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La Stampa Rassegna Stampa
04.08.2014 Le ricostruzioni storiche di Abraham B. Yehoshua e Davide Frattini
su Gaza e sulla pace mai ottenuta da Israele

Testata:La Stampa
Autore: Abraham B. Yehoshua
Titolo: «Quando Israele trasformò i profughi in combattenti»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 04/08/2014, a  pagg. 1-13, l'articolo di Abraham B. Yehoshua dal titolo "Quando Israele trasformò i profughi in combattenti", secondo di una serie di tre articoli dello scrittore israeliano sulla storia di Gaza, e dal CORRIERE della SERA , a pag. 16, l'articolo di Davide Frattini dal titolo "La guerra infinita".

Ecco il link al primo articolo di Abraham B. Yehoshua ripreso da IC

http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=54611

Di seguito, gli articoli:


1967: truppe israeliane nella Striscia di Gaza


LA STAMPA - Abraham B. Yehoshua: "Quando Israele trasformò
i profughi in combattenti 
"


Abraham B. Yehoshua

Questo è il secondo di una serie di tre articoli che lo scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua scriverà per ripercorrere il retroscena storico della guerra in corso nella Striscia di Gaza, nel tentativo di comprendere le ragioni ideologiche e militari di entrambe le parti coinvolte nel conflitto

Subito dopo la Guerra dei Sei Giorni, nel 1967, l’allora membro della Knesset Arie Lova Eliav, uomo straordinario e di grande dirittura morale, chiese al primo ministro Levi Eshkol il permesso di assentarsi per sei mesi dai suoi doveri parlamentari e politici.
Voleva ispezionare i campi profughi di Gaza e della Cisgiordania così da rendersi conto delle condizioni e dei problemi dei palestinesi e studiare possibili soluzioni. Eshkol, che provava molta simpatia per Lova Eliav, suo braccio destro durante la costruzione dei centri abitati della regione di Lakhish e della città di Arad e attivo in missioni umanitarie in Iran e in Nicaragua quando questi due Paesi furono colpiti da terremoti, gli concesse il permesso.
Per sei mesi, in collaborazione con l’allora ministro della Difesa Moshe Dayan, Lova Eliav ispezionò i campi profughi e quando tornò da Eshkol gli sottopose soluzioni originali e pratiche.
Dopo averlo ascoltato Eshkol disse: «Sì, Lova, so che sei una persona seria e che se dovessi darti il mio benestare come al solito torneresti da me con progetti dettagliati, scadenze precise e preventivi affidabili. Ma non arrabbiarti se ti dico di lasciar perdere».
«Allora quale sarebbe la tua proposta per risolvere il problema dei profughi della guerra del ’48 ora sotto il governo di Israele?». Gli domandò Lova.
«La mia soluzione, rispose Eshkol, è che se ne vadano tutti, che scappino via». «Che scappino dove?». Si stupì Lova. «E come?».
«Non lo so, borbottò Eshkol, ma sarebbe meglio se se ne andassero...».
La conversazione si concluse così. Lova, che voleva bene a Eshkol, attribuì quella bizzarra e inverosimile risposta alla stanchezza e alla malattia del primo ministro, il quale effettivamente morì poco tempo dopo. Nessun profugo però fuggì o se ne andò, come Eshkol avrebbe voluto. E i quattrocentomila abitanti e rifugiati della Striscia di Gaza del giugno 1967 sono diventati oggi un milione e ottocentomila.
I profughi non fuggirono non solo perché non avevano dove andare, e nessuno era disposto ad accoglierli, ma anche perché rimasero fedeli alla loro madrepatria e, con ostinata e pericolosa ingenuità, ancora sognavano di ritornare ai villaggi e alle città dai quali erano stati espulsi o erano fuggiti durante la guerra del 1948. E, nel frattempo, in attesa che quel sogno impossibile si avverasse, cominciarono a offrirsi come lavoratori a giornata nei centri abitati israeliani. La mattina presto partivano a frotte verso le città e i paesi israeliani dei dintorni (in fin dei conti anche Tel Aviv dista solo sessanta o settanta chilometri da Gaza), e la sera facevano ritorno alle loro case nella Striscia. Ricordo i loro vecchi taxi, grossi e robusti, che sfrecciavano sulle strade del Sud al tramonto, stipati di lavapiatti, di addetti alle pulizie, di muratori, di manovali, di braccianti agricoli e di operai. E forse fu proprio nelle fabbriche dove lavoravano che i palestinesi di Gaza cominciarono ad apprendere i primi rudimenti per produrre razzi artigianali e scavare gallerie. Sui portapacchi dei taxi erano impilati materassi, stoviglie e oggetti di vario genere, regalati dai datori di lavoro israeliani. Alcuni di quei palestinesi rimanevano a dormire vicino al loro posto di lavoro, in edifici fatiscenti, tende e fienili. «La capanna dello zio Ahmed», così definiva quelle precarie sistemazioni Lova Eliav che, nonostante fosse segretario generale del partito al potere, criticava aspramente la politica del governo suscitando la collera del nuovo, autoritario premier, Golda Meir, la quale, con maligna ingenuità, si domandava: e chi mai sarebbero questi palestinesi? Solo esseri umani che possono essere spostati da un posto all’altro e che di sicuro non possiedono una distinta identità nazionale. Quindi, nel 1973, sotto il governo del partito laburista, fu deciso di confiscare un terzo del territorio della povera e affollatissima Striscia di Gaza e di una parte non indifferente del suo incantevole litorale per insediarvi, proprio accanto agli squallidi campi profughi, ottomila ebrei, per lo più religiosi, che crearono prosperi centri agricoli. E in fondo perché no? Se nel corso della loro storia gli ebrei si sono stabiliti nella Qasba di Sana’a o di Marrakech, nelle città della Polonia, a Vilna, a Riga, a Kabul, a Baghdad e ad Aleppo, perché non avrebbero potuto insediarsi anche fra i miserabili campi profughi palestinesi e creare fiorenti comunità, convinti di avere a disposizione l’intero mondo? Com’è scritto: «Ecco un popolo che dimora solo, e tra le nazioni non si annovera» (Numeri, 23, 9).
Mai decisione fu più sbagliata e mai azione fu più stupida e immorale. Una parte dell’audacia degli odierni combattenti di Hamas deriva dalla rivolta contro quegli insediamenti e contro le numerose unità dell’esercito preposte a vigilare su di essi. Non è perciò un caso che proprio uno dei padri di quei disgraziati insediamenti, il primo ministro Ariel Sharon, decise di evacuarli e di ritirare le forze militari che li proteggevano. E così facendo diede al regime di Hamas una chiara sensazione di vittoria che alimenta ancora oggi la sua megalomania e le sue missioni suicide. E non dimentichiamo che Hamas, come movimento religioso, è anche frutto dell’incoraggiamento israeliano. Negli Anni Ottanta quando l’Olp (l’organizzazione per la liberazione della Palestina), cominciò a rafforzarsi, gli israeliani ritennero che sarebbe stato preferibile incanalare l’energia politica e nazionalista dei palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza verso istituzioni religiose. Sarebbe stato meglio se i palestinesi avessero pregato nelle moschee piuttosto che andare in giro per le strade a lanciare pietre contro gli israeliani. Ma, a quanto pare, le moschee e lo studio del Corano non hanno raffreddato l’estremismo politico e nazionale dei palestinesi, anzi. Lo hanno infiammato ancora di più.

