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Il Manifesto Rassegna Stampa
19.08.2014 Scade la tregua e Israele è pronto ad attaccare Gaza: così Michele Giorgio capovolge la realtà
la disinformazione del quotidiano comunista

Testata: Il Manifesto
Data: 19 agosto 2014
Pagina: 7
Autore: Michele Giorgio
Titolo: «Scade la tregua di cinque giorni, a Gaza torna la paura»
Riprendiamo dal MANIFESTO di oggi, 19/08/2014, a pag. 7, l'articolo di Michele Giorgio dal titolo "Scade la tregua di cinque giorni, a Gaza torna la paura " (sottotitolo: "Tutto lascia prevedere una ripresa dei raid e dei lanci di razzi palestinesi" )

Titolazione e prime righe dell'articolo di Giorgio lasciano intendere che sia Israele a prepararsi a interrompere la tregua, il che è assolutamente falso. Israele non avrebbe mai effettuato una sola operazione su Gaza se il suo territorio non fosse stato bersagliato dai razzi di Hamas.
Quasi a metà dell'articolo si capisce che è il gruppo islamista a non essere soddisfatto di quanto ottenuto nelle trattative. Quindi, tra le righe, che è quest'ultimo che potrebbe riprendere le ostilità.
L'accusa a Israele è allora di non concedere ad Hamas porto e aereoporto a Gaza. Cioé il modo di armarsi indisturbata e prepararsi alla prossima aggressione. Il rifiuto di Hamas è invece giustificato come politicamente inevitabile, perché:  "
non ottenere quanto ha promesso alla popolazione di Gaza, che ha già pagato con un elevato prezzo di sangue (2.016 morti e oltre 10 mila feriti), avrebbe il significato di una sconfitta, di un fallimento".
A parte la scomparsa dei "combattenti"  dal novero dei morti a Gaza, si deve notare che tutto ciò che Hamas, a detta di Giorgio, vorrebbe ottenere per la popolazione di Gaza bombardando Israele, potrebbe essere facilmente ottenuto se Israele avesse la certezza di non essere bombardato e in generale di non subire aggressioni a partire dalla Strisica.
E' semplicemente assurdo sostenere che l'obbiettivo del terrorismo sia l'eliminazione di misure che non esisterebbero se non ci fosse il terrorismo: l'obiettivo di Hamas, infatti, non è far funzionare porti e areoporti, o l'estensione dei diritti di pesca, o in generale il benessere della popolazione di Gaza (che anzi, considera del tutto sacrificabile): è la distruzione di Israele.

Di seguito, l'articolo di Michele Giorgio: 


Michele Giorgio




 Israele domenica e ieri si è preparato alla fine della tregua di cinque giorni con i palestinesi di Gaza, prevista la scorsa notte alle 24 locali. Non le solite misure già adottate tra una tregua e l'altra, quando è andata avanti la «guerra di ami-to» con Hamas. È sceso in campo lo stesso premier Netanyahu per indicare che Israele offre «calma per la calma» niente di più ai palestinesi di Gaza sotto blocco dal 2007. Netanyahu ieri si è recato nel Neghev per incoraggiare quella porzione di israeliani insoddisfatti dall:esito, sino ad oggi, dell'operazione «Margine Protettivo" e che reclamano un'offensiva militare persino più devastante e sanguinosa di quella vista a luglio per «risolvere» una volta e per tutte il «problema Hamas,. «Siamo impegnati in una campagna militare e politica - ha detto il primo ministro israeliano rivolgendosi a un gruppo di ragazzi di Sderot - ed è importante che manteniamo la coesione per vincere questa campagna«. In serata ha poi assicurato che le forze armate si preparano «a un'operazione molto determinata se il fuoco dovesse riprendere dalla Striscia di Gaza». I media israeliani riferivano un paio di giorni fa che la ministra "moderata" Tzipi Livni e il suo collega oltranzista Naftali Bennett sono d'accordo su una «tregua unilaterale» che lasci le mani libere a Israele di colpire Gaza ogni volta che riterrà di doverlo farlo, senza revocare il blocco che soffoca 1.8 milioni di palestinesi. Una identità di vedute che è diventata la linea del governo, deciso a non fornire ai leader di Hamas alcun motivo per dichiararsi «vincitori». Domenica Netanyahu aveva avvertito che il movimento islamico «non può sperare di compensare una sconfitta militare con un successo politico», e ribadito che il suo governo respingerà ogni proposta che non tenga nel dovuto conto il disarmo completo di Gaza. Da parte sua il ministro per le questioni strategiche Yuval Steinitz ha escluso categoricamente che Israele possa accogliere la richiesta di Hamas per la costruzione di un porto a Gaza che, a suo dire, diventerebbe un «duty-free per i missili iraniani». Dichiarazioni che testimoniano la volontà di non dare alcuno spiraglio alla riapertura di Gaza. Israele si sente molto forte, in grado di imporre la sua soluzione anche agli Stan Uniti e all'Unione europea che balbettano e non osano mettere in discussione la campagna militare avviata dal governo Netanyahu. Hamas non può perderla questa partita. Non ottenere quanto ha promesso alla popolazione di Gaza, che ha già pagato con un elevato prezzo di sangue (2.016 morti e oltre 10 mila feriti), avrebbe il significato di una sconfitta, di un fallimento. Per questo fatica ad approvare altre tregue ed è disposto ad accettare le regole di ingaggio fissate dalla parte più forte, una guerra a bassa intensità, fino a quando le circostanze non offriranno una via d'uscita politica. Ovvia perciò la replica del portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, alle parole di Netanyahu. II movimento islamico non si è indebolito, ha spiegato Abu Zuhri, che ha previsto al termine della tregua nuovi combattimenti, stavolta però non a Gaza ma ad Ashqelon, in territorio israeliano. Il numero 2 dell'ufficio politico di Hamas all'estero, Musa Abu Marzouq, ha detto che l'irrigidimento di Israele ha riportato tutto il negoziato «al punto di partenza». I palestinesi però non parlano più con una sola voce. La delegazione partita per le trattative del Cairo è unita solo sulla carta. Fatah e il Jihad sono favorevoli ad accettare la proposta di cessate il fuoco formulata dagli egiziani. Hamas a respingerla, con l'appoggio del Fronte popolare (Fplp). La diffidenza reciproca tra Fatah e il movimento islamico è in aumento poiché la proposta presentata dal Cairo è perfetta per il partito del presidente Abu Mazen mentre relega ai margini Hamas che, da parte sua, non intende farsi strappare il "mento" di aver riproposto all'attenzione del mondo la questione di Gaza sotto assedio. Il piano egiziano prevede che siano proprio le forze fedeli al presidente dell'Anp a prendere il controllo dei valichi (sul versante palestinese) con Israele e l'Egitto, e a monitorare l'ingresso e la distribuzione degli aiuti alla popolazione e dei materiali necessari per la ricostruzione. Egiziani e norvegesi ieri hanno peraltro annunciato che la conferenza dei paesi donatori si terrà al Cairo non appena sarà raggiunto un accordo di cessate il fuoco definitivo e che i fondi per la ricostruzione di Gaza passeranno solo per le casse dell'Anp.

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