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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Lizzie Doron L'inzio di qualcosa di bello 01/08/2014

L’inizio di qualcosa di bello                   Lizzie Doron

Traduzione di Anna Linda Callow

Giuntina                                                         euro 15

 E’ Bitzaron, il quartiere a Sud di Tel Aviv dove Lizzie Doron è nata e cresciuta, il luogo da cui l’autrice israeliana trae ispirazione per i suoi romanzi, tutti molto apprezzati da pubblico e critica.

Doron si è fatta conoscere in Italia con il libro “Perché non sei venuta prima della guerra”, un’opera insolita e originale sulla Shoah - vincitrice nel 2009 del Premio Letterario Adei Wizo Adelina della Pergola -  in cui racconta la vita della madre Helena, scampata allo sterminio nazista e trasferitasi in Israele dopo la guerra per crescere la figlia Elisabeth.

Centrale nell’opera di Lizzie Doron è il tema della Shoah che ritorna come filo conduttore anche nei romanzi successivi, pubblicati da Giuntina, nei quali la tragedia immane che ha colpito il popolo ebraico emerge con una prosa scarna ma efficace dai racconti e ancor più dai silenzi dei sopravvissuti che si sono trasferiti dopo la guerra nello stesso quartiere di Lizzie. Li accomuna la provenienza – tutti vengono dal “mondo di là” – e la difficoltà di inserirsi in una società nuova che si dedica alla costruzione di un paese popolato da ebrei forti, i sabra, che disprezzano la debolezza dei sopravvissuti all’Olocausto, incapaci durante la seconda guerra mondiale di ribellarsi ai loro carnefici.

Accanto alla generazione che porta ancora le cicatrici di quel dramma ci sono le storie dei figli della seconda generazione che Doron ripercorre nel bel romanzo “C’era una volta una famiglia” attraverso ricordi nitidi come ritratti d’autore: sono quei compagni (“una grande famiglia” ) con i quali Lizzie è cresciuta condividendo, come se fossero fratelli e sorelle, la scuola e i momenti di svago; alcuni di loro si sono sposati e hanno avuto dei figli, mentre altri sono rimasti uccisi nelle guerre d’Israele.

Su tutto emerge le difficoltà del rapporto con la madre di cui cerca, dopo il funerale nell’autunno del 1990, di ricostruire il passato attraverso i racconti di chi l’ha conosciuta e amata. Da quegli incontri sono nate pagine di struggente intensità in cui si è fatta strada la consapevolezza che nei silenzi spesso dolorosi e incomprensibili per le seconde generazioni, c’era il desiderio di proteggere e difendere i propri figli, amati con la forza della disperazione, dagli orrori accaduti nel “mondo di là”.

Nel quinto romanzo ambientato a Bitzaron, il quartiere di Tel Aviv dove si parla Yiddish e si combatte con i fantasmi della Shoah, l’autrice israeliana sceglie ancora una volta di dare voce alla seconda generazione per raccontarne i sogni, le speranze e i desideri ma anche i conflitti e le sofferenze che hanno segnato l’ esistenza di figli di genitori sopravvissuti all’Olocausto.

Voci narranti sono tre amici, Malinka, Gadi, Hezi, cresciuti insieme in un quartiere di Tel Aviv condividendo sin dall’infanzia la scuola, i giochi e i mostri che infestavano la mente dei loro genitori tornati dai Campi.

Dall’intreccio narrativo che ruota attorno a un improbabile triangolo amoroso prende avvio la storia dei tre protagonisti con un registro ironico e commovente al contempo.

