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La Repubblica Rassegna Stampa
16.07.2014 Sordità alle ragioni di Israele, anche sulla bomba iraniana
la rivela un'analisi di Vanna Vannuccini

Testata: La Repubblica
Data: 16 luglio 2014
Pagina: 13
Autore: Vanna Vannuccini
Titolo: «L'altro fronte di Netanyahu offensiva del premier contro il disgelo Usa-Iran»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 16/07/2014, a pag. 13, l'articolo di Vanna Vannuccini dal titolo "L'altro fronte di Netanyahu offensiva del premier contro il disgelo Usa-Iran".
Schierandosi con i sostenitori di un accordo a tutti i costi nei negoziati sul nucleare iraniano in corso a Vienna, Vanna Vannuccini presenta la contrarietà di Israele come un ostacolo sulla via di una possibile alleanza Usa-Iran. Dimenticando che, per lo Stato ebraico, un'Iran nucleare rappresenta un pericolo esistenziale e che Teheran non è intenzionato a rinunciare nè al sostegno al terrorismo, nè alla sua ideologia profondamente antiamericana e antioccidentale, il che rende l'ipotesi di coinvolgerla in un'allenza completamente assurda.


Missili balistici iraniani

Di seguito, l'articolo:


Vanna Vannuccini


Il futuro
 dell’Iran si decide a Vienna questa settimana. A Teheran tutti gli occhi sono puntati verso la capitale austriaca. Domenica, giorno in cui dovrebbe concludersi il negoziato sul nucleare, è il giorno fatidico in cui gli iraniani capiranno se possono finalmente aspettarsi un futuro normale. Per Rouhani è la pietra miliare del suo primo anno di presidenza. Nell’attesa, tutto in Iran è «come se fosse sospeso, congelato», dice Ali, un negoziante. Nessuno compra, nessuno vende, tutti aspettano. Ali ha un negozio di tessuti nella grande piazza intitolata all’Imam Khomeini, che prima della rivoluzione si chiamava piazza dei Cannoni, per via dei cannoni installati sulle torrette del palazzo reale dei Qajar. Di solito i negozi sulla piazza sono affollati, ma in questi giorni i clienti sono rari. Così Ali ha preso l’abitudine, nelle ore più calde, di sedersi fuori dal negozio, all’ombra della tenda che copre l’ingresso, in un punto in cui spira sempre una brezza leggera. «Questa è la mia ora di meditazione», dice. Ali è un uomo pio, molto stimato: l’anno scorso è andato alla Mecca, e al ritorno ha finanziato la costruzione di una piccola moschea in un vicolo che dà sulla piazza.
Ali ha votato per Rouhani e continua ad aver fiducia nel presidente. Il fatto è che domenica si saprà se i 5+1 e l’Iran avranno trovato la strada per un accordo da cui molto dipende, non solo per il paese ma per tutta la regione mediorientale. Israele non siede al tavolo dei negoziati, ma il suo governo è da sempre in prima linea contro un accordo. Anche in questa ultima settimana, insieme alle operazioni a Gaza, Netanyahu ha lanciato un blitz mediatico per convincere l’opinione pubblica americana che solo una soluzione “zero centrifughe” può essere una garanzia per Israele. «Se rimanessero centrifughe operative, anche il monitoraggio più pervasivo non basterebbe», ha detto. «In qualsiasi momento l’Iran può cacciare gli ispettori a correre ad arricchire uranio sufficiente per una bomba». Il risultato del blitz è stata una petizione bipartisan firmata da 342 membri del Congresso per chiedere a Obama di prolungare sine die le sanzioni. D’altra parte, molti sono convinti che sia proprio il dossier nucleare con l’Iran, delicatissimo e considerato di assoluta priorità, a far sì che gli Usa tengano una posizione tutto sommato low profile dinnanzi all’escalation nella Striscia di Gaza: meglio evitare un eventuale corto-circuito tra un fronte e l’altro, se non altro a causa dei sostegni di varia natura che l’Iran fornisce ad Hamas.
E se il negoziato di Vienna fallisce?
Nemishe , dice Ali. «Non può essere».
