Un'analisi disinformata che divide 'equamente' le colpe tra Hamas e Netanyahu Wlodek Goldkorn e Gigi Riva smentiti persino dalla sinistra pacifista di Haaretz
Testata: L'Espresso Data: 18 luglio 2014 Pagina: 65 Autore: Gigi Riva, Wlodek Goldkorn Titolo: «Israele-Palestina. Perchè vince la guerra»
Riprendiamo, dall 'ESPRESSO datato 24/07/2014, a pagg.64-69, l'articolo di Gigi Riva e Wlodek Goldkorn dal titolo "Israele-Palestina. Perchè vince la guerra".
L'analisi di Gigi Riva e Wlodek Goldkorn, che divide equamente la responsabilità del conflitto in corso tra Hamas e Benjamyn Netanyahu è talmente poco informata che contraddice persino il commento della sinistra pacifista di Haaretz. Si veda l'odierna "Lettera da Gerusalemme" di Angelo Pezzana: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=54295
Benjamyn Netanyahu Logo di Hamas
Di seguito, l'articolo:
Wlodek Goldkorn Gigi Riva
Resta ai più incomprensibile il perché inTerrasanta periodicamente riesploda la guerra. E. non si arrivi a risolvere un conflitto che, nelle sue radici lunghe, ha una durata ormai secolare. Israele chiede sicurezza, un diritto sacrosanto. I palestinesi vogliono uno Stato dopo 47 anni di occupazione, diritto altrettanto sacrosanto. Sembra semplice ma a prevalereè sempre la logica delle armi. In sei punti spieghiamo perché.
Hamas ha bisogno di martiri
Non sono stati probabilmente i vertici di Hamas a decidere il rapimento e l'uccisione dei tre ragazzi ebrei in Cisgiordania, ma una tribù vicina al movimento che ha agito in autonomia. Dopo il successivo omicidio di un ragazzo palestinese da parte di estremisti ebrei la situazione si stava calmando quando Hamas ha deciso di rialzare lo scontro lanciando numerosi razzi dalla Striscia. Non più solo i rudimentali kassam, imprecisi e dalla gittata limitata, ma i più moderni J-80, M-302 Khaibar, Fair 8 e Fair 3, capaci di colpire quasi tutto il territorio di Israele. Sapevano, conoscendo la logica eterna del conflitto, che lo Stato ebraico avrebbe reagito come nel 2008 (operazione "Piombo fuso") e nel 2012 ("Colonna di fumo"). E infatti ha lanciato "Margine di protezione". Guerre così asimmetriche da registrare un forte squilibrio di vittime: per "Piombo fuso", ad esempio, 1400 morti palestinesi e 13 israeliani. Perché provocare allora la carneficina del proprio popolo sapendo che Israele non sa usare la forza se non in modo eccessivo come avvenuto anche stavolta? Per la logica del martirio, da sempre perseguita, la sola capace di ridare fiato a un movimento in verticale calo di consenso, avendo disatteso tutte le aspettative della sua gente dopo la clamorosa vittoria elettorale del 2006. Stando all'ultimo sondaggio del Centro palestinese per l'opinione pubblica, se si votasse oggi (e si votasse finalmente dopo otto anni) Fatah, l'organizzazione secolare che fu di Arafat, vincerebbe col 39 per cento contro il 15,6 di Hamas e sarebbe prima non solo in Cisgordania ma anche a Gaza. Il leader più popolare è risultato Marwan Barghouti, Fatah, comandante della Seconda Intifada, in una galera israeliana dal 2002 dove sconta cinque ergastoli. Batte non solo l'attuale presidente Abu Mazen (33,2 a 26,9) ma anche il premier di Hamas a Gaza Ismail Haniyeh (49,7 a 16) e il capo di Hamas Khaled Meshaal (51 a 16,2). Ecco allora spiegato il motivo per cui il movimento islamista aveva bisogno di una guerra: doveva ricompattare le file contro il nemico esterno.
