Riprendiamo dal CORRIERE della SERA e da REPUBBLICA di oggi, 23/08/2014 , i commenti di Gadi Taub, il pacifista che non ha ancora capito le intenzioni del nemico, per cui continua a credere che tutto dipenda all'occupazione (sic). Guido Olimpio, che analizza quella che potrebbe essere definita la trasformazione di Obama in un quasi Bush e l'opinione di Renzo Guolo, dove di reale c'è solo la titolazione, per il resto solo una ricerca ansiosa di attribuire a Hamas tutte le giustificazioni possibili per delle esecuzioni, che hanno sì spaventato molti per la loro brutalità, ma essendo timbrate con il marchio islamico l'impressione passa subito. Ah, egregio Guolo, quando comincerà a guardare la realtà per quello che è ?
Corriere della Sera- Gadi Taud: " E se l'obiettivo fosse una guerra permanente ?"
Gadi Taub
Il motivo principale, e forse più spesso equivocato, della guerra di Gaza sta proprio qui: l'obiettivo strategico dei razzi di Hamas non è quello di far cessare l'occupazione militare di Israele in Cisgiordania, bensì di prolungarla all'infinito. Sono in molti coloro i quali, dentro e fuori Israele, immaginano che Hamas punti principalmente a metter fine al cosiddetto assedio di Gaza. Questo è, forse, uno scopo di secondaria importanza. Perché sin dall'inizio, ricordiamolo, non vi è stato alcun assedio. Nel 2005 Israele ha evacuato Gaza ed era pronto a cedere gradualmente il controllo delle sue frontiere. Ma i razzi continuavano a piovere sulle città nel sud di Israele. Il controllo delle frontiere venne rafforzato in reazione al Iancio di missili, non viceversa. Allora perché sparare su Israele se aveva già lasciato Gaza? Questo stato di cose comincia ad avere un senso solo quando ci rendiamo conto che la strategia di Hamas punta a impedire in tutti i modi la spartizione del territorio, perché proprio la spartizione è cruciale per la sopravvivenza del sionismo. Come ha giustamente sottolineato Thomas Friedman il 5 agosto dalle colonne del New York Times, Hamas sa perfettamente che il prolungarsi dell'occupazione della Cisgiordania condurrà inevitabilmente al graduale isolamento di Israele sulla scena mondiale, poiché nessuno Stato democratico è in grado di sopravvivere negando a un largo settore della popolazione locale i diritti politici e civili fondamentali. Ma non finisce qui. Alla lunga la mancata divisione del territorio rischia di far scomparire il sionismo nel binazionalismo. E per questo che i partiti di centro e di sinistra in Israele si sono convinti che la spartizione del territorio sia vitale agli interessi del Paese, anzi, l'unica strada percorribile per salvaguardare il sionismo da un progressivo disgregamento. Hamas è perfettamente al corrente di tutto questo. Israele siglò il progetto di spartizione negli accordi di Oslo del 1993. In quei giorni molti israeliani credevano che anche i palestinesi avessero accettato la soluzione dei due Stati e fossero pronti a metter fine a tutte le ostilità. Ma il 2000 segnò un brusco risveglio quando Yasser Ara-fat rifiutò la proposta di spartizione avanzata dal primo ministro israeliano Ehud Barak. Le conseguenze furono nefaste. Le vecchie architetture politiche di destra e sinistra rovinarono al suolo. La sinistra si convinse che Israele potesse assicurarsi la pace in cambio di concessioni territoriali e a questo scopo diede il suo appoggio ai colloqui di pace. La destra vi si oppose, sicura che se Israele avesse concesso la Cisgiordania, di lì a poco i palestinesi avrebbero reclamato Jaffa. All'epoca si parlò dela teoria del salame: i palestinesi si sarebbero ripresi la terra di Israele uni fetta alla volta. Ma entrambe le inérpretazioni davano per scontato ch la spartizione fosse a favore degliinteressi palestinesi. ,a leadership palestinese non la peisava così, né allora né oggi. Un nwvo timore si profilò all'orizzonte: se lo scopo dei palestinesi fosse stao quello di «liberare» l'intera Pa-lesina, impadronendosi del salame tuto intero? Perché solo mantenendointero il salame possono sperare di )ttenere una maggioranza musulnana. Di colpo è apparso chiaro cht la destra aveva ragione, nel preswporre che i palestinesi non aves-sen affatto rinunciato al sogno di uni Grande Palestina e la sinistra avwa visto giustamente