Hamas l'innocente: come editoriali e titoli dei quotidiani assolvono chi vuole la guerra critiche a Renzo Guolo, Fulvio Scaglione e alla redazione del quotidiano comunista
Testata:La Repubblica - Avvenire - Il Manifesto Autore: Renzo Guolo - Fulvio Scaglione - la redazione Titolo: «La posta in gioco per Hamas - Grandi attese, fragili e dure domande - La tregua è un miraggio. Tel Aviv: la guerra continua»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 16/07/2014, l'editoriale di Renzo Guolo dal titolo "La posta in gioco per Hamas" e da AVVENIRE a pag. 3 l'editoriale di Fulvio Scaglione dal titolo "Grandi attese, fragili e dure domande".
Su REPUBBLICA Renzo Guolo sostiene che Hamas avrebbe cercato di evitare lo scontro con Israele, per poi decidere di trarre il massimo vantaggio dauna guerra impostale da Netanyahu. Una tesi che contrasta con i fatti: non solo il rapimento di Eyal, Gilad e Naftali (che Guolo attribuisce, senza prove, a frange 'estremiste' del gruppo islamista ), ma anche i precedenti tentativi di sequestri di civili israeliani fermati dalle forze di sicurezza israeliane, l'invito costante a compiere questo tipo di crimine, i lanci di razzi contro Israele da Gaza, che hanno preceduto gli arresti compiuti durante le ricerche dei tre ragazzi. Fulvio Scaglione su AVVENIRE incentra il suo editoriale su un' impossibile equivalenza tra "falchi" di Hamas e di Israele. Per farlo deve nascondere dietro una cortina fumogena di ambiguità e contorsioni linguistiche i fatti: Israele fin dall'inizio è stato aggredito, ha ritardato al propria autodifesa e infine ha accettato una tregua che Hamas ha rifiutato. Scrive allora di una tregua"promossa unilateralmente dal governo dello Stato ebraico e rifiutata dai palestinesi, quindi fragilissima" , fallita la quale "gli scontri sono ripartiti con la stessa intensità di prima: pioggia di bombe su Gaza, pioggia di razzi sulle città israeliane". In realtà, Hamas non ha mai cessato di bombardare obbiettivi civili in Israele. Scaglione accusa poi falsamente Israele di aver cercato la "vendetta" per l'omicidio di Eyal, Gilad e Naftali, e di aver poi abbandonato questo pretesto. Nulla di più falso: le indagini sulla strage proseguono, mentre le operazioni militari a Gaza servono a fermare gli attacchi di Hamas, non a effettuare una vendetta.
La falsificazione dei fatti circa il rifiuto della tregua da parte di Hamas è oggi palese sul MANIFESTO, che in prima pagina titola "La tregua è un miraggio. Tel Aviv: la guerra continua". Il richiamo in prima pagina di REPUBBLICA recita "Fallisce la tregua, i razzi di Hamas colpiscono Israele, prima vittima", senza specificare chi abbia fatto fallire la tegua. In altra pagina di IC, Marco Reis, direttore del sito MALAINFORMAZIONE.IT, analizza una pagina di CORRIERE.IT nella quale le responsabilità di Hamas sono nascoste con la stessa tecnica. La "tregua", in questo caso, "non regge". http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=302&sez=120&id=54269
Di seguito, gli articoli:
Il titolo in prima pagina sul Manifesto del 1670772014
LA REPUBBLICA - Renzo Guolo: "La posta in gioco per Hamas "
Renzo Guolo
Hamas dice “no” e lanci e bombardamenti riprendono. La risposta di Ezzedin al Qassam, è stata l’ala militare del movimento islamista palestinese a rifiutare la proposta egiziana di cessate il fuoco, non sorprende. Nonostante il duro prezzo che la popolazione di Gaza sta pagando. Al di là delle condizioni poste per accettare il cessate il fuoco, — dalla fine dei raid israeliani a quella del blocco di Gaza, dall’apertura del valico di Rafah alla liberazione dei prigionieri rilasciati dopo lo scambio con il soldato Shalit, nuovamente arrestati in queste settimane, richieste che Israele non avrebbe interamente accettato —, la realtà è che il gruppo fondato dallo sceicco Yassin ritiene di trasformare in opportunità il conflitto in corso.
