A Yad Vashem, nel sacrario della memoria di Sergio Luzzatto
Testata: Il Sole 24 Ore Data: 13 luglio 2014 Pagina: 20 Autore: Sergio Luzzatto Titolo: «Così si custodisce la memoria»
Riprendiamo dal SOLE 24 ORE di oggi, 13/07/2014, a pag. 20 del supplemento culturale DOMENICA, l'articolo di Sergio Luzzatto dal titolo "Così si custodisce la memoria".
Sergio Luzzatto
L' Archivio di Yad Vashem
A vederlo sulla mappa, prima di salire in macchina, sembrava tutto facile. Bastava uscire di casa, vicino alla Porta di Damasco, e seguire il percorso del tram - il nuovo, controverso treno leggero che collega Gerusalemme Ovest con gli insediamenti ebraici di Gerusalemme Est - fino alle pendici del monte Herzl. Una volta lì, poche centinaia di metri ci avrebbero separato dalla collina dello Yad Vashem. I tre ragazzi delle scuole rabbiniche, nei Territori, erano stati rapiti da qualche giorno. La sera prima, in città vecchia, avevamo incrociato una fiumana di gente che scendeva a pregare per loro al Muro del Pianto. Ma ancora i tre corpi non erano stati ritrovati, né ancora la vendetta era stata consumata sul ragazzo palestinese. Ancora le rotaie del treno leggero, un paio di chilometri più a nord, non erano state divelte. Ancora i missili non erano stati lanciati da Gaza, ancora le sirene non avevano risuonato in città, ancora l'aviazione non aveva colpito nella Striscia. Ancora due forestieri come noi potevano fare rotta verso lo Yad Vashem con un senso di fiducia, se non proprio di leggerezza. Vicino alla Porta di Giaffa, le correnti del traffico mattutino ci hanno allontanato dal percorso del tram e abbiamo finito col perderci tra una collina e l'altra della città moderna. Come dall'inizio del nostro soggiorno israeliano, il Gps restava nel cassetto dell'auto a noleggio, un po' per pigrizia, un po' per presunzione, un po' perché Sara diceva che a farlo funzionare le sarebbe venuto il mal di macchina. Risultato: un giro turistico non voluto, più fastidio che incanto davanti al ponte del treno leggero disegnato da Calatrava (il solito ponte del solito Calatrava), arrivo a destinazione con mezz'ora di ritardo. Pazienza. Non foss'altro perché Nitza stessa è paziente, non sarà un ritardo di mezz'ora a rovinarle la giornata. È venuta da Londra anche per questo. Perché oggi, allo Yad Vashem, dobbiamo occuparci di suo padre. Moshe Zeiri era nato nel 1914: compirebbe un secolo quest'anno, sarebbe vecchio come la Grande Guerra. Giunto in Palestina ventenne dallo shtetl in Galizia, carpentiere per formazione, teatrante per vocazione, dieci anni dopo si era trovato soldato del Genio al seguito dell'esercito britannico: dapprima al Cairo, nel 1943, poi a Bengasi, poi ancora nella Napoli del'44 e nella Milano del '45. Un soldato qualunque, Moshe, tra le migliaia di volontari ebrei che erano riusciti infine ad arruolarsi in una recalcitrante British Army. Per fare almeno qualcosa, laggiù in Europa. Per tentare di salvare il salvabile. Scritte con cadenza regolare dal 1943 al'46, lungo l'intera durata del suo servizio nella 745a Compagnia «Palestinese» dei Royal Engineers, le centinaia di lettere inviate da Moshe alla moglie Yehudit - rimasta in kibbutz vicino a Tel Aviv, con la piccola Nitza - sono un documento storico straordinario. Raccontano giorno per giorno, in presa diretta, un'avventura di liberazione che diventa, cammin facendo, l'incubo di un'agnizione. La scoperta che è ormai tardi, maledettamente tardì. Che da salvare non resta quasi più nulla. Ma anche il sollievo di un'agnizione ulteriore. La scoperta che qualcuno degli ebrei d'Europa è sopravvissuto, e che questo qualcuno non è soltanto un ebreo salvato, è anche (biblicamente) un ebreo che salva. Sheris ha' pleyte: redento, il sopravvissuto è un redentore. Allo Yad Vashem, mentre Sara e Martin visitano il museo, Nitza e io siamo attesi negli uffici dell'International Institute for Holocaust Research. Abbiamo appuntamento con la direttrice, Yael Nidam Orvieto. Le cui origini italiane non traspaiono unicamente dal cognome, sprizzano da una gestualità tanto accogliente quanto contagiosa è la sua energia. Quando le avevo telefonato da Torino, prima di partire per Israele, i convenevoli erano durati pochi secondi: appena il tempo di presentarmi, appena due parole sulla storia di Moshe e le meravigliose sue lettere a Yehudit, e già Yael ci invitava allo Yad Vashem, «vieni con questa Nitza, dobbiamo assolutamente farne qualcosa!». Adesso Yael ci sta accompagnando giù, al piano di sotto rispetto all'ingresso dell'Archivio. Mi ha suggerito di andare a prendere anche Sara e Martin, ha voluto che ci fossimo tutti. Perché ci aspetta un'esperienza iniziatica, ma iniziatica alla maniera di Yael: è un'iniziazione open access. Scendiamo una prima rampa di scale, poi una seconda Ci troviamo davanti a una porta blindata, come nel caveau di una banca C'è un guardiano, cui Yael porge la sua tessera di identificazione. Inserita la tessera in un lettore ottico, il guardiano si fa da parte e noi seguiamo Yael dentro una