Netanyahu non vuole l'accordo
E per fare una (limitata) guerra non c'è partner migliore di Bibi Netanyahu il premier di Israele. Retorica da superfalco, prassi da uomo che teme un guerra totale, convinzione che Israele possa un giorno scomparire, nonostante il suo eccellente apparato militare, profonda sfiducia, per non dire disprezzo, nei confronti dei vicini arabi e l'idea fissa che gli ebrei sono sempre stati e sempre saranno isolati nel mondo, oggetto di ostilità: Netanyahu incarna questa visione catastrofica ereditata dal padre, Ben Zion, un genitore ingombrante, scomparso all'età di 102 anni nel 2012. Non si può capire la sua riluttanza a fare concessioni ai palestinesi (condizione indispensabile di un trattato di pace) né si può comprendere la sua narrazione basata sull'idea della mobilitazione permanente in vista di una guerra estrema (che fortunatamente non si verifica), senza aver presente il padre. Ben Zion, storico, ha sviluppato una teoria per cui i marrani, gli ebrei convertiti al cattolicesimo in Spagna, non erano perseguitati perché comunque fedeli all'antica fede, ma per motivi razziali. Ed è questo l'eterno destino del popolo d'Israele. Tradotto nella politica di oggi, e con l'aggiunta del trauma della Shoah: è solo la forza che conta. Nato nel 1949, Netanyahu ha vinto per la prima volta le elezioni, contro Peres. nel 1996 (grazie a uno scarto dello 0,5 per cento, con lo slogan "Peres dividerà Gerusalemme" e mentre nelle città israeliane saltavano per aria gli autobus). Congelò il processo di pace, ma non diede disdetta degli accordi di Oslo né rinnegò l'idea di due Stati per due popoli. Semplicemente tentò di mantenere lo status quo. Tornò al potere nel 2011 e rivinse le elezioni dell'anno scorso cavalcando la paura dell'atomica iraniana, e minacciando la guerra contro Teheran. Ma si è astenuto dallo scatenare un conflitto vero. Liberista in economia, è convinto che, oltre all'esibizione dei muscoli, è lo sviluppo economico la leva che può far rimandare ogni decisione sui confini. Sperando che il presente possa durare in eterno, o almeno per qualche decennio. Del resto, non fosse per Hamas e Gaza, forse avrebbe ragione.
Un paese ostaggio dei coloni
Il paradosso è questo: in tutti i sondaggi, l'ultimo quello recente pubblicato su Haaretz alla vigilia della crisi attuale, la maggioranza degli israeliani si dichiara favorevole alla soluzione di due Stati per due popoli. In pratica, la divisione della Palestina storica. Ma il Paese è ostaggio della potente lobby dei coloni: gente che ha deciso di vivere nei territori della Cisgiordania. II loro numero è controverso. Se si calcolano anche gli abitanti ebrei di Gerusalemme Est, mezzo milione di persone. Altrimenti circa 300 mila. Non tutti estremisti. Ci sono i "moderati", ad esempio, che abitano a Gush Etzion, un blocco di insediamenti a sud di Gerusalemme, che esisteva prima della guerra del 1948 e i cui abitanti vennero, sempre nel 1948, sterminati dalla Legione araba. La gente che è andata a vivere lì all'indomani della guerra del 1967 mantiene rapporti tutto sommato corretti coi vicini palestinesi. Il nucleo duro è composto da persone che in seguito alla Guerra di Sei giorni, videro nella conquista dei luoghi biblici, da Hebron a Nablus, da Betlemme alle colline della Samaria e della Giudea, il segno della vicina Redenzione. E in quell'ambiente che operava Baruch Goldstein, medico di origini americane,che dopo gli accordi di Oslo compì, nel 1994, la strage dei musulmani in preghiera sulla Tomba di Abramo a Hebron. Ed è da quell'ambiente che proveniva Ygal Amir l'assassino di Itzhak Rabin, e del resto il premier israeliano da quell'ambiente venne condannato a morte in quanto "traditore". Il trauma di quell'assassinio non è stato ancora elaborato. Ia punta avanzata e più estrema della lobby dei coloni sono "i giovani delle colline", ragazzi ultrareligiosi, armati e che uniscono una sorta di romanticismo di stampo tedesco ottocentesco alla fede nell'imminente arrivo del Messia. Ma la loro vera forza politica sta nella sua rappresentanza parlamentare. Il partito Bayit Yehudi (La casa ebraica), capeggiato da Naftali Bennet, figlio di immigrati americani dispone di 12 deputati su 120 alla Knesset. E Bennet è ministro potentissimo nel governo di Netanyahu. Gioca anche il richiamo aIle origini stese del sionismo: la prassi del sacrificio, della vita avventurosa in mezzo ai nemici. Con una differenza non da poco. In origine, i pionieri erano laici, si insediavano nei luoghi dove la terra era fertile senza riferimenti alle sacre scritture, spesso professavano un'ideologia socialista. E l'inimicizia con gli arabi era considerata un fenomeno provvisorio; senza alcun significato mistico, trascendentale.
