Charles Lewinsky ricostruisce la storia di Kurt Gerron, regista ebreo nel ghetto di Theresienstadt recensione di Anna Foa
Testata: L'Osservatore Romano Data: 11 luglio 2014 Pagina: 5 Autore: Anna Foa Titolo: «Regalo avvelenato»
Riprendiamo dall' OSSERVATORE ROMANO di oggi, 11/07/2014, a pag. 5, l'articolo di Anna Foa dal titolo 'Regalo avvelenato'.
Anna Foa
La storia di Theresienstadt, il ghetto creato dai nazisti nelle vicinanze di Praga dove furono radunati — oltre agli ebrei boemi e agli ebrei tedeschi che si erano distinti nella prima guerra mondiale — anche molti illustri scienziati, musicisti, letterati e artisti ebrei, è nota. Complessivamente, a Theresienstadt passarono circa centoquarantamila ebrei, diciassettemila dei quali sopravvissero. Era sostanzialmente un campo di transito: gli ebrei presenti venivano periodicamente inseriti nelle liste di deportazione per Auschwitz e la popolazione del ghetto si rinnovava con i nuovi arrivati. Era anche un campo per anziani e c'erano molti bambini, in tutto ne passarono di là circa quindicimila, che vivevano in case per l'infanzia dove erano state create delle classi per lo studio. I loro disegni, nascosti dalla loro insegnante di disegno prima di essere deportata, si trovano ora nel Museo Ebraico di Praga. Circa mille di questi bambini sopravvissero. A Theresienstadt furono inoltre rinchiusi nel 1943 cinquecento ebrei danesi, quasi tutti sopravvissuti grazie al costante intervento in loro protezione del Governo danese, che impedì che fossero inseriti nelle liste di deportazione per Auschwitz. Nel 1944 i nazisti autorizzarono un'ispezione nel ghetto da parte della Croce Rossa internazionale. Il ghetto era stato tutto ripulito e rinnovato, alcune migliaia di ebrei erano stati inviati ad Auschwitz per non dare un'immagine di sovraffollamento e i trasporti erano stati sospesi. La Croce Rossa si lasciò ingannare con molta facilità e riferì che le condizioni degli ebrei erano buone. Prima di riprendere i trasporti, tuttavia, il comandante del ghetto, Karl Rahm, decise di realizzare anche un documentario che smentisse le voci che circolavano sullo sterminio e dimostrasse al mondo, e in particolare ai Paesi neutrali, che i nazisti trattavano gli ebrei con ogni riguardo. A girarlo fu incaricato un noto regista detenuto nel ghetto, Kurt Gerron, un ebreo tedesco. Il film fu girato in pochi giorni, e subito dopo ripresero i trasporti, in cui furono inclusi sia Gerron che tutti coloro che avevano partecipato al film, attori, comparse e personale tecnico. Tremila donne e tremila uomini partirono per Auschwitz. Era la fine di ottobre del 1944. Pochi giorni dopo, arrivò l'ordine di Himmler di fermare le camere a gas e i nazisti cominciarono a prepararsi per svuotare il campo, mentre le truppe sovietiche guadagnavano terreno all'Est. Del filmato — che Hitler non fece in tempo a distribuire — restano circa 24 minuti (visibili sul web) che mostrano gli ebrei di Theresienstadt felici e sorridenti, intenti al lavoro, a pranzare, a bagnarsi nel fiume, a darsi ad attività culturali e ricreative. Questo il contesto in cui si svolge la storia narrata dallo scrittore svizzero Charles Lewinsky (di cui il lettore italiano già conosce La fortuna dei Meijer) nel suo romanzo Un regalo del Führer (Torino, Einaudi, 2014, pagine 505, euro 23) titolo che riprende quello che avrebbe dovuto essere scelto per il film, Hitler regala una città agli ebrei. E una storia che molto si presta tanto alla narrazione che alla riflessione, tanto è vero che la ritroviamo non solo nei libri di storia ma in molte