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La Repubblica - L'Unità - Il Fatto Quotidiano - Il Manifesto Rassegna Stampa
17.07.2014 Quella fretta di condannare Israele, prima che i fatti siano verificati
Critiche ad Adriano Sofri, Umberto De Giovannageli, Cosimo Caridi, Michele Giorgio

Testata:La Repubblica - L'Unità - Il Fatto Quotidiano - Il Manifesto
Autore: Adriano Sofri
Titolo: «Gli innocenti»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 17/07/2014, a pagg.1-15, l'articolo di Adriano sofri dal titolo " Gli innocenti ".
Sofri accetta i dati diffusi dalle fonti di Gaza (cioé di Hamas) circa il conteggio dei morti e la proporzione delle vittime civili, condanna come illegittimo e disumano l'avvertimento israeliano ai civili che vivono nelle zone di combattimento, volto a salvar loro la vita,  utilizza la consueta, menzognera formula della "prigione a cielo aperto" e attribusice a questa presunta condizione il dominio di Hamas.
In realtà, i controlli alle frontiere di Gaza (che in ogni caso non la trasformano affatto in una prigione) si sono resi necessari precisamente perché Hamas, un gruppo terroristico votato alla distruzione di Israele, ha preso il controllo della Strisica.

In molti quotidiani di oggi si rileva la volontà di giungere sbrigativamente a una condanna sommaria di Israele per la morte dei quattro bambini a Gaza: segnaliamo in particolare l'articolo di Umberto de Giovannangeli pubblicato a pag. 7 dall'UNITA', con il titolo "Gaza l'orrore senza fine uccisi 4 bambini palestinesi".
De Giovannangeli cita  quanto sostenuto dal corripondente del GUARDIAN Peter Beaumont sul suo profilo Twitter: "
non c'è stato nessun colpo di avvertimento, i ragazzi sono stati uccisi al primo giro, poi gli artiglieri hanno aggiustato la mira e preso i sopravvissuti". Beaumont  non fornisce le prove della sue affermazioni, riportate del tutto acriticamente da u.d.g.
La selezione parziale delle fonti è evidente nell'articolo di Cosimo Caridi, pubblicato a pagg.12-13 sul FATTO QUOTIDIANO, con il titolo "Morte in diretta dei bambini della spiaggia di Gaza". Caridi intervista attivisti del gruppo estremista International Solidarirty Movement (quello di Rachel Corrie e Vittorio Arrigoni) che affermano di voler divenire "scudi umani" e accusano Israele di non curarsi "delle vite dei palestinesi".
Sul MANIFESTO, Michele Giorgio rifiuta persino l'idea che lo svolgimento dei fatti debba essere accertato, scrive: "
il massacro che non lascia spazio a interpretazioni è davanti agli occhi e alle telecamere di tutti".

     

       

Di seguito, l'articolo di Adriano Sofri:


