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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
12.07.2014 Quelli per cui il terrorismo di Hamas non è così grave
Paola Caridi, Roberto Toscano, Sergio Romano

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Paola Caridi - Roberto Toscano - Sergio Romano
Titolo: «Hamas è il movimento popolare che si è trasformato in regime - Le due mosse incomprensibili - L'ultima crisi palestinese e i falchi alleati contro la pace»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 12/07/2014, a pag. 7, l'articolo di Paola Caridi  a dal titolo "Hamas è il movimento popolare che si è trasformato in regime ", e a pagg. 1-25 l'articolo di Roberto Toscano dal titolo " Le due mosse incomprensibili ", dal CORRIERE della SERA, a pag. 41, la risposta di Sergio Romano a un lettore, dal titolo " L'ultima crisi palestinese e i falchi alleati contro la pace "

Sulla STAMPA Paola Caridi indaga le ragioni del successo elettorale di Hamas tra i palestinesi, mettendo tra parentesi la natura terroristica e il programma genocida del movimento islamico. Il successo di Hamas non è indipendente da queste catateristiche: nel quadro del costante incitamento all'odio che caratterizza la società di Gaza e dei territori controllati dall'Anp, si può essere certi che quasi tutti coloro che hanno votato Hamas lo hanno fatto perché aderiscono al suo programma di scontro permanente con Israele. Roberto Toscano nella sua analisi propone un'inaccettabile equivalenza tra Hamas e il governo Netanyahu, che sarebbero entrambi responsabili della scelta "incomprensibile" dello scontro, suggerisce l'ipotesi assolutoria che Hamas sia stata motivata dalle pressioni di altri gruppi islamisti  come l'Isis, e formula l'immancabile condanna di Israele per la reazione "sproporzionata" ( senza specificare quale reazione riterrebbe "proporzionata") e  per gli insediamenti, come sempre equiparato all'aggressione terroristica come ostacolo alla pace.
Sul CORRIERE della SERA Sergio Romano giustifica il terrorismo come "resistenza" a ciò che i palestinesi sentono come "ingiustizia" e sostiene che l'attuale crisi sarebbe gradita agli estremisti di entrambe le parti. In Israele però, a dispetto di quanto afferma Romano, non esiste un equivalente di Hamas. Non esiste un partito di massa, terrorista , con un programma genocida.



Hamas educa i bambini al terrorismo

Di seguito, gli articoli:

LA STAMPA
- Paola Caridi: "Hamas è il movimento popolare che si è trasformato in regime "



