Quelle immagini e quei titoli che non distinguono tra torti e ragioni, e aiutano Hamas Commenti di Fabrizio Rondolino, Maurizio Crippa
Testata:Europa - Il Foglio Autore: Fabrizio Rondolino - Maurizio Crippa Titolo: «Basta con quei bambini usati contro Israele - Rembrandt a Gaza, l'evoluzione del gusto e l'insincero entrare nel quadro»
Riprendiamo da EUROPA di oggi, 26/07/2014, a pag. 1, l'articolo di Fabrizio Rondolino dal titolo " Basta con quei bambini usati contro Israele"e dal FOGLIO, a pag. 2 , l'articolo di Maurizio Crippa dal titolo "Rembrandt a Gaza, l'evoluzione del gusto e l'insincero entrare nel quadro"
Di seguito, gli articoli:
EUROPA - Fabrizio Rondolino: "Basta con quei bambini usati contro Israele "
Fabrizio Rondolino
Smettiamola con i bambini: i bambini in guerra muoiono come chiunque altro, perché la guerra è orrenda. Sono morti e muoiono dappertutto, i bambini: a Belgrado e in Kosovo, in Iraq e in Siria e ovunque si combatta una guerra. Ne sono morti molti anche a Dresda, sotto i bombardamenti alleati che hanno piegato Hitler, e a Hiroshima e Nagasaki, dove le atomiche americane hanno portato la pace nel Pacifico. Dunque il problema non è se muoiono i bambini, ma se è giusta la guerra. I media italiani sono quasi tutti totalmente subornati alla propaganda di Hamas, che sfrutta cinicamente le vittime civili - molte delle quali sono letteralmente costrette dai terroristi a restare nelle case o a salire sui tetti - per muovere a pietà l'Occidente. I nostri media ogni giorno si prestano alla pornografia della morte, ogni giorno titolano in prima pagina sui morti innocenti: così l'attenzione non è più sulle ragioni della guerra, sul terrorismo di Hamas, sull'offensiva fondamentalista islamica che da Mosul a Gaza ha come obiettivo i valori e le libertà dell'Occidente, ma sui bambini, decontestualizzati e angelicati nel pantheon delle emozioni mediatiche: e chi non inorridisce di fronte a un bimbo morto ammazzato? I nostri media non osano scrivere che Israele uccide senza scrupoli, ma probabilmente lo pensano e di sicuro vogliono farcelo credere. Giocano con i sentimenti e ricattano ogni giorno i lettori: da una parte ci sono i bambini morti, e dall'altra c'è - senza dirlo mai esplicitamente, per paura e vigliaccheria - un esercito spietato, un governo spietato, uno Stato e un popolo spietati. Israele non è spietato. Non è neanche guerrafondaio: non lo è mai stato. Tutte le guerre che Israele ha dovuto combattere dal 15 maggio 1948, cioè dal giorno della sua nascita, sono state e sono guerre di difesa. Ogni volta che Israele è stato costretto a prendere le armi e a versare il sangue dei suoi figli, è perché ha subito un attacco mortale. Questa guerra non è diversa: Hamas, attraverso i tunnel e con i razzi, ha colpito e colpisce Israele, e Israele non ha altra scelta che difendersi. Di tutto questo ai media italiani importa molto poco. La guerra è uno spettacolo, e più grande è l'orrore più il pubblico accorre. I bambini morti commuovono e lo sdegno assolve la coscienza: e che importa se Hamas ha scritto nel suo statuto che Israele va cancellato dalla carta geografica, o che nascondere i razzi nelle scuole e negli ospedali è un crimine contro l'umanità, o che i tunnel con aria condizionata costruiti per ammazzare i cittadini israeliani potrebbero accogliere i civili palestinesi durante i bombardamenti e ridurre a zero le vittime. Così monta nell'opinione pubblica un'ondata molto pericolosa, che comincia col distinguere dottamente fra gli ebrei - una specie di idea platonica da commemorare compunti nel Giorno della Memoria - e il governo di Israele, poi s'allarga allo Stato ebraico nel suo insieme, la cui stessa esistenza è considerata un'anomalia, e infine sfocia nell'antisemitismo esplicito, nell'assalto ad una sinagoga a Parigi o nelle botte ai calciatori del Maccabi Haifa in Austria. Di questo l'informazione porta una responsabilità pesante, di cui prima o poi dovrà rendere conto. Criticare Israele non è antisemitismo: lo fanno molti ebrei e lo fanno molti israeliani (non altrettanto si può dire dell'altra parte). Ma dipingere giorno dopo giorno Israele come un mostro, speculando sui sentimenti più elementari dell'opinione pubblica e rifiutandosi di illustrarne le molte ragioni, produce nel tempo un diffuso e pericoloso sentimento antiebraico, tanto più intollerabile quanto più è evidente che Israele, in questa come in tutte le altre guerre, è la vittima. Israele ha il diritto di continuare a combattere fino a che l'ultimo tunnel e l'ultimo razzo di Gaza non saranno annientati (o fino a quando Hamas non annuncerà il disarmo unilaterale), perché ha diritto ad esistere. Che altro dovrebbe fare, che altro potrebbe fare Israele per fermare la guerra? L'unica opzione che il terrorismo palestinese gli offre è scomparire. L'unica scelta che ha è difendersi. Chi non comprende a fondo questo punto, chi specula sui morti innocenti e si nasconde, naturalmente in nome della "pace", dietro un'ammiccante equidistanza, fa la parte dell'utile idiota di Hamas. E una scelta legittima, ma bisogna saperlo e assumersene la responsabilità Il FOGLIO - Maurizio Crippa: "Rembrandt a Gaza, l'evoluzione del gusto e l'insincero entrare nel quadro "