le colombe sono i generali
Bisogna guardare il documentario "The Gatekeapers" (una nomination all'Oscar) per sfatare un luogo comune. Nel film i capi del Mossad e dello Shabak (intelligence interna) spiegano che non si possono reprimere le istanze di libertà e di indipendenza di un popolo.Tantopiù dopo 47 anni di occupazione. Tanto più se il trend demografico farà si che gli arabi saranno maggioranza sul territorio che va dal Mediterraneo al fiume Giordano, la Palestina classica. Un ex capo dello Shabak, Yaakov Peri (19881994) dovette fronteggiare la prima Intifada (o Intifada delle pietre) quella in cui le parole d'ordine dei palestinesi erano democrazia, dignità, diritti umani. Oggi è ministro della Scienza, tecnologia e spazio in quota al partito centrista di Yair Lapid. Poco prima dell'attuale crisi aveva chiesto la convocazione di una Conferenza internazionale di pace a cui invitare anche i Paesi arabi cd è convinto sostenitore dei due Stati. Un suo successore, Ami Ayaion, milita in un movimento pacifista. Un alto, Carmi Gillon, è tra i principali critici dell'uso eccessivo della forza da parte di Israele. Per non dire dei generali, considerati "di sinistra" (lo stesso Rabin fu Capo di Statomaggiore). Sono loro, spesso, a frenare gli eccessi dei politici forti di un ethos dell'esercito che prevede la sconfitta ma non l'umiliazione del nemico. E del resto l'esercito popolare affonda le sue radici nel secolarismo. Niente a che vedere coi molti soldati, soprattutto delle truppe d'élite, che arrivano, almeno nel recente passato, dai ranghi dei coloni: e stanno innestando nei ranghi una cultura religiosa.
Obama non può nulla
Manca un arbitro in Medioriente. Lo furono gli Stati Uniti un tempo (e del resto i molti piani di pace portano i nomi di mediatori e inviati speciali americani). Non lo sono più da quando George Bush il figlio decise di scendere in campo con la casacca israeliana. Barack Obama ha cercato di riequilibrare la posizione di Washington ma non è riuscito nell'intento. Intanto per la mancata credibilità pregressa, e poi per la cordiale antipatia, diventata proverbiale, tra lui e Netanyahu. Il governo dello Stato ebraico,abituato a orientare la politica Usa, non accetta di essere contraddetto. Da qui i numerosi "schiaffi" impartiti a uomini chiave dell'amministrazione come il vicepresidente Joe Biden o al Segretario di Stato John Kerry, accolti in patria contestualmente all'annuncio della costruzione di nuove colonie, uno degli ostacoli maggiori ad ogni trattativa. La pace possibile
Due Stati per due popoli: gli israeliani e i palestinesi, con Gerusalemme capitale di ambedue e frontiere permeabili. Sono questi i termini di un accordo di pace su cui tutti, dalle grandi potenze a quel che rimane dell'Europa e fino ai due diretti interessati, Israele e l'Autorità nazionale palestinese, sono d'accordo, da più di vent'anni. E allora, perché quel trattato non è stato mai firmato? Per una questione di dettagli. Ma dietro i dettagli c'è una sostanziale sfiducia che ambedue le parti nutrono verso l'altra. Con ordine.Tutto ebbe inizio con gli accordi di Oslo, firmati a Washington (presidente Blll Clinton), nel settembre 1993 tra il governo di Itzhak Rabin e Shimon Peres da un lato e Yasser Arafat dall'altro. Sancivano il riconoscimento tra lo Stato ebraico e l'Organizzazione per la liberazione della Palestina. Di conseguenza Arafat tornò dal suo esilio tunisino, in Cisgordania e nella Striscia di Gaza venne instaurato un regime di Autonomia. In pratica, Israele rinunciò all'occupazione militare, mentre i palestinesi abbandonarono la lotta armata. In realtà, quegli accordi non erano altro che un tentativo di instaurare una stretta collaborazione in vari campi (compreso quello della sicurezza) per cercare di costruire una reciproca fiducia. Sembrava una strada fattibile.Tanto che, nonostante Rabin nel frattempo fosse stato ammazzato (nel 1995) da un estremista ebreo, nel 2000, negoziati di Camp David, e all'inizio del 2001, trattative di Taba, si arrivò vicini a un accordo definitivo. Che in varie trattative "tecniche" condotte da altri governi israeliani non venne mai smentito nè sconfessato. In sostanza: Gaza ai palestinesi. E per quanto riguarda la Cisgiordania Israele si sarebbe ritirato dal 97 percento circa del territorio. L'annessione del rimanente 3 per cento (dove risiede circa l'80 per cento dei coloni) sarebbe stata ricompensata con la cessione da parte di Israele alla Palestina di una porzione uguale del suo territorio. Gerusalemme sarebbe stata divisa tra la parte israeliana e quella palestinese (con cogestione della città). Restava la questione del diritto al ritorno dei profughi, cruciale per i palestinesi. La soluzione prospettata era un ritorno simbolico di qualche decina di migliaia di persone e una serie di risarcimenti materiali (a carico per lo più dei contribuenti americani) per gli altri. Infine: siccome lo spazio della Palestina tuttaè stretto (è grande come la Toscana ), i confini sarebbe stati aperti per uomini e merci. Altre soluzioni non sono 4state trovate. Perché non esistono. Il piano, gira e rigira, è sempre lo stesso. Cercasi leader col coraggio di attuarlo.