Paola Caridi


«Più i leader sono vicini a noi, più sono parte di noi». La realtà, a guardarla da Gaza, è ben diversa da come la si guarda oltre il confine. Da Ashkelon così come dall’Europa. I militanti di Hamas - e non solo loro - l’hanno spesso raccontata così, la realtà nella Striscia. Hamas ha, cioè, fatto sempre parte integrante del tessuto sociale palestinese. Soprattutto a Gaza. Una lingua di terra su cui la prima guerra arabo-israeliana del 1948 riversarono, di punto in bianco, duecentomila persone. Venivano da quelle città che ora si trovano oltre il confine, in Israele. Profughi. E quei rifugiati cambiarono la vita di Gaza.
È nei campi profughi della Striscia, ma anche nei settori borghesi e commerciali delle cittadine della Cisgiordania, che il pensiero islamista prende corpo e si trasforma in una organizzazione socio-religiosa. Non c’è ancora una vera e propria organizzazione politica. Hamas nasce dopo, come risposta alle sconfitte di Fatah, il movimento guidato da Yasser Arafat, tra la guerra civile libanese e la cacciata da Beirut. Nasce dalla rivolta che, sotto la paglia, cresce nei Territori occupati. In Cisgiordania. A Gerusalemme Est. E a Gaza, dove la prima Intifada scoppia nel dicembre del 1987 e nasce Hamas. Braccio politico e braccio armato, che dal 1994 sceglie di usare il terrorismo.
È il tragico periodo degli attacchi. Degli attentati suicidi sugli autobus e nei caffè delle città israeliane. Hamas prova così a troncare il processo di Oslo, la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese, il compromesso con Israele.
Raccontata così, in brevi cenni, la storia di Hamas è solo una storia di violenza, lotta armata, terrorismo. Una battaglia che, però, non spiega perché Hamas sia riuscita a raccogliere, in oltre un quarto di secolo di esistenza, il consenso di una fetta consistente della società palestinese. Nel 2005 e nel 2006, Hamas vince e stravince tutte le elezioni municipali e politiche, sospendendo da allora con una decisione unilaterale gli attentati suicidi.
Perché i palestinesi votano, in maggioranza, Hamas? Solo per protesta contro la corruzione crescente dentro l’Anp? Troppo semplice. Gli elettori scelgono anche la proposta politica lanciata da un movimento che, nelle pieghe dell’occupazione israeliana dei Territori palestinesi e del fallimento del processo di pace, ha continuato a lavorare. Soprattutto a Gaza. I quadri di Hamas vivevano nei campi profughi, frequentavano le moschee che frequentava la gente, conoscevano le condizioni di vita di tutti, si occupavano di servizi sociali e di ospedali. Erano, come molti leader e militanti usano dire, al «servizio del popolo».
Che ancora sia così, soprattutto a Gaza, è tutto da dimostrare. Hamas si è trasformato da movimento a regime. I leader sono divenuti i controllori, e molti abitanti - nella Striscia - hanno trasformato lo slogan tradizionale di Hamas. Prima, dicono, erano «al servizio del popolo». Ora sono più «al servizio dei loro»: dei militanti, dei settori legati al movimento e all’amministrazione, dei clientes. Questo, però, non vuol dire che Hamas non rappresenti ancora fette consistenti della popolazione della Striscia, e che non viva tra i palestinesi. Sarebbe impossibile, per una questione semplice: Gaza è una delle aree più densamente popolate del mondo. In quella lingua di terra lunga quaranta chilometri e larga, al massimo, dieci, vivono circa un milione e settecentomila persone. Una casa sopra l’altra, un edificio appresso all’altro, un campo profughi attaccato a una cittadina, un quartiere addossato all’altro. L’unico spazio largo, a Gaza, è il mare che fornisce un orizzonte solo virtualmente libero. Perché le navi della marina militare israeliana sono ben visibili, sulla linea che congiunge mare e cielo.
Il futuro, anche per i ragazzi, è tutto lì, lì si nasce e lì si muore, tra una guerra e l’altra. Hamas è un regime, ma è ancora un movimento di resistenza islamica, e i giovani entrano dentro i bracci armati delle fazioni. Hamas è sopravvissuto a una guerra tremenda come Piombo Fuso, ed è rimasto saldamente nel gioco politico palestinese. La domanda da porsi è, proprio per questo, quanto conviene questa guerra a Hamas, visto che da meno di tre mesi è dentro un governo di unità nazionale con Fatah? Per la prima volta le cancellerie europee e gli Stati Uniti non hanno isolato i palestinesi per aver costituito un esecutivo tutti assieme. Hamas era quasi riuscita a essere sdoganata, e a convertire la sua debolezza in un capitolo nuovo della sua storia.

LA STAMPA - Roberto Toscano: " Le due mosse incomprensibili "


