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La Stampa Rassegna Stampa
05.08.2014 Israele ricostruisca Gaza: l'opinione di Abraham B. Yehoshua
nel terzo e ultimo di una serie sulla storia della Striscia e di Hamas

Testata: La Stampa
Data: 05 agosto 2014
Pagina: 1
Autore: Abraham B. Yehoshua
Titolo: «Alla ricerca del dialogo fra nemici»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 05/08/2014, a pagg. 1-9, l'articolo di Abraham B. Yehoshua dal titolo "Alla ricerca del dialogo fra nemici", terzo di una serie di articoli sulla storia di Gaza e di Hamas.


Gli aiuti a Gaza passano regolarmente attraverso i valichi controllati da Israele

Ecco i link alle precedenti due puntate:

 http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=54611


http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=54645



Di seguito, l'articolo odierno:


Abraham B. Yehoshua

Mio figlio minore ha 40 anni, è padre di tre figli e, in quanto ufficiale dell’esercito, è stato richiamato al fronte. E mentre la guerra a Gaza continua, scrivo queste parole in preda a una profonda ansia per la sua sicurezza e con la preghiera che i combattimenti cessino. Subito dopo lo scoppio delle ostilità ho pubblicato articoli, in Israele e all’estero, in cui sostenevo che Hamas andrebbe visto come un nemico, non come un’organizzazione terroristica.
Pertanto si dovrebbe cercare un dialogo diretto con i suoi rappresentanti, analogamente a quanto abbiamo fatto con i nostri nemici in passato. Dei cari amici mi hanno fatto notare che alcuni articoli della piattaforma politica di Hamas parlano della necessità non solo di combattere Israele, ma di uccidere indiscriminatamente tutti gli ebrei.
Nonostante questa terribile e folle dottrina ideologica, che riporta alla memoria punti simili del programma del partito nazista in Germania, rimango fermamente convinto che si debba cercare con tenacia di avviare una qualche forma di dialogo con gli esponenti di Hamas perché si convincano ad abbandonare la strada della follia suicida. E, in effetti, delegazioni ufficiali di Israele e di Hamas hanno discusso al Cairo, seppur non in maniera diretta e con la mediazione dell’Egitto, un accordo per il cessate il fuoco e forse un’intesa di maggior respiro.
Se Hamas combattesse Israele e gli ebrei lontano dai nostri territori potremmo anche accettare il principio di non avviare nessun negoziato con questa organizzazione fino a che non cambierà completamente le sue posizioni ideologiche. Ma Hamas agisce molto vicino a noi, fra il milione e ottocentomila abitanti di Gaza che lo hanno eletto e che il suo governo controlla con il pugno di ferro. Questa gente sarà per sempre nostra vicina (come ho già ricordato, Gaza dista solo 70 km da Tel Aviv), e fa parte del popolo palestinese. Un milione e mezzo di palestinesi sono cittadini israeliani, nostri associati (almeno in linea di principio), e con gli stessi diritti di tutti gli altri residenti dello Stato ebraico. Altri tre milioni vivono in Cisgiordania, alcuni sotto il controllo dell’Autorità palestinese, con la quale Israele mantiene costanti contatti, e altri sotto quello dell’esercito israeliano. Ne consegue che tutti questi palestinesi, anche chi non approva l’ideologia di Hamas, sono strettamente legati a noi e, per solidarietà con la popolazione di Gaza, si aspettano che ne miglioriamo la sorte e la salviamo dall’isolamento. Abbiamo quindi il dovere di fare tutto il possibile per aiutare questo popolo il cui destino è intrecciato al nostro e, se questo significa avviare un dialogo con Hamas, non possiamo rifiutare di intraprendere questa strada.
Alla radice dell’integralismo di Hamas c’è infatti la lunga storia che ho cercato di illustrare nei miei articoli precedenti. Una storia di emarginazione, di repressione, di blocco economico (iniziato durante il governo egiziano della Striscia), di profughi senza speranze e dell’errore degli insediamenti israeliani che hanno portato via ai palestinesi una parte del loro ristretto e povero territorio fino a che, in forza della resistenza di Hamas, Israele è stato costretto a smantellarli e a ritirare l’esercito. Ed è a quel punto che è cominciato l’isolamento degli abitanti di Gaza dal resto del loro popolo. Ed è nel sopraccitato contesto che è nato il sentimento di ostilità che si è inasprito nel tempo, fino alle sempre più pericolose missioni suicide. Chi avrebbe mai potuto immaginare, venti o trent’anni fa, che gli abitanti della Striscia, poveri e privi di mezzi, sarebbero riusciti a paralizzare con il lancio di razzi la vita quotidiana del forte e progredito Israele? E, proseguendo la guerra, c’è il pericolo che i miliziani di Gaza siano di esempio per Iran, Siria e Hezbollah, dimostrando loro che, sparando missili, si può scombussolare e anche paralizzare la vita di Israele senza che quest’ultimo possa davvero impedirlo.
Il distacco della Striscia di Gaza da una parte del mondo arabo e dai loro fratelli oltreconfine da un lato spinge la sua popolazione all’indifferenza verso le numerose vittime e l’entità della distruzione e dall’altro a commettere azioni suicide, il più grande pericolo per Israele.
Per far uscire gli abitanti di Gaza da questo vicolo cieco, o dal tunnel in cui si sono trincerati (per usare una metafora pertinente) e nel quale vogliono trascinare anche noi, occorre predisporre un piano effettivo e ingegnoso dopo il cessate il fuoco che preveda non solo la ricostruzione e il risanamento delle ferite della Striscia ma, in primis, la fine del disperato isolamento dei suoi abitanti mediante il ripristino dei legami con i loro fratelli in Cisgiordania e in Israele. E questo ripristino deve coinvolgere Hamas, l’autorità ufficiale della Striscia, e il governo palestinese di unità nazionale istituito qualche mese fa e con il quale Israele ha poco saggiamente interrotto i rapporti.
Alla base della differenza fra una visione del mondo di destra e una di sinistra è la convinzione che gli esseri umani possono cambiare. Mentre la destra parla di mentalità, di destino, di carattere nazionale immutabile, la sinistra crede che uomini e nazioni possano trasformarsi. E questa era anche la convinzione alla base del sionismo, che confidava nella possibilità di cambiare gli ebrei e di renderli sovrani nella loro madrepatria.
Dopo la distruzione e le morti, a Gaza e in Israele, lo Stato ebraico non deve accontentarsi di accordi provvisori o di intese parziali, come al termine di scontri precedenti, ma deve prendere l’iniziativa e, con l’aiuto dell’Egitto e di altri Stati, ricostruire Gaza - il figliastro amareggiato e incollerito -, smantellarne i missili, distruggerne i tunnel ma, al tempo stesso, interromperne l’isolamento e ripristinare i legami col suo popolo mediante un «corridoio sicuro» che colleghi la Striscia alla Cisgiordania, come previsto negli accordi di Oslo. Un tunnel legittimo e ben strutturato di circa 30 chilometri, sotto la supervisione congiunta del governo di unità nazionale palestinese e di Israele.

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