Aprire porti e aereoporti per fermare il riarmo di Hamas: il controsenso di Tom Segev Intervistato da Vanna Vannuccini
Testata: La Repubblica Data: 20 luglio 2014 Pagina: 0 Autore: Viviana Mazza Titolo: «Tunnel e razzi potenti Netanyahu deve spiegare chi ha permesso questo»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi 20/07/2014 a pag. 15, l'intervista di Vanna Vannuccini allo storico israeliano Tom Segev dal titolo "Tunnel e razzi potenti Netanyahu deve spiegare chi ha permesso questo".
Tom Segev è uno storico di valore, ma la sua analisi della politica israeliana verso Gaza e Hamas è pericolosamente ingenua. Secondo lui per evitare che Hamas si armasse Netanyahu avrebbe dovuto permettere il regolare funzionamento di porto e areoporto, per accrescere il benessere della popolazione. Chiunque capisce, però, che con una simile misura Hamas si sarebbe armata molto più facilmente e molto di più. In Cisgiordania Israele ha condotto una politica di collaborazione con l'Anp e di sviluppo economico. Le condizioni di vita sono perciò molto migliori che nella Striscia. Ciò dipende però proprio dal fatto che con Hamas al potere non è possibile una politica di collaborazione e 'normalizzazione'.
Di seguito l'articolo:
Vanna Vannuccini Tom Segev
«Il popolo israeliano dovrebbe chiedere conto al primo ministro di come è Gaza oggi. Da otto anni è al governo e in questi otto anni Hamas ha costruito tunnel e ha acquisito razzi anche di considerevole gittata». Così parla Tom Segev, scrittore ed esponente dei Nuovi storici israeliani, il movimento che ha smitizzato la storia patria. Di fronte al conflitto che sta divorando la Striscia ammonisce: «Dovremmo concedere qualcosa». Hamas era isolato e indebolito, aveva perso il sostegno egiziano, non era questo un momento strategico per Israele per cercare di fare la pace? «Molti israeliani avrebbero voluto un’altra politica, la soluzione dei due Stati. I palestinesi a Gaza non hanno nulla da perdere, questa è la realtà, perciò io dico che dovremmo dar loro qualcosa da perdere: il porto, magari l’aeroporto, una Gaza con accessi liberi diventerebbe una Singapore mediorientale. Ma è governata da una dittatura islamista, e il fatto di essere chiusi dentro ha fatto crescere una generazione che si è imbevuta di miti eroici. Successe la stessa cosa in Israele negli anni ‘50 , un fiorire di leggende sulla lotta contro i britannici - storie di atti eroici, nascondigli, imboscate». Sui social media tanti si pongono domande sul destino di Israele alla luce dell’ultimo conflitto. Che ne pensa? «Il sionismo è un esperimento che non è fallito ma che non è nemmeno pienamente riuscito perché non siamo riusciti a raggiungere la pace con gli arabi. Il sogno sionista si è avverato parzialmente. Ben Gurion predisse che in Palestina sarebbe nato uno Stato ebraico con 4 milioni di ebrei e una piccola minoranza araba, ma sbagliò nel prevedere che gli arabi avrebbero ben accolto lo Stato ebraico anche nel loro interesse. Questo lo disse nel 1914, ma credo che in quel momento avesse già chiaro che il prezzo del sionismo sarebbe stato una vita senza pace. Questo è quanto pensa oggi la maggioranza degli israeliani: negli ultimi dieci anni hanno smesso di credere alla possibilità della pace». Un messaggio di disperazione? «No, e le dico perché. Ieri sera ero a casa di mio figlio , un ingegnere elettronico con due bambini piccoli. Sono suonate le sirene e siamo scesi nel rifugio. Gli ho chiesto perché rimanga in Israele. Mi ha dato una risposta che mi ha sorpreso, ma che mi fatto capire che il sionismo ha funzionato. Perché non voglio fare l’emigrante, mi ha detto. Una risposta per niente ideologica, è una generazione la sua che non pensa collettivamente, ma in termini del benessere proprio e della propria famiglia, che è scettica e critica della politica». Le reazioni negative di fronte a quanto sta avvenendo a Gaza sono poche. Perché? «Perché secondo me Israele è sì uno dei dieci-quindici paesi più avanzati al mondo, ma le guerre hanno un effetto sempre più negativo: diventiamo sempre più razzisti, capaci di odio. Un sul futuro della nostra democrazia» Per esprimere la propria opinione a Repubblica, telefonare al numero 06/49821 o cliccare sulla e-mail sottostante rubrica.lettere@repubblica.it