Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 22/07/2014, a pag. 11, l'intervista di Antonello Guerrera a Nathan Englander dal titolo " Due popoli divisi dall'odio per la follia estremista di Netanyahu e di Hamas"
L' "acqua pura è buona e fa bene, quella inquinata no". Questa, in sintesi l'analisi degli intellettuali pacifisti. Mai una volta che ricordino che è l'attacco dei razzi di Hamas contro Israele che spiega la risposta di Gerusalemme, che altrimenti non sarebbe mai avvenuta.
Di seguito, l'articolo:
Antonello Guerrera Nathan Englander
«È straziante per me concedere questa intervista. Oggi a Gaza è stato un nuovo giorno orribile, come ieri. Io sono distrutto. Siamo sprofondati nell’incubo, ancora una volta, come nel 2012. Mi sento agghiacciato. Tutto è agghiacciante». Nathan Englander è decisamente scosso: la voce è incerta, le parole stentano mentre commenta i nuovi orrori del conflitto. «La prego, non lo chiami conflitto israelo-palestinese », dice lo scrittore ebreo-americano, 44 anni, autore di Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank (Einaudi), celebrato da maestri della letteratura americana come Roth, Franzen e Safran Foer.
Nathan Englander, lei ha vissuto molti anni in Israele prima di tornare a New York, perché non vuole che si chiami “conflitto israelopalestinese”?
«Perché è un’etichetta che non rispecchia la realtà. I cittadini israeliani e palestinesi non commetterebbero mai stragi di questo genere. Sono i loro governanti, Netanyahu e Hamas, che hanno scelto la carneficina. Le persone normali non decidono niente. Guardi i palestinesi a Gaza, non possono fuggire, né dalle bombe, né dagli estremisti. Dove diavolo possono andare?».
Nella Striscia ormai è in corso un massacro.
«Non capisco come siamo finiti in questo vicolo cieco. Non ci capisco più niente. Non capisco come un israeliano non si renda conto dell’orrore dei bambini innocenti uccisi a Gaza. Prima “l’incidente” sulla spiaggia, poi “l’incidente” sul tetto. Kerry domenica in un fuori onda lo ha ammesso: non è affatto un’offensiva “chirurgica”».
E allora che cos’è?
«È un attacco inaccettabile, semplicemente inaccettabile. Come sono intollerabili i lanci di razzi da Gaza e chi li giustifica. Quando vivevo in Israele (dal 1996 al 2001, ndr.), per un po’ ho creduto che le persone morissero per la pace. Saltava tutto per aria: l’autobus, il mio vicino, il mercato dove poco prima avevo comprato la frutta. Ma morire o uccidere per la pace è una grande menzogna. E lo stesso penso oggi dell’offensiva di Israele».
L’odio si insinua ovunque, guadagna terreno.
«Ci sono due popoli all’interno dei quali prendono il sopravvento le posizioni più estremiste. In Israele la destra è sempre più forte. Mentre coloro che, come me, credono nella pace e nella necessità dei due Stati sono diventati una minoranza. La spirale di odio è sempre più violenta. È angoscioso. Ma c’è qualcosa che è anche peggiore».
Cosa?
«Ormai israeliani e palestinesi non si conoscono più, non si parlano più. Sono sempre più divisi, lontani. Non c’è niente di peggio. Quando arrivai in Israele, noi ebrei andavamo a fare trekking in Cisgiordania. Tel Aviv era piena di arabi. Palestinesi e israeliani condividevano molte cose. Era tutto diverso».
E oggi?
«È cambiato tutto. Gli estremismi da una parte e dall’altra hanno “scisso” i due popoli. Molti ragazzini che oggi sparano razzi da Gaza non hanno mai conosciuto un ragazzo ebreo. E lo stesso si può dire dei fondamentalisti israeliani che hanno bruciato vivo il piccolo arabo. Netanyahu e Hamas devono capire che non stanno giocando a Risiko».
Come si può uscire da questo incubo?
«Solo accettando dei compromessi ».
Che per alcuni è una brutta parola.
«E invece è l’unica soluzione possibile. È folle rifiutare i negoziati. Perché Hamas non può fermare l’esercito israeliano e i soldati d’Israele non possono fermare Hamas. Lo abbiamo visto in questi anni».
Ma come si può arrivare a un compromesso ora, dopo l’ennesima strage?
«Lei ricorda il caso di Gilad Shalit, il soldato israeliano rapito da Hamas nel 2006? Bene, si è giunti a una soluzione dopo anni di trattative con gli integralisti. Bisogna ripartire da lì, dal negoziato. Per esempio, Berlino è una delle mie città preferite, adoro la sua gente. Ma un ebreo-americano come me avrebbe provato gli stessi sentimenti nel 1945? Non credo. Per la pace ci vuole tempo, pazienza e tanto coraggio. Il coraggio non è attaccare Gaza, ma cercare la pace con gesti impopolari, come hanno fatto in passato Sadat e Rabin. Che, non a caso il loro coraggio lo hanno pagato con la vita».
Israele potrà mai accettare un compromesso?
«Devono farlo perché la stessa esistenza di Israele non è mai stata in pericolo come adesso. Persino “falchi” come Sharon o Begin hanno ceduto ai compromessi. L’unico paese stabile in Medio Oriente, almeno sinora, è la Giordania. Il resto è una polveriera: 160mila morti in Siria. E poi l’Iran, l’Isis in Iraq, il Libano. È un gioco al massacro».
Da americano cosa si aspetta dal presidente Obama?
«Che convinca tutti a raggiungere un immediato cessate il fuoco. Tutto il resto verrà dopo».
Nel frattempo cresce l’antisemitismo, soprattutto in Europa. Lei è appena tornato dalla Francia, dove da tempo c’è un preoccupante esodo di ebrei.
«A Parigi ho respirato un brutto clima. Ma allo stesso tempo sono confortato dalla reazione delle autorità francesi e europee».
Quindi un po’ ottimista lei lo è, in fondo.
«Devo esserlo, anche se non è facile. Come ci ha insegnato la Storia, vedi la Prima Guerra mondiale o l’11 settembre, un singolo individuo può innescare catastrofi planetarie. Ma, nonostante tutto l’odio, il Medio Oriente non è stato ancora raso al suolo. E questo mi dà speranza».
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