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La Stampa Rassegna Stampa
31.07.2014 La guerra necessaria di Israele contro Hamas
Cronaca e interviste ad Ari Shavit e Mohammed Qoreqe, di Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 31 luglio 2014
Pagina: 8
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Bombe sulla scuola Onu, a Gaza massacro di civili - Hamas ci vuole distruggere. Ecco perché sosteniamo la guerra - 'Io bambino e pittore dipingo una città di zombie e macerie'»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 31/07/2014, a pag. 8, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "Bombe sulla scuola Onu, a Gaza massacro di civili " e l'intervista di Maurizio Molinari ad Ari Shavit dal titolo "Hamas ci vuole distruggere. Ecco perché sosteniamo la guerra". Da pag. 9 riprendiamo l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "'Io bambino e pittore dipingo una città di zombie e macerie' " .

Di seguito, gli articoli:


La guerra di Israele contro Hamas

LA STAMPA - Maurizio Molinari: " Bombe sulla scuola Onu, a Gaza massacro di civili -"


Maurizio Molinari

Colpi di cannone israeliani investono una scuola dell’Onu a Jabaliya causando almeno 17 vittime: per Hamas si tratta della prova che lo Stato ebraico commette «crimini di guerra» mentre il portavoce militare Peter Lerner ribatte che «dai paraggi di quella scuola è stato fatto fuoco contro le nostre truppe». Arrivata al 23° giorno di operazioni «Protective Edge» è diventato il più lungo conflitto fra Israele e Hamas – nel 2008 ne durò 22, nel 2012 solo 8 – e vede l’esercito di Gerusalemme aumentare l’intensità degli attacchi dal cielo e da terra nella convinzione di essere in procinto di piegare l’avversario. «Mancano pochi giorni al completamento della distruzione di tutti i 32 tunnel che finora abbiamo trovati» spiega il generale Sami Turgeman, comandante delle truppe sul fronte Sud. Mohammed Deif, capo delle Brigate Qassam di Hamas, conferma che il conflitto è entrato nella fase più aspra parlando per la prima volta dal bunker sotterraneo ai seguaci con una registrazione audio: «Le fazioni palestinesi sono unite nella resistenza, i miei uomini desiderano il martirio, non accetteremo il cessate il fuoco senza la fine del blocco di Gaza, Israele sta inviando le proprie truppe all’inferno».
È in questa atmosfera da resa dei conti che del mattino di ieri la scuola femminile dell’Unrwa (l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) nel campo di Jabalya viene investita da almeno quattro colpi di cannone. Il portavoce dell’Unrwa, Adnan Abu Hasna, conta 17 morti e 90 feriti in una scuola che ospita almeno 3300 rifugiati da zone evacuate. «Quattro persone sono state uccise fuori dalla scuola, due nella strada e due dentro una casa vicina» afferma Abu Hasna per sottolineare che l’attacco è stato esteso. La replica arriva da Peter Lerner, portavoce delle forze armate, secondo cui «l’esercito ha risposto al fuoco contro i propri soldati, bersagliati da colpi di mortaio lanciati da meno di 200 metri di distanza dalla scuola Onu». Da New York il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon parla di «atto ingiustificabile» e i suoi portavoce a Gaza fanno sapere che «per 17 volte abbiamo chiesto a Israele di non colpire la scuola di Jabalya». Ma Gerusalemme ribatte: «Non prendiamo di mira istituzioni dell’Onu e faremo un’inchiesta su quanto avvenuto ma Hamas si cela dietro questi luoghi per colpirci». È un’accusa che nasce dall’ammissione di Christopher Guinness, portavoce Onu, che sono stati trovati razzi per la terza volta in una «scuola abbandonata dell’Unrwa». Lo stesso Guinness precisa che «saranno disattivati da un nostro esperto» e non riconsegnati alle autorità locali, come avvenuto in passato. Per Israele è la conferma della strategia di Hamas di adoperare l’Onu come uno scudo ma Guinness ribatte: «Nessun razzo è stato trovato in scuole in attività». Al duello a distanza Israele-Onu la Casa Bianca reagisce con la portavoce Bernardette Meehan prendendo posizione a metà strada: da una parte è «preoccupata per l’uccisione di civili» a Gaza e dall’altra «condanna chi nasconde armi in edifici dell’Onu». Poche ore più tardi un altro raid israeliano causa la morte di 16 persone nel mercato di Saijiya. Hamas reagisce con Sami Abu Zujri: «Sono crimini di guerra». Mentre partono nuovi razzi verso Tel Aviv e il Sud di Israele.