Maurizio Crippa
La più intensa, struggente, ricca di pathos, si potrà mai dire bella?, tra le dozzine di fotografie provenienti da Gaza e transitate sui nostri schermi, dentro i nostri occhi, in questi giorni l’ho intercettata ieri sulla prima pagina dell’edizione internazionale del New York Times. Una selva di teste, volti di uomini straziati e sudati, in lacrime, accanto alla testa, o cranio, di un uomo morto adagiato su una barella d’acciaio. Più che una fotografia una pittura, un quadro. Oggetto per cui la categoria della bellezza vale più di quella del vero. La composizione è Rembrandt, il taglio di luce Caravaggio. O forse il contrario, non so. Un Compianto. L’eccellente autore si chiama Sergey Ponomarev, è un fotogiornalista indipendente di Mosca, freelance per il New York Times. Anche le sue foto dalla guerra in Ucraina hanno la stessa forza pittorica, barocca. Sulla prima pagina di Repubblica di ieri un’altra gran foto, senza crediti. Stavolta una Pietà, nella curiosa inversione iconografica di un Cristo emaciato e sconvolto che regge sulle ginocchia un Santo Innocente, una bambina che però è viva. Le piastrelle dietro le spalle riflettono una luce livida. La fotografia di guerra è questo, niente da dire. C’è un (in)naturale surplus d’emozione. Le è pertinente una ricerca pittorica, espressiva. Ma i morti per bomba di Gaza evidentemente hanno qualcosa di più, sia detto senza cinismo, quasi con stupore. La fotografia che ha vinto il World Press Photo nel 2013 è un funerale di due bambini a Gaza, nel 2012. Uomini che piangono e urlano nell’imbuto di una strada. Pura pittura, autore lo svedese Paul Hansen. C’è la testimonianza, la partecipazione del reporter e del pubblico, e maledetto chi non piange per foto così. C’è ovviamente anche la propaganda: com’è che i morti di altre stragi fanno meno Rembrandt? Israele del resto la sua guerra fotografica l’ha già persa da decenni, se mai l’ha combattuta. Ma questa è un’altra storia. La più intensa, struggente, ricca di pathos, si potrà mai dire bella?, tra le dozzine di fotografie provenienti da Gaza e transitate sui nostri schermi, dentro i nostri occhi, in questi giorni l’ho intercettata ieri sulla prima pagina dell’edizione internazionale del New York Times. Una selva di teste, volti di uomini straziati e sudati, in lacrime, accanto alla testa, o cranio, di un uomo morto adagiato su una barella d’acciaio. Più che una fotografia una pittura, un quadro. Oggetto per cui la categoria della bellezza vale più di quella del vero. La composizione è Rembrandt, il taglio di luce Caravaggio. O forse il contrario, non so. Un Compianto. L’eccellente autore si chiama Sergey Ponomarev, è un fotogiornalista indipendente di Mosca, freelance per il New York Times. Anche le sue foto dalla guerra in Ucraina hanno la stessa forza pittorica, barocca. Sulla prima pagina di Repubblica di ieri un’altra gran foto, senza crediti. Stavolta una Pietà, nella curiosa inversione iconografica di un Cristo emaciato e sconvolto che regge sulle ginocchia un Santo Innocente, una bambina che però è viva. Le piastrelle dietro le spalle riflettono una luce livida. La fotografia di guerra è questo, niente da dire. C’è un (in)naturale surplus d’emozione. Le è pertinente una ricerca pittorica, espressiva. Ma i morti per bomba di Gaza evidentemente hanno qualcosa di più, sia detto senza cinismo, quasi con stupore. La fotografia che ha vinto il World Press Photo nel 2013 è un funerale di due bambini a Gaza, nel 2012. Uomini che piangono e urlano nell’imbuto di una strada. Pura pittura, autore lo svedese Paul Hansen. C’è la testimonianza, la partecipazione del reporter e del pubblico, e maledetto chi non piange per foto così. C’è ovviamente anche la propaganda: com’è che i morti di altre stragi fanno meno Rembrandt? Israele del resto la sua guerra fotografica l’ha già persa da decenni, se mai l’ha combattuta. Ma questa è un’altra storia.
Per esprimere la propria opinione a Europa e Foglio, telefonare ai numeri seguenti oppure cliccare sulle e-mail sottostanti