Roberto Toscano

Ancora una volta, come avvenuto periodicamente in passato, Gaza è bersaglio di bombardamenti israeliani.
Sarà anche vero che, come sostengono gli israeliani, gli obiettivi sono i dirigenti politico-militari di Hamas, i depositi di armi e i luoghi da cui vengono lanciati i missili verso Israele, ma la realtà – che si riflette nello stillicidio di vittime civili – è che in una zona fra le più densamente popolate del mondo è del tutto illusorio immaginare che si possano effettuare attacchi, come si dice con un’espressione sinistra, chirurgici.
E le cose potrebbero ancora peggiorare se i reparti militari e i mezzi corazzati che Israele ha ammassato alla frontiera di Gaza dovessero dare il via ad un attacco via terra.
Sembra necessario chiedersi il perché di questa crisi, che si viene ad aggiungere ad un quadro già pesantemente destabilizzato a livello regionale.
Anche se quegli atroci episodi hanno scavato ulteriormente il fossato di ostilità fra israeliani e palestinesi, l’origine della crisi non va ricercata nell’orrore dell’assassinio dei tre adolescenti israeliani seguito da quello dell’uccisione del ragazzo palestinese. Paradossalmente la barbarie di questi crimini incrociati ha fatto riflettere un po’ tutti, mentre il comportamento delle famiglie delle vittime ha spostato il discorso dalla dimensione politica a quella personale ed umana.
Ma allora? Cos’è cambiato rispetto ai mesi scorsi? E soprattutto: cos’hanno in mente non gli israeliani e i palestinesi – collettività umane e politiche tutt’altro che omogenee – ma gli attori politici: da una parte Netanyahu e dall’altra la dirigenza di Hamas?
Che senso ha per Hamas lanciare su Israele non solo razzi rudimentali, come spesso accadeva in passato, ma missili di media gittata capaci di colpire quasi l’intero territorio di Israele? L’impiego di mezzi militari ha un senso se può puntare alla sconfitta del nemico, ma è da escludere che i dirigenti di Hamas credano di poter sconfiggere le potenti forze armate israeliane. Vi è anche un altro uso della violenza militare, quello tendente non a sconfiggere l’avversario, ma a piegarne la volontà. Una logica di tipo terrorista, che – va detto - può essere messa in atto anche dagli Stati (pensiamo ai bombardamenti sui civili da Guernica a Londra, da Dresda a Hiroshima). Ma anche qui resta un interrogativo di fondo: davvero qualcuno può pensare, dopo tutti questi anni di guerre e di attacchi, che gli israeliani si lascino intimidire da quei missili tirati a casaccio?
E che senso può avere la rottura da parte di Hamas di una linea di relativa moderazione – una rottura che mette una prematura pietra tombale sul suo recente patto con Abu Mazen?
Difficile quindi capire il perché del comportamento di Hamas, a meno di non voler prendere in considerazione un’ipotesi apparentemente azzardata, ma che non ci sentiremmo di escludere. Può darsi che al suo interno cominci a farsi sentire l’effetto di quanto sta accadendo tra Siria e Iraq, con la proclamazione dello Stato Islamico e del Califfato. Certamente c’è una componente retorica, addirittura teatrale in questa riesumazione delle antiche glorie dell’Islam. Ma i simboli a volte hanno la capacità di produrre effetti reali, scatenando potenti ondate di mobilitazione politica. E non dobbiamo nemmeno dimenticare che Hamas è, a differenza di Hezbollah, un movimento sunnita, e come tale potrebbe, almeno in certe sue componenti, risultare sensibile agli appelli di Abu Bakr al Baghdadi, l’improbabile Califfo, e soprattutto alle prospettive che si aprono con l’offensiva dei jihadisti in Iraq, un’offensiva giunta ormai molto vicina, al confine della Giordania.
Se risulta problematico interpretare il comportamento di Hamas, non molto più facile è comprendere quello del governo israeliano, e in particolare del primo ministro Netanyahu. Il punto non è la risposta al lancio di missili, una legittima difesa cui possiamo soltanto obiettare per il modo in cui viene effettuata e le pesanti perdite civili: viene in mente il concetto di «eccesso di legittima difesa» che esiste nel diritto penale.
Rimane la questione del senso, del disegno politico in cui dovrebbe inserirsi qualsiasi impiego della forza militare. Nessuno pensa che sia fattibile una permanente occupazione israeliana di Gaza, che – isolata, priva di orizzonte economico per la sua popolazione – resterà invece un focolaio di rabbia ed estremismo politico. Un estremismo che – ancora poco tempo fa minoritario rispetto alla linea dell’Autorità Palestinese – è cresciuto e si è radicato non per ragioni ideologiche, e ancor meno religiose, ma per la totale mancanza di prospettive di una soluzione negoziale. Basti citare l’aspetto più macroscopico, e in assoluto meno giustificabile, della politica del governo israeliano: i settlements, quegli insediamenti di coloni che rendono sempre più irrealizzabile l’ipotesi di uno Stato palestinese.
Possiamo prevedere che i lanci di missili prima o poi finiranno, e che si tornerà a quello che si fa molta fatica a definire come normalità. Paradossalmente l’ipotesi che anche questa crisi non farà che confermare il tragico status quo risulta la più ottimista. Le cose potrebbero andare anche peggio. Qualcuno ha scritto in questi giorni che il fatto che i missili di più lunga gittata siano di fabbricazione, e di origine, iraniana potrebbe rafforzare i fautori di un attacco israeliano all’Iran. Prima di dire che si tratta di fantapolitica dovremmo tenere presente che ormai in tutto il Medio Oriente (e anche oltre, dalla Nigeria all’Afghanistan) il sistema internazionale sembra in fase di avanzata e traumatica decomposizione, senza che emerga la volontà e la capacità dei principali soggetti internazionali – gli Stati Uniti, ma non solo loro – di porre rimedio a questo sempre più pericoloso e sempre meno governabile processo.
Verrebbe da ripetere, a proposito della comunità internazionale, la risposta che diede Gandhi quando gli chiesero cosa pensasse della civiltà occidentale: «Sarebbe un’ottima idea».