CORRIERE della SERA - Davide Frattini:  " La guerra infinita"


Davide Frattini

Sulla lapide sono incisi il nome e la data della morte: Roy Rotenberg, 29 aprile 1956. Lo Stato di Israele è nato otto anni prima, da allora non ha mai smesso di combattere. Quello che Moshe Dayan davanti a quella tomba chiama «il destino della nostra generazione» ha inseguito anche i giovani venuti dopo. Il capo di Stato Maggiore, il comandante più celebre, scende a sud, al Kibbutz di Nahal Oz, al limitare della Striscia di Gaza, per commemorare Roy, 21 anni, la guardia del villaggio, ucciso dai palestinesi.
Nelle 258 parole dell’orazione funebre pronunciata da Dayan c’è — se non il rispetto — il tentativo di comprendere le motivazioni di «chi ci odia»: «Non biasimiamo chi lo ha ammazzato. Da otto anni ormai stanno seduti nei campi di Gaza, a guardare come abbiamo trasformato i loro villaggi, le terre dove hanno vissuto i loro padri, nella nostra casa». Dayan, il generale della benda nera sull’occhio, non dà voce alle ragioni dei rifugiati arabi per ascoltare i richiami dei pacifisti israeliani «gli ipocriti che ci chiedono di abbassare le armi», il suo è un appello all’allerta permanente: «Senza l’elmetto d’acciaio e la bocca del fucile non potremmo piantare un albero o costruire una casa. Questa è la nostra scelta — di essere pronti e armati, duri e tenaci — altrimenti la spada ci cadrà dalle mani e le nostre vite saranno troncate».
Nahal Oz è finito sotto i colpi dei mortai in questi ventisette giorni di conflitto, la maggior parte degli abitanti ha abbandonato il villaggio, dove cinque soldati sono caduti nello scontro con i miliziani di Hamas sbucati da una galleria scavata per uscire dall’altra parte del confine. La guerra è il destino anche di questa generazione, dei ragazzi ai quali gli ufficiali sequestrano i telefonini perché non rivelino senza volerlo la posizione su Facebook, che bevono bevande energetiche dalle lattine eppure ricordano il mito di Ariel Sharon riverso nel fango della battaglia a Latrun, nel primo dei ricorrenti scontri arabo-israeliani: si disseta con l’acqua di una pozzanghera, rossa per il sangue dei commilitoni uccisi.
La guerra è il destino anche della generazione di David Grossman, lo scrittore che ancora crede in un accordo di pace e ancora rimpiange di non aver gridato prima il suo no all’offensiva — all’inizio l’aveva sostenuta — contro l’Hezbollah libanese, dopo il rapimento di due soldati israeliani, in un’altra estate di otto anni fa. Il figlio Uri, carrista, è stato ucciso il 12 agosto del 2006, nelle ultime ore di battaglia, in un assalto ordinato dal governo quando il cessate il fuoco era già stato concordato ma non era ancora entrato in vigore.
L’orazione funebre pronunciata davanti alle spoglie di Uri è il manifesto di quella Israele che spera sia possibile cambiare con il dialogo il destino accettato 58 anni da Moshe Dayan: «In questo momento non dico nulla della guerra in cui sei rimasto ucciso. Noi, la nostra famiglia, l’abbiamo già persa. Israele ora si farà un esame di coscienza, noi ci chiuderemo nel nostro dolore, attorniati dai nostri buoni amici, circondati dall’amore immenso di tanta gente, che per la maggior parte non conosciamo. Vorrei che sapessimo dare gli uni agli altri questo amore e questa solidarietà anche in altre situazioni. È forse questa la nostra risorsa nazionale più particolare. Vorrei che potessimo essere più sensibili gli uni nei confronti degli altri. Che potessimo salvare noi stessi ora, proprio all’ultimo momento, perché ci attendono tempi durissimi».

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