Inizialmente Hamas non ha voluto lo scontro, lo ha subito. Il drammatico assassinio dei tre ragazzi israeliani che ha innescato la tensione non è stato il frutto di una scelta dell’or- ganizzazione. Il triplice, brutale, omicidio del 12 giugno è stato opera di simpatizzanti jihadisti di un clan tribale della zona di Hebron, decisi a perseguire i propri obiettivi politici. Ma una volta che la violenza si è imposta sul campo, con la destra estrema presente nel governo Netanyahu decisa a regolare i conti una volta per tutte con la “banda di Gaza”, Hamas non si è tirata indietro. Non poteva farlo. Per principio e ideologia. E perché ha visto nel conflitto, inevitabilmente impari sul piano militare nonostante i sofisticati razzi lanciati nei cieli israeliani, la possibilità di trasformarlo in vittoria politica. Nel momento in cui Hamas dice che può “resistere mesi” scommette, ancora una volta, su un simile esito.
Solo qualche mese fa Hamas era all’angolo. Sempre più isolato dopo la caduta di Morsi e la rottura con la Siria di Assad e i suoi protettori iraniani, è stato costretto a un accordo con l’Anp. Chiusi i tunnel che partivano dall’Egitto e alimentavano Gaza, di viveri, medicinali, armi; senza stipendi gli oltre sessantamila dipendenti pubblici della Striscia; una popolazione stremata da una crisi tanto più pesante se paragonata al relativo benessere economico vissuto in questi anni dai palestinesi della Cisgiordania che hanno accettato il compromesso con Israele. Scenario che imponeva un’intesa con Abu Mazen. Nella speranza per il movimento, una volta entrato a far parte del governo di unità nazionale, di vincere le elezioni che si dovrebbero tenere entro fine anno. Ostile alla ritrovata intesa, l’ala militare aveva dato il via libera all’accordo solo a condizione di poter rispondere a eventuali attacchi di Israele.
I fatti di Hebron hanno travolto quest’agenda. E riconsegnato centralità a Ezzedin al Qassam.
Così, una volta esplosa la crisi, Hamas ha ritenuto che un conflitto, anche con forti perdite in vite umane e dotazioni militari, potesse essere sopportato. Perché ne sarebbero venuti in seguito maggiori benefici. Per questo, dopo aver tenuto un profilo relativamente basso durante il duro intervento degli israeliani, a caccia degli assassini dei ragazzi, nell’area di Hebron ha colto l’occasione per passare all’offensiva. L’attacco di droni israeliani alla Striscia il 7 luglio è stato considerato un atto di aggressione che rompeva il cessate il fuoco del 2012. E l’ala militare prendeva la sua rivincita su quella politica.
Impugnando le armi, Hamas si è riproposto come alfiere della “resistenza all’occupazione”. Anche davanti alla popolazione della Cisgiordania. Mossa che, secondo i duri e puri del movimento, dovrebbe mettere in crisi l’Anp e la sua ambigua politica, consegnando a Hamas una nuova egemonia e la futura vittoria elettorale. Del resto, la costante azione di delegittimazione da parte israeliana di Abu Mazen, al quale non vengono fatte concessioni, rende non impossibile un simile esito.
Hamas conta sul fatto che una eventuale operazione di terra israeliana duri poche settimane. Troppo costoso sul piano delle perdite umane e poco rilevante strategicamente, dopo l’abbandono di Gaza da parte di Sharon, tornarvi per restarvi più a lungo. Una volta usciti i tank con la stella di David, Hamas potrà dire di aver vinto. Preparandosi a riscuotere la cambiale elettorale. Finirà così? Molto dipenderà dalle scelte di Netanyahu.