Adriano Sofri

Le pagine
di ieri si aggiornavano con titoli e foto su quattro bambini uccisi a Gaza su una spiaggia. Una di queste fotografie è specialmente difficile da guardare.
Per il modo in cui il colpo ha schiacciato il viso nella sabbia sporca, ha invertito il sopra e il sotto, il davanti e il di dietro degli arti. Si sceglierà di non pubblicarla quella foto, di sostituirle un’altra, che mostri quello che è accaduto, e però si tenga un passo di qua dal troppo orrore. Ci si interrogherà anche su come sia stata scattata, sul fondale di spiaggia vuota, prima dell’impulso a correre a toccarlo, ricomporlo, sollevarlo.
Su tutto ci si interroga in questa quarta guerra di Gaza, una specie di Biennale dell’odio e del furore. Sulle fotografie falsificate, sulla provenienza dei proiettili, sulle intenzioni reciproche. Ci si interroga su tutto perché niente ha senso.
Ieri i morti, dopo nove giorni, avevano superato i 200. Nella scorsa edizione della Biennale di Gaza, 2012, erano morti in 177 in una settimana, 26 erano bambini. Questa volta, secondo fonti palestinesi o Save the Children, i bambini uccisi sarebbero uno su cinque, dunque già una quarantina. Mentre lo scrivi, «una quarantina », senti la nausea. È una lugubre, stolida coazione a ripetere, dicono i commenti. C’è una provocazione, o un pretesto, Israele interviene e punisce Hamas e le sue piazzeforti, poi si ritira, e così via. Ma non è vero che la storia si ripeta uguale. Ogni volta è diverso, e peggiore. La gittata dei razzi e dei missili di Hamas e della Jihad, che già due anni fa toccavano Tel Aviv e lambivano Gerusalemme, cresce ogni volta. La regione che circonda la breve terra in cui israeliani e palestinesi si guardano si conoscono e si odiano stringe a sua volta una morsa attorno a Israele: se in Egitto i Fratelli Musulmani sono banditi e condannati a morte e hanno lasciato orfana Hamas, in Siria e in Iraq l’estremismo dispotico e jihadista infuria, e la Giordania gremita di milioni di profughi ne sente il fiato. E infine, a ogni nuova eruzione, la violenza si accumula nel sottosuolo, esacerbata dal rancore e dalla vendetta.
La grande maggioranza delle vittime dell’azione militare israeliana è di civili. Sono civili i bersagli prediletti dei lanci di razzi e missili di Hamas. Anche le parole sono consunte, e pronte a tradire le intenzioni e la verità, come la «sproporzione». Uno a duecento, i morti israeliani e palestinesi. Uno a mille o a duemila, i prigionieri scambiati. E così via. I governanti israeliani vantano di tenere supremamente alle vite umane, che i capi di Hamas sfruttano cinicamente come scudi e martiri della loro propaganda. Ma i responsabili israeliani possono dire di tenere altrettanto alle vite dei civili e dei bambini palestinesi? Non è affar loro — e nostro ? Hamas impiega le sue risorse a moltiplicare i razzi da far piovere sui villaggi e le città israeliane piuttosto che per costruire rifugi o ripari al popolo che pretende di guidare: questo esime il governo di Israele da una responsabilità verso quello stesso popolo? Il governo di Israele avverte i civili palestinesi dei propri attacchi: ma c’è, non che un diritto, un resto di umanità nell’ingiunzione a centomila persone, famiglie di vecchi e bambini, donne e uomini, di evacuare le loro case e cercare scampo altrove, nel fazzoletto di terra più affollato del mondo?
Il governo di Israele accetta la tregua mentre Hamas, o la sua fazione più truce e potente, la respinge: ma la stessa eventualità di concordare una tregua cui sia Israele che Hamas si uniformino non segnala la necessità e l’inevitabilità di riconoscersi, pur con tutta l’inimicizia e il disprezzo possibile, e trattare reciprocamente?
Che la striscia di Gaza sia una prigione a cielo aperto non è solo un modo di dire, e tanto meno un modo di dire propagandistico e fazioso. È una descrizione istruttiva e rivelatrice, se solo i responsabili israeliani volessero prenderla in parola nel proprio stesso interesse. Dentro una prigione che si abbandona per sorvegliare solo i muri di cinta e gli accessi e impedire le evasioni, a rischio di morte — com’è a Gaza, per la stessa possibilità di passare in Cisgiordania e viceversa — succede come in ogni galera che si pretenda di governare lasciandola a se stessa: che il potere passa ai più incalliti e feroci criminali, e i deboli e inermi non possono che divenirne ostaggi, o confidare nella loro brutalità. L’esempio è istruttivo, a condizione di ricordare che i quasi due milioni di persone della Striscia non sono detenuti per aver commesso qualche reato ed esserne stati giudicati. Sono il deposito innocente di una disgrazia terribile.
I quattro bambini di ieri si sono guadagnati un titolo, come figure improvvisamente affiorate e colorate dentro un’infinita processione grigia: perché erano su una spiaggia, perché era il nono giorno, e chissà perché ancora. Come i tre ragazzi israeliani rapiti e trucidati. Come il ragazzo palestinese linciato. Si può andare indietro senza fine, in questa processione luttuosa interrotta da qualche nome scandito, da qualche immagine colorata. Questo significa che si può andare avanti senza fine, nel futuro, vedendo già espandersi il cimitero di fosse comuni interrotto qua e là da qualche tomba guarnita di un nome e una data, qualche figurina rosa o celeste, o verde o rossa? I bambini morti sono invidiati dai bambini vivi. I bambini vivi imparano ad aver paura e a odiare.

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