stanza senza finestre che serve da vestibolo alla Zona di Conservazione. Se il popolo sterminato attraverso la Soluzione finale è per eccellenza il popolo del Libro, e se lo Yad Vashem è per intero un sacrario elevato alla memoria dello sterminio, noi ci troviamo ora - quantunque a distanza dagli epicentri simbolici del complesso monumentale: la Sala dei Nomi, il Memoriale dei Bambini, il GiardinodeiGiust i- nel cuore materiale del sacrario. Qui si conservano infatti (entro microclimi diversi, spiega Yael, secondo i tipi di carta su cui sono vergati o stampati) milioni di documenti relativi alla Soluzione finale. Milioni di fotografie, lettere, diari, reperti, testimonianze, che insieme compongono il Libro della Shoah. Yael si avvicina a uno scaffale, ne estrae una scatola nera, la poggia sopra un tavolo, la apre davanti a noi. Intravediamo una piccola pila di carte ingiallite, ogni carta in una busta che pare di plastica trasparente. «Questo- dice a Nitza - è un documento dell'Archivio come un altro. Noi li conserviamo tutti così. Ciascuno ha la sua scatola fabbricata su misura, e ogni foglio di ogni documento è conservato in una busta fatta di un materiale speciale, perché sia meglio protetto». Si ferma un attimo, prima di proseguire con fermezza: «Anche le lettere di tuo padre devono arrivare qui. Perché questo è il loro posto. Perché qui potranno conservarsi, per sempre». «E le lettere di risposta che mia madre gli spediva dalla Palestina ?» domanda Nitza. «Anche quelle, certo» risponde Yael. «In Israele, lo sai, non facciamo differenza tra uomini e donne !» aggiunge scherzosa. Usciamo dalla stanza blindata, risaliamo le scale. Yael ci sta guidando verso il Reparto di Digitalizzazione. Dove ci prega di parlare a bassa voce per non disturbare i giovani funzionari, una dozzina, che lavorano agli scanner. «Foglio per foglio, gli originali delle lettere di Moshe e di Yehudit passeranno per una di queste macchine. Scanner sofisticati, di ultimissima generazione. E una volta transitate su supporto digitale, le lettere di tuo padre e di tua madre verranno riposte in una scatola nera come le altre. Tutti gli studiosi, qui allo Yad Vashem, potranno leggerle a video. Avanti e indietro, in lungo e in largo, come e quanto vorranno. Ma quasi nessuno potrà accedere agli originali, salvo i familiari. Soltanto tu potrai, Nitza. E i tuoi figli, e i figli dei tuoi figli...». Vergate su carta sottilissima - sia per ovviare alla penuria endemica della guerra, sia per rispettare le regole ferree della Royal Air Mail - le lettere inoltrate dal soldato Zeiri verso il kibbutz della Palestina britannica sono un documento estremamente fragile. Se Nitza e i suoi fratelli decideranno di consegnarle allo Yad Vashem, avranno bisogno di essere restaurate prima di finire al sicuro dentro la loro scatola nera. E perciò Yael ci sta accompagnando, adesso, verso il Laboratorio di Restauro. Per mostrarci come le lettere di Moshe verranno trattate dopo il loro ingresso in questo tempio della memoria. I restauratori sono cinque o sei tecnici in camice bianco coordinati da una direttrice, Varda Gross, che ci accoglie con un inglese perfetto. «Siete fortunati, oggi» dice sorridendo: «Abbiamo qui un pezzo che l'Archivio dello Yad Vashem ha raccolto di recente, e su cui abbiamo lavorato come matti». C'è un' altra scatola nera, anche questa confezionata su misura intorno ad alcuni fogli abbastanza grandi nel formato, ciascuno nella sua busta trasparente. È quanto resta di un diario tenuto nel ghetto di Varsavia in qualche momento fra il 1941 e il '43. La signora in camice biancoci mostra le foto del manoscritto quale il Laboratorio di Restauro lo ha inizialmente ricevuto. Un piccolo ammasso sporco e informe. Come il martoriato Konvolut di un papiro ellenistico, o come una palla di stracci abbandonata su una spiaggia brasiliana. «Nel ghetto, il manoscritto era stato sia allagato sia incendiato». Settant'anni dopo, allo Yad Vashem, sono stati capaci di separarne i fogli e di restaurarli fino a renderli leggibili. «Ma se non ci avessero assistito i colleghi del Santuario del Libro (la sezione dell'Israel Museum dove si conservano i famosi manoscritti del Mar Morto), dubito che ce l'avremmo fatta». Leggibili, i fogli del diario scampato alla rovina del ghetto? «In realtà, per quanto strano possa sembrare, non capiamo in quale lingua sia scritto». Soprattutto in polacco, a quelche sembra. E in yiddish, trascritto però in caratteri latini. Con estemporanei inserti in tedesco e in russo. «Che frustrazione - ammette la direttrice del Laboratorio - essere arrivati a questo punto e ancora non capirci niente!». Ma non si dà per vinta. Nel congedarci, Varda Gross ha un tono baldanzoso: «Prima o poi ce la faremo. Prima poi qualcuno troverà la chiave». Così, come una straccionata stele di Rosetta, il diario di Varsavia attende il suo Champollion. Per esprimere la propria opinione al Sole 24 Ore, telefonare al numero 02/30221 o cliccare sulla e-mail sottostante letterealsole@ilsole24ore.com