CORRIERE della SERA - Sergio Romano: " L'ultima crisi palestinese e i falchi alleati contro la pace "


Sergio Romano



L’annosa, drammatica situazione israelo-palestinese sembra non poter trovare soluzioni nonostante gli interventi del Papa, del presidente Usa e di altre importanti autorità.
Mi domando: come può un Paese apparentemente così povero e privo di mezzi come è quello palestinese investire tanti soldi in armamenti?
E chi fornisce tali armamenti? Attraverso
quali canali? Forse, se si riuscisse a tagliare gli approvvigionamenti economici e di armamenti
di Hamas la situazione potrebbe facilmente risolversi.
Erminio Giavini
giavini@alice.it


Caro Giavini,
Non credo che una tale misura basterebbe a risolvere la crisi palestinese. Quando gli algerini insorsero contro la Francia nel 1954, il governo di Parigi e i suoi servizi d’intelligence cercarono di isolare l’Algeria dal resto del mondo, ma non riuscirono a impedire che il Fronte di liberazione nazionale ricevesse armi e munizioni da Paesi amici o da chiunque avesse interesse a soffiare sul fuoco. Finché la maggioranza dei palestinesi si riterrà vittima di una ingiustizia, le formazioni combattenti della resistenza continueranno a disporre di armi. La crisi palestinese non si risolve con prove di forza, che si sono già rivelate in passato inconcludenti e dannose. La soluzione non può che essere un compromesso tra le posizioni estreme di ciascuna delle due parti.
Sappiamo che questo è particolarmente difficile quando entrambi i contendenti hanno tra le loro file gruppi radicali che non vogliono fare concessioni e sono pronti a sabotare qualsiasi tentativo di pace. Forse l’aspetto più inquietante di quest’ultima crisi è la soddisfazione con cui è percepita dagli estremisti dei due campi. Sul versante palestinese piace a tutti coloro che vogliono affondare la ritrovata unità fra le due famiglie della politica palestinese: Al Fatah e Hamas. Sul versante israeliano piace a tutti coloro che hanno lo stesso obbiettivo e vogliono soprattutto sabotare la prospettiva di due Stati destinati a convivere entro i confini della Palestina mandataria (quella amministrata dalla Gran Bretagna sino al 1948). Lo hanno fatto per molto tempo ostacolando la mediazione del segretario di Stato americano sino al suo fallimento e soprattutto servendosi del fatto compiuto degli insediamenti coloniali con cui il futuro Stato palestinese è stato progressivamente rimpicciolito. Lo fanno ora incitando il governo ad agire militarmente contro la striscia di Gaza. Non so se Benjamin Netanyahu condivida questa linea o debba accettarla per non pregiudicare l’unità del suo governo, dove i falchi sono numerosi. Ma la distinzione, tutto sommato, non ha grande importanza. Finché il governo non rinuncerà alla politica degli insediamenti e a rappresaglie che puniscono, in ultima analisi, la popolazione di Gaza, non vi sarà pace in Palestina.
Per alcuni osservatori particolarmente attenti Israele deve ripensare se stesso e il proprio futuro. In una intervista apparsa ora sul blog dell’Ispi (http://www.ispionline.it/it/intervista/israele-crisi-didentita), Vittorio Dan Segre descrive la situazione attuale come una terza intifada che «non è combattuta sul terreno, ma sullo spazio politico dell’immagine. E qui la debolezza d’Israele è totale. Il Paese deve ripensare la sua capacità di presentare i propri diritti e doveri, ma questa impellenza divide i partiti, incapaci di dire che cosa è realmente Israele. Certamente bisogna “tenere duro” sino al 2016 quando vi saranno nuove elezioni e si spera possa delinearsi un quadro politico che favorisca una maggiore chiarezza su questo fondamentale aspetto».

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