LA STAMPA - Maurizio Molinari:  " Hamas ci vuole distruggere. Ecco perché sosteniamo la guerra"


Ari Shavit


La crisi di Gaza risveglia Israele dall’illusione di vivere in una bolla di hi-tech e ci spinge a combattere un nemico spietato». Ad affermarlo è Ari Shavit, columnist di «Haaretz» e autore del best seller «La mia terra promessa» (edito in Italia da Sperling & Kupfer), secondo il quale «Israele si unisce in questa guerra perché avviene su un fronte sul quale l’occupazione è terminata del tutto» e dunque in gioco c’è la sicurezza collettiva.
Perché l’86% degli israeliani è a favore dell’intervento di terra nella Striscia Gaza ordinato da Netanyahu?
«Perché Netanyahu e il ministro della Difesa Yaalon hanno fatto di tutto per evitarlo. Non lo volevano, hanno preso tempo, hanno tentato fino all’ultimo di rinviarlo. Alla fine hanno deciso di procedere con le operazioni di terra solo davanti alla minaccia delle infiltrazioni di Hamas con i tunnel. Gli israeliani la considerano un pericolo reale alla sicurezza collettiva».
Perché Israele si trova immersa in un conflitto aspro che non aveva previsto?
«È il risultato di un errore connesso ai nostri rapporti con i palestinesi. Abbiamo pensato a lungo che bastava accordarsi con Abu Mazen, ritenendo che Gaza contasse di meno. Gaza era l’elefante nella stanza che non abbiamo voluto vedere. Abbiamo pensato che con Hamas oramai molto indebolita non ci avrebbe dato preoccupazioni. E invece è vero l’opposto: proprio perché in difficoltà, ha pianificato un nuovo tipo di guerra contro di noi».
Che cosa distingue Hamas?
«Hamas è un partito fascista. È contro tutti: le donne, le minoranze, i cristiani, i gay. I suoi nemici non sono solo gli ebrei, sono tutti coloro che non aderiscono al fondamentalismo islamico più estremo».
Quali sentimenti prevalgono in Israele verso Gaza?
«C’è grande amarezza, delusione e anche rabbia. Nel 2005 abbiamo lasciato l’intera Striscia, smantellando gli insediamenti che c’erano e portando via tutti gli oltre 8000 abitanti. Dunque dal 2005 a Gaza non ci sono più israeliani né insediamenti. È in uno stadio di semi-libertà, a causa del blocco. Per i palestinesi la semi-libertà di Gaza poteva trasformarsi nella grande occasione. Da sfruttare per accelerare il percorso verso la nascita della Palestina indipendente. E invece non è avvenuto nulla di tutto ciò: Hamas si è impossessata di Gaza nel 2007 e da allora la adopera come piattaforma per attaccarci».
Quali sono gli errori che Israele deve rimproverarsi?
«Non aver accelerato e concluso il negoziato con Abu Mazen quando era possibile. Abu Mazen rappresenta i palestinesi che hanno scelto di convivere, coesistere, firmare accordi e vivere in pace con noi. Il nostro interesse è siglare un’intesa sulla conclusione definitiva del confitto. Potevamo farlo ma non ci siamo riusciti, o non abbiamo voluto. La crisi di Gaza ci dice che sarebbe stato importante, meglio, farlo».
Nel suo libro si sofferma molto sulle trasformazioni dello Stato Ebraico, che implicazioni avrà questo conflitto a Gaza sull’identità di Israele?
«E’ una guerra che ci risveglia da un sogno irreale. Fino alla metà di questa estate gli israeliani hanno pensato di vivere in una bolla: schermati da travagli e violenze del Medio Oriente, al sicuro da terroristi sanguinari, protagonisti dell’alta tecnologia, immersi nelle start up. Hamas ci ha riportato con i piedi sulla terra. Abbiamo a che fare con nemici feroci, che vogliono portare morte e dolore nelle nostre famiglie. E dobbiamo batterci per difendere le nostre case. È una constatazione amara ma ci riporta alla realtà».