che la man- spartizione del territorio avrebbeportato alla scomparsa del sionisnn, per motivi puramente demo-grüci. Per scongiurare questa ipotesi la maggioranza degli israeliani aveva appoggiato il ritiro unilaterale di Israele da Gaza. Dopo il ritiro di Israele, l'inarrestabile pioggia di razzi sembrò confermare questi timori. Gli abitanti di Gaza lanciavano i razzi dalla Striscia di Gaza, non più sotto occupazione militare israeliana. Per questo Israele proseguì con il piano di ritiro unilaterale. Ehud 01mert fu eletto primo ministro proprio per la sua promessa di ritirarsi anche dalla Cisgiordania. Ma poi scoppiò la seconda guerra del Libano, nel 2006. Gli attacchi missilistici di Hezbollah paralizzarono completamente un terzo del Paese e questa aggressione alterò radicalmente la prospettiva israeliana. Quella che fino ad allora era sembrata un'irritazione, limitata ad alcune cittadine lungo i confini a sud, di colpo apparve come una chiara mossa strategica. Gli avvertimenti di Netanyahu, che il ritiro dalla Cisgiordania avrebbe creato un nuovo Hamastan a soli 15 km dal cuore di Israele, di colpo si sono trasformati in una concreta minaccia. Come ha osservato giustamente Friedman, se lo scopo di Hamas è quello di prolungare all'infinito l'occupazione, e non di farla cessare, le sue tattiche hanno funzionato. E questo conferma il vecchio adagio sulla convergenza degli opposti. Gli estremisti, da una parte e dall'altra, vogliono impedire la spartizione a tutti i costi. Entrambi pensano di riuscire nel loro intento, senza concedere nulla in cambio alla controparte. Ma entrambi si sbagliano: alla lunga, se non si procederà alla divisione del territorio, non ci sarà né uno Stato palestinese né uno Stato ebraico ma soltanto una guerra civile per i prossimi cento anni. Per questo motivo tutti coloro che sono a favore di due Stati per due popoli devono appoggiare Israele in questo conflitto. Se Israele non dimostra a tutti di saper reagire alla minaccia dei razzi, non riuscirà mai a convincere i suoi cittadini che la spartizione è l'unica soluzione possibile
Corriere della Sera-Guido Olimpio: " Gli Usa, il califfato peggio di Al Qaeda"
Guido Olimpio
Il Califfo lo prenderà di certo come un complimento. Sì, perché per il Pentagono l' Isis «è peggio di al Qaeda» e rappresenta una minaccia di lungo termine. Alla quale bisogna reagire - è il giudizio americano - con eguale profondità. Da qui un esame delle opzioni per contrastare i jihadisti di Abu Bakr al Bagdadi. Una risposta che va oltre la decapitazione del giornalista James Foley, uccisione che la Casa Bianca considera «un attentato dell'Isis contro gli Usa». Il Pentagono è al lavoro per definire la strategia. Il capo di stato maggiore Martin Dempsey ha specificato che serviranno «tutti i mezzi» e che difficilmente gli Usa potranno evitare di colpire l'Isis in Siria dove ha costruito una base poderosa II generale ha parlato di una risposta «militare, diplomatica, economica e di informazione». Partiamo dai muscoli. I generali vogliono ampliare i raid aerei in Iraq e estenderli fino in Siria. Non piacerà a Obama che lo aveva negato ma l'Us Air Force è diventata l'aviazione di Bagdad e dei curdi. Qui il secondo segmento. L'ombrello aereo dovrà favorire l'offensiva degli iracheni e dei curdi, che godono oggi del sostegno fondamentale dei «fratelli» di Turchia del Pkk e di quelli di Siria Sono questi due ultimi schieramenti la vera punta della lancia Resta aperta la questione: la Casa Bianca aumenterà i militari Usa sul terreno? Dovevano essere poche centinaia, adesso arrivano al migliaio, altri 300 sono in partenza per difendere l'ambasciata. Obama non vuole soldati che ingaggino scontri con i militanti, però alla fine potrebbe accadere. Le unità locali hanno bisogno di un appoggio diretto che potrebbe concretizzarsi - in realtà è già avvenuto - con l'azione di nu- dei di forze speciali. Operazioni limitate ma ripetute nel tempo. E ci si chiede se alla fine sarà necessario parlare con il regime di Bashar Assad, ieri nemico e oggi «alleato» nella guerra alla jihad estrema. C'è una corrente di pensiero in America e Gran Bretagna che incoraggia il dialogo in nome del comune interesse, ma le autorità non sembrano disposte a