La tregua tra Israele e Hamas, promossa unilateralmente dal governo dello Stato ebraico e rifiutata dai palestinesi, quindi fragilissima, è durata meno di sei ore. Poi gli scontri sono ripartiti con la stessa intensità di prima: pioggia di bombe su Gaza, pioggia di razzi sulle città israeliane. Hanno quindi buon gioco, in apparenza, i falchi degli opposti schieramenti, che infatti ora chiedono di aumentare la posta, di invadere, di colpire ancor più duramente. Non è difficile capire, però, che le grida dei falchi sono un segnale di disperazione. Una settimana di incursioni israeliane sulla Striscia hanno provocato circa 200 morti (dei quali due terzi civili) e 1.500 feriti senza nemmeno rallentare l'attività degli artiglieri di Hamas, che anche ieri hanno lanciato un'ottantina di razzi, facendo la prima vittima israeliana. È una storia che si ripete implacabile da almeno quindici anni e che, anche politicamente, ha coperto i contendenti di cicatrici profonde: Hamas è sempre più solo, anzi, è accerchiato (Gaza è chiusa tra Israele e l'Egitto del nuovo regime militare) e persino il suo storico sostenitore, l'Iran, si defila ogni giorno di più. Israele, dopo tante campagne militari, non è certo più sicuro di prima. Al contrario, progetta sempre nuovi muri: con la Cisgioniania, il Sinai, Gaza e presto anche con la Siria. Muri che chiudono fuori gli "altri" ma intanto chiudono dentro gli israeliani. Rispetto a questo niente affogato nel sangue, anche una tregua unilaterale e precaria poteva essere un'occasione. Buttata, come tutte quelle che si sono presentate dall'inizio di questa crisi. D'altra parte, chi ancora ricorda Naftali, Gilad, Eyal e Muhammad, i tre studenti israeliani e il ragazzo palestinese uccisi proprio per innescare quest'altra guerra? Chi parla più delle indagini o dei due palestinesi di Hebron subito indicati come i rapitori? Importa ancora a qualcuno che sia fatta giustizia? È evidente che gli assassini dei ragazzi israeliani volevano arrivare proprio a ciò cui stiamo assistendo: a un'ennesima strage che sradicasse i semi di speranza che la visita di papa Francesco in Terra Santa prima, l'incontro di Abu Mazen e Shimon Peres in Vaticano poi avevano generato. Altrettanto evidente è che tutto bisognava fare per sottrarsi a tale provocazione. Ma mai come in questa circostanza la politica si è mostrata impari al compito, priva di visione, concentrata sulla tattica spicciola, attenta solo a soddisfare le pulsioni più immediate e meno lungimiranti di società in cui le esperienze del passato hanno inevitabilmente creato un riflesso automatico di rancore e vendetta. Come disse papa Francesco nel giorno in cui Abu Mazen e Shimon Peres pregarono in Vaticano con lui e con il patriarca ecumenico Bartolomeo II: «Per fare la pace ci vuol coraggio, molto di più che per fare la guerra». Al Medio Oriente, in particolare a questo Medio Oriente le cui crisi (dalla Siria all'Iraq, dalla Palestina alla Libia) sono state tutte implacabilmente aggravate dall'illusione di poterle risolvere con le armi, serve proprio un tal genere di coraggio. Quello, come disse quel giorno il Papa, di «accettare sacrifici e compromessi», di stupire, di alzare lo sguardo dalla piccola convenienza del presente per puntarlo su un futuro ancora da costruire. Per uscire, soprattutto, da questo rincorrersi crudele di uccisioni che produce solo immobilismo e sofferenze per tutti. Come ancora Papa Francesco ha ricordato nell'Angelus di domenica scorsa, la pace non è una cosa che arriva in dono, ma una benedizione che dobbiamo costruire, giorno per giorno, con le nostre mani, con atti concreti e ripetuti. E l'atteggiamento opposto a quello di coloro che si rassegnano al male e alla violenza, e magari si impegnano pure a descriverli come inevitabili. C'è in questo un impegno per ogni singolo uomo di buona volontà ma insieme un richiamo alla responsabilità degli uomini di potere e dei politici. «Esorto le parti interessate e tutti quanti hanno responsabilità politiche a livello locale e internazionale - ha detto il Papa da piazza San Pietro - a non risparmiare la preghiera e alcuno sforzo per far cessare ogni ostilità e conseguire la pace». Quanti dei protagonisti possono o dire di non essersi risparmiati rispetto all'obiettivo naturale di costruire la pace?
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