La prima voce narrante è quella di Malinka Zukmayer che ha cambiato nome in Amalia Ben Ami, più adatto per una annunciatrice alla radio: è una donna di mezz’età che nasconde le sue fragilità dietro una corazza di sarcasmo e di modi bruschi ai limiti della maleducazione, cresciuta con la madre Itka - che le ha sempre preferito la sorella Michaela, ora gallerista d’arte sofisticata e altezzosa - e con il padre, molto amato, scomparso senza lasciare traccia (la bambina lo crede morto ma qualcuno insinua che sia tornato in Germania per aiutare alcuni compagni nella DDR) quando lei è ancora piccola. Amalia è diventata una donna libera e indipendente  che si è innamorata (o ha creduto di esserlo) diverse volte senza trovare mai l’anima gemella. Al termine di una trasmissione radiofonica, nel corso della quale manda in onda con grande costernazione della produttrice (“Oggi non è il giorno della Shoah” aveva strillato Liora Magen) la canzone “Ponar”, “un evergreen dei Lager”, riceve un fax di ringraziamento da un certo Hezi che la prega di contattarlo.

Il misterioso ammiratore che è giunto in Israele per il funerale del padre, estimatore della canzone Ponar, è niente di meno che Hezinka Zunenshayn, “ il figlio della sorda”, amico d’infanzia di Amalia che ora vive a Parigi ed è professore di storia alla Sorbona.

Un incontro incredibile che a Hezi pare un vero miracolo e gli fa dire ripetutamente “Siamo l’inizio di qualcosa di bello”…..

Amalia convinta di aver trovato l’amore della sua vita, si lascia coinvolgere nel progetto di Hezi di far rivivere lo shtetl delle loro madri, entrambe nate e cresciute a Ustrzyki in Polonia, riportando gli ebrei in quei luoghi distrutti dalla ferocia nazista.

“…siamo un gruppo di architetti e di storici specializzati nel restauro di monumenti distrutti durante la seconda guerra mondiale. Nell’ultimo anno ho localizzato delle lapidi in Polonia, a Olesnica ho riportato alla luce i resti di una sinagoga, a Reszeszow ho restaurato una parete che era stata costruita con pietre tombali ebraiche”.

Mettendo in campo quella vena romantica che tiene accuratamente celata nel suo animo, Amalia parte da Israele lasciando il lavoro alla radio per inseguire quello che ritiene un futuro d’amore e di belle promesse. Nel giro di pochi giorni Hezi la trascina in un’avventura rocambolesca, portandola prima a Cracovia e poi a Ustrzyki, alla ricerca di lapidi e reperti ebraici, non solo come collaboratrice del team che coordina ma immaginandola come la compagna di vita con cui realizzare il proposito visionario di riportare gli ebrei nei luoghi da cui erano stati cacciati durante la guerra.

Ironia e umorismo dettano il ritmo alle pagine che seguono che il lettore divora catturato, sia dall’originalità dei personaggi (ad esempio la tedesca Ursula che collabora con Hezi), sia dalla ricchezza della trama declinata in continui flash back in cui i ricordi fanno rivivere a Malinka gli anni dell’infanzia costellata da figure aspre e dure, ma solo in apparenza, come Sarka, la mamma di Gadi gambadilegno, o dolci e comprensive come il papà di cui non saprà più nulla.

Tornare con la mente a quel periodo offre ad Amalia l’occasione per fare un bilancio della sua vita, riflettere con maggior saggezza sul futuro che vuole per se stessa e decidere infine di abbandonare Hezi al suo progetto per tornare, a insaputa di tutti, in Israele con una valigia piena di …..lapidi, lasciando sgomenti i funzionari della dogana all’aeroporto. Uno spirito così imprevedibile come quello di Amalia non poteva escogitare scherzo più azzeccato per l’esimio professore francese che non era riuscito a rassicurarla sulla forza dei suoi sentimenti per lei.

Il vissuto di Amalia, rievocato dall’autrice  con magistrale arte narrativa e con una spiccata vena umoristica, torna nel capitolo intitolato “Olocaustologo” raccontato questa volta dalla prospettiva di Hezi, uno dei compagni d’infanzia di Malinka, che ricostruisce con ironia le vicende che ci hanno allietato nella prima parte. Emergono in queste pagine altri personaggi straordinari come Wolf Katzenelbogen, un uomo sensibile e generoso che segue la crescita del piccolo Hezi aiutandolo poi a sistemarsi a Parigi, la città da cui proviene. Ha fatto la Résistence ma per il bambino non è chiaro in cosa consista e quale sia il rapporto che lo lega alla madre alla quale è profondamente affezionato. Grazie agli aiuti economici di Wolf e alla preziosa guida del professor Lucien, Hezi diventerà un affermato docente universitario e solo alla morte del padre, del quale apprende con sconcerto che aveva consegnato i suoi figli gemelli a Mengele sperando di salvarli dalla camera a gas, riannoda i fili con il passato e trova le risposte a molti dei quesiti che lo hanno assillato dall’infanzia all’età adulta.

