisco: non sanno nemmeno dove sia l'Afghanistan, anche se siamo li dal 2001. Invece non capisco la stampa: perché nessuno fa un'analisi e si chiede quante vite abbiamo perso in questi tredici anni, quante persone abbiamo ucciso, se abbiamo raggiunto gli obiettivi che ci eravamo prefissati? La verità è che sulla guerra esiste ormai il pensiero unico. Forse perché le guerre oggi sono più difficili da raccontare: si usano tanti droni e meno soldati. No, viene da più lontano. Tutto comincia con i giornalisti embedded. Nella più grande operazione militare della storia della Nato, ad Helmand, in Afghanistan, non c'era nemmeno un giornalista che non fosse embedded. Quando la gente vede certe immagini medievali, come Abu Ghraib, prende coscienza, perché capisce quanto la guerra faccia schifo. Ci sono tanti giovani occidentali che ne rimangono affascinati: partono e diventano jihadisti. E lo stesso meccanismo. Quando si accetta la possibilità di ammazzare, si diventa gli esseri umani peggiori. L'unico approccio umano alla guerra è l'abolizione, com'è successo con la schiavitù.
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