LA STAMPA - Maurizio Molinari:  "'Io bambino e pittore dipingo una città di zombie e macerie' "

Fra i profughi di Sajayia c’è un pittore di 13 anni che ha iniziato a dipingere dopo il conflitto fra Hamas e Israele del 2008 e ora è determinato a girare il mondo con le sue opere «per far conoscere a tutti le nostre sofferenze quotidiane». Mohammed Qoreqe abitava con la famiglia sull’Al-Mansura Street, i violenti combattimenti fra Hamas e israeliani hanno parzialmente demolito la casa e ora con la famiglia si è rifugiato da parenti al centro di Gaza City. «Ho iniziato a dipingere dopo il conflitto del 2008 - racconta, riferendosi a “Pillar of Defense” - ma si trattava solo di schizzi, semplici disegni. La svolta è arrivata quando mio fratello maggiore mi ha incentivato a continuare, trovandomi gli strumenti per farlo a dispetto delle difficoltà dovute al blocco economico».
Il suo primo quadro è stato una donna palestinese che alza al cielo una mano. «Piacque molto a Gaza e da quel momento mi hanno spesso chiesto di adornare muri di luoghi pubblici, soprattutto se dedicati ai bambini». Il perdurante conflitto con Israele lo ha però segnato: «Mi accorgo che tendo a dipingere personaggi senza gioia e addirittura senza vita, è come se gli zombie uscissero in continuazione dalle mie creazioni, indipendentemente dalla mia volontà», ammette, celando con l’humor un’amarezza confortata solo «dalla crescente attenzione ricevuta dal mio lavoro». Il riferimento è alle mostre di pittura sponsorizzate da Unione europea e governo libanese dove è stato ufficialmente invitato a partecipare così come «il recente invito ricevuto dal ministro della Cultura tunisino». Ma l’attuale crisi militare fra Hamas e Israele lo ha imprigionato nella Striscia: «Dovevo andare a Betlemme e non ho potuto, ora rischia di saltare anche il viaggio a Tunisi, mi sento una vittima in prima persona del blocco della Striscia di Gaza».
Sull’esito del conflitto in atto è pessimista: «Credo che durerà a lungo, è qualcosa di completamente diverso dalle altre guerre, tutti si sentono in pericolo». Anche se sulla tela si appresta a dipingere qualcosa di più nazionalista: «Il successo della resistenza nel mettere timore agli israeliani». E già progetta cosa farà «il primo giorno del ritorno a casa sulla Al Mansuri Street» ovvero «mi dedicherò a riparare in fretta quanto possibile, al fine di far tornare gli abitanti perché risiedere in un quartiere-fantasma mi mette davvero paura». Sul soggetto dei prossimi quadri sembra avere le idee chiare: «Uccidere bambini è un crimine di guerra, voglio dipingere il loro dolore per farlo conoscere al mondo intero». Ciò che infatti rimprovera ai leader palestinesi è «di avere un sistema di comunicazioni assai peggiore rispetto a Israele, che è in grado di diffondere i messaggi in maniera più efficiente grazie a una sofisticata rete di ambasciate all’estero».

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