Se Malinka è rimasta in Israele come annunciatrice alla radio e Hezi è diventato docente di storia a Parigi, Gadi, figlio della terribile Sarka, è a New York che ha costruito la sua carriera diventando il proprietario della Kushner Optic Company, una società con sessantatrè  filiali e un patrimonio di circa settanta milioni di dollari.

L’altro componente del triangolo amoroso è stato un bambino solitario colpito dalla poliomielite in tenera età e costretto a zoppicare prima con le stampelle poi con un “attrezzo di ferro brutto e gelido” arrivato dall’America grazie ai sacrifici del padre che per due anni si sobbarca doppi di turni di lavoro. Purtroppo nemmeno l’invenzione americana riuscirà ad alleviargli le sofferenze provocate da quella menomazione fisica. “…schiacciai di nuovo la molla che raddrizzava il ginocchio, trascinai la gamba, mi morsi le labbra, camminai e camminai, e non dissi a nessuno che mi faceva male da morire”.

Oggetto di scherno per gli amici del quartiere che con la crudeltà tipica dei bambini lo respingono rifiutando di giocare con lui, Gadi trova solo in Malinka, invisa però alla madre Sarka, una compagna che lo accetta e anzi gli propone di marinare i compiti per dedicarsi al domino, alla canasta e a fare le gare con le biglie.

“Ti amo” è la risposta del piccolo Gadi.

Un amore che Gadishka custodisce gelosamente nel cuore e che alimenta vieppiù la sua nostalgia per Israele quando decide, suo malgrado, di seguire il diktat della madre Sarka e partire per l’America, portando con sé oltre ai ricordi l’amarezza di essere stato rifiutato dall’esercito perchè “non idoneo alla leva”.

L’autrice ripercorre in pagine di struggente intensità l’incontro di Gadi con un paese nuovo, descrivendo con un pizzico di umorismo la vita che si svolgeva nel quartiere di Brooklyn popolato da famiglie ortodosse (fra le altre quella dello zio Simha Berger che spera di trovare in lui il marito per la figlia Zafra) e come Gadi anche il lettore si sente catapultato in uno shtetl polacco.

“ Gadishka, lo shtetl si è risvegliato, sentii Malinka prendermi in giro, e capii che dovevo scappare di nuovo, anche di lì”…

L’incontro con Dina, il matrimonio, i figli, il successo nella professione di ottico non bastano a renderlo felice; troppo struggente è la nostalgia per Israele e per quell’amore ormai lontano, fino a quando non prende la decisione di ritornare in Patria….Ma cosa l’attende veramente?

Lasciamo ai lettori il piacere della scoperta nella certezza che non rimarranno delusi tale è la forza e l’intensità di questo romanzo che si legge d’un fiato dalla prima all’ultima pagina!

E’ un modo inconsueto ma efficace quello che Lizzie Doron sceglie per raccontare la Shoah nei suoi romanzi, un’occasione per riflettere sul Male Assoluto e sul dovere della Memoria che tutti dovrebbero condividere perché “Il ricordo della Shoah non deve essere trasmesso solo dagli ebrei e tra ebrei, bisogna coinvolgere gli altri, deve essere universale” (L.D.)

Ne “L’inizio di qualcosa di bello” Doron con un linguaggio che incanta ci ha fatto conoscere una galleria di personaggi indimenticabili e nel far muovere i protagonisti delle sue storie assume il loro stesso passo e il loro respiro: il risultato è un’orchestra che l’autrice dirige con grazia e humor intrecciando sfortune, dolori, gioie e successi in una partitura pressochè perfetta.

Una perla letteraria da non perdere.

Giorgia Greco


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