raccogliere l'appello. Poi toccherà al Dipartimento di Stato. Il segretario John Kerry e i suoi diplomatici devono agire sui Paesi della regione, in particolare Turchia e quelli del Golfo Persico. L'obiettivo è di ottenere controlli più severi sui confini attraverso i quali passano i volontari jihadisti così come sul flusso di denaro in favore degli estremisti islamici. Qatar, Arabia Saudita, Kuwait sono tenuti d'occhio. Hanno fatto promesse. Riad ha perfino offerto all'Onu ioo milioni per finanziare la lotta al terrore. Però contano i fatti. E questi dicono che ci sono troppe collusioni. C'è poi l'Iran. Teheran baratterà il suo aiuto in Iraq con concessioni sul nucleare? Lo scambio è stato smentito dai mullah, anche se non sembra così strano. Il problema è che l'azione iraniana è «di parte». Teheran rappresenta gli sciiti e la strage di ieri nella moschea di Diyala è la riprova che il settarismo violento non è limitato solo ai sunniti. Infine il fronte interno. I dirigenti americani hanno messo in guardia sulla possibilità che l'Isis agisca in Usa e negli altri paesi dell'Occidente. Quando Washington sottolinea che sono i 2 mila i combattenti stranieri andati in Siria e che rappresentano oltre 5o nazionalità segnala la «globalità» del pericolo, definito «il più grave dai giorni dell'u settembre 2001». Un raffronto che dice tutto dal messaggio d'urgenza che si vuole far circolare nel paese per giustificare interventi prima esclusi.
La Repubblica-Renzo Guolo: " La feroce vendetta mostrata ai nemici"
Renzo Guolo
Ancora uomini in nero incapucciati che dispensano morte. Questa volta sono i miliziani di Hamas, che giustziano i collaborazionisti. E lo fanno in pubblico, come non avveniva da tempo. Non certo un segnale di forza. Nel momento in cui è saltata la tregua e Israele è passato alla strategia degli attacchi mirati, Hamas sembra voler indicare ai palestinesi chi sono i complici delle distruzioni e delle morti che si sono abbattute su di loro; chi ha fornito agli agenti delo Shin Bet, del Mossad o dell'Aman, lo spionaggio militare israeliano, le indicazioni sui siti da dove partivano i razzi e i nascondgli dei principali esponenti delle Brigate F77edin Al Kassam. Un problema annoso, per Hamas, quello dei collaborazionisti. Quarant'anni di occupazione hanno consentito ai servizi israeliani di creare una estesa rete di contatti nei Territori. Se quando gli israeliani erano a Gaza o in Cisgiordania il reclutamento avveniva con mezzi coercitivi, come la minaccia d un arresto amministrativo che poteva tradursi in una lunghssima detenzione senza processo o con una promessa di lavor di cure difficilmente praticabili nelle strutture sanitarie locali, con l'uscita di Tsahal dalla Striscia preponderante è diventata la collaborazione prezzolata. O la minaccia di far circolare notizie sgradite sul piano etico o della morale sessuale, capaca di determinare la morte civile della persona coinvolta, se non l'arresto da parte della polizia di Hamas. Insomma, la platea dei ricattabili è enorme in simili contesti, tanto che decine di migliaia di persone, dopo il1967, hanno lavorato per l'intelligence israeliana. Hamas ritiene che, anche in quest'ultimo conflitto, gli informatori abbiano avuto un ruolo cruciale. Non da ultimo nel tentativo, fallito, di mettere fuori gioco al Mohammed Deif, il capo di Ezzedin al Kassam, oltre che in quello, invece riuscito, di colpire tre leader dell'ala militare. La fucilazione pubblica ha cosi la duplice funzione di smantellare le reti informative israeliane e fungere da monito. Oltre a mostrare che a Gaza il controllo del territorio è affare esclusivo del movimento. Nonostante, prima di questa lunga estate calda, vi fosse un accordo per un governo di unità nazionale che doveva ridare agibilità politica all'Anp nella Striscia e a Hamas in Cisgiordania. Poco importa a Hamas che quelle esecuzioni in piazza, praticate dagli uomini in nero possano mediaticamente evocare, altre pene capitali, inflitte nei deserti siriani e iracheni; o che tra i fucilati vi possano essere dei meri sospettati. E', solo a Israele, che Harnas continua ossessivamente a guardare. E alla necessità di compattare il suo fronte interno.
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