È la risposta che ti danno tutti, qui nella piazza Imam Khomeini.
Nessuno può pensare che il negoziato non si concluda positivamente. È una certezza fatta più di ansia che di ottimismo — nessuno vuole nemmeno pensare a cosa potrebbe accadere se l’accordo fallisse. Tutti sperano.
«La situazione economica non è migliorata, il lavoro non c’è, la vita è cara, ma la gente capisce che andrà tutto meglio se la situazione internazionale cambia», dice Ali.
«È vero, il sostegno a Rouhani è solido», conferma un diplomatico che è stato in servizio diversi anni a Roma. «I conservatori hanno criticato l’accordo di Ginevra, accusato Rouhani di cedere i di- ritti nucleari dell’Iran, ma i loro attacchi sono caduti nel vuoto. La difesa di Zarif, quando è stato convocato a spiegare l’accordo al parlamento, è stata così convincente che i conservatori hanno desistito perfino dal chiedere un voto, tanto erano in pochi. Perché tra gli stessi conservatori sta nascendo una nuova corrente, dal sindaco di Teheran Qalifaf al presidente del parlamento Larijani, intenzionati ad aprire un nuovo spazio nel cielo politico iraniano e prendere le distanze dalla retorica aggressiva del tempo di Ahmadinejad».
Dice invece il direttore del giornale Etemad che «Rouhani non è un teorico, ma ha il gusto dell’ironia, che alla gente piace. Mette in ridicolo le posizioni dei conservatori». «La felicità è un diritto del popolo», commentò il presidente quando la polizia arrestò sei giovani che in un video ballavano Happy. «E agli ayatollah di Qom ha detto che non è compito del governo trovare alla gente un posto in paradiso. È un pragmatico che si attiene al suo motto: moderazione e prudenza. Ha anche imparato qualcosa da Ahmadinejad, su come gestire le prerogative della presidenza». Quando i censori di Internet hanno bloccato Whatsapp ha semplicemente messo il veto. E quando i basiji hanno impedito di parlare a Hassan Khomeini, il nipote dell’Imam che doveva tenere una conferenza a Boroujerd, ha rimosso su due piedi il governatore di Borojouerd che non aveva preso provvedimenti contro i violenti. «Insomma, la gente capisce che dietro le quinte accadono più cose di quanto non appaia».
A Vienna, Zarif, prima dell’ultimo dei tre lunghi colloqui con il Segretario di Stato Kerry, ha delineato la proposta iraniana: Teheran è pronta a congelare per anni la produzione di combustibile, a dare accesso illimitato agli ispettori internazionali, a cambiare la costruzione di un reattore ad Arak e convertire il combustibile per renderlo non utilizzabile per scopi militari, ma vuole mantenere le centrifughe che possiede. Per il Congresso americano le centrifughe devono essere ridotte a zero, e nemmeno in futuro l’Iran potrà procurarsi quelle di nuova generazione. Si parla della possibilità di un prolungamento del negoziato oltre il 20 luglio. Nell’accordo interinale di Ginevra questa possibilità era stata prevista, ma per gli iraniani un’altra attesa sarebbe devastante, e sicuramente darebbe più voce a tutti quelli che si oppongono all’accordo. Nemmeno per la Casa Bianca un prolungamento è una buona opzione perché darebbe nuove opportunità al Congresso di alzare ancora il tiro e alla fine di far fallire il negoziato. Qualche giorno fa sembrava che la drammatica situazione in Iraq e in Siria e l’espansione dell’Isis avessero provocato in Occidente una riflessione seria sulla necessità di cooperare con l’Iran. Teheran e Washington hanno un interesse comune a impedire una guerra settaria, il collasso degli Stati nel Medio Oriente, e ad evitare che i terroristi mettano le mani sul petrolio. Ma per gli Usa come per l’Iran è difficile concepire un’alleanza col paese che è stato finora, rispettivamente, il “Grande Satana” e l’”Asse del Male”. I costi della sfiducia reciproca continuano a pesare, molto.

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