opere narrative, a cominciare dal grande romanzo di Sebald, Austerlitz, e in vari documentari. Nell'ultima pagina del suo libro, Lewinsky scrive: «Molte cose in questo romanzo sono inventate. Una purtroppo no: il 30 ottobre Kurt Gerron e sua moglie Olga furono assassinati ad Auschwitz». Eppure, il libro ci immerge in profondità, con molta verosimiglianza e molta cura dell'ambiente e dei fatti storici, nel clima di quegli anni. Più che un romanzo, è una sorta di autobiografia fittizia di Gerron, l'autobiografia che l'artista avrebbe potuto scrivere se non fosse morto subito dopo aver girato questo film. Un'autobiografia che Lewinsky intraprende dall'inizio, da quando Gerron era solo un bambino, per raccontare la sua storia attraverso la Germania della grande guerra, dove fu gravemente ferito, e poi i suoi esordi come attore e regista, il suo divenire nella Germania di Weimar un artista noto, la sua collaborazione con Brecht all'Opera da tre soldi, la sua partecipazione accanto a Marlene Dietrich a L'Angelo azzurro: il clima insomma di quegli anni culturalmente tanto vivaci e politicamente tanto agitati che precedono l'avvento di Hitler. Kurt Gerron è — lo dice nel romanzo — troppo impegnato a far carriera all'apparire del nazismo per seguirne il percorso, per preoccuparsi anche solo del proprio destino di ebreo. Ed è così che mentre tanti cominciano a emigrare, Gerron rifiuta la possibilità di raggiungere l'America, di seguire a Hollywood l'amico Peter Lorre e gli altri attori e artisti tedeschi che scelsero l'emigrazione. Fino alla sua cacciata dal set, dopo l'avvento di Hitler al potere, seguita dall'emigrazione, non più negli States, dove le porte si erano ormai chiuse, ma prima a Parigi e poi ad Amsterdam. Qui lo raggiungeranno i nazisti, chiudendolo nel campo di transito di Westerbork, e poi a Theresienstadt. E fu ancora, nella sventura, un destino in qualche modo privilegiato, anche all'interno del ghetto già privilegiato di Theresienstadt, dal momento che tanti approderanno direttamente da Westerbork alle camere a gas, come Edith Stein ed Etty Hillesum. A Theresienstadt, Gerron riesce a evitare la deportazione, è fra i privilegiati, i prominent. Intorno, la vita del ghetto, il trasporto settimanale che incombe come un incubo, le mille storie di quel panorama sospeso tra la deportazione e il ghetto. Poi la richiesta di girare il film, un filmato destinato alla propaganda nazista, a negare la realtà di quello che vivevano là e, ancor più, la realtà di quello che sarebbe stato il loro destino finale. E un grave dilemma etico che l'autore affronta con penna leggera, senza appesantirne i termini ma anche con chiarezza: morire subito o ottenere una dilazione venendo a patti con la propria coscienza, nella speranza che intanto la situazione muti, che gli Alleati avanzino ? E lo stesso dilemma dei Consigli Ebraici, divisi tra la consegna ai nazisti della loro quota settimanale di ebrei da sterminare, in cambio della sopravvivenza degli altri, e la volontà di non collaborare con il progetto di sterminio. Czerniakow, il presidente del Consiglio Ebraico di Varsavia, lo risolse suicidandosi nel 1942, ma subito un altro prese il suo posto. A far da mediatore tra Gerron e il comandante nazista del campo, era il presidente del Consiglio Ebraico Paul Eppstein. Anche lui sarà poi mandato a morire, e il suo posto sarà preso da Benjamin Mulmerstein, l'unico presidente del Consiglio Ebraico sopravvissuto, su cui Lanzmann ha da poco realizzato lo straordinario film L'ultimo degli ingiusti. Ma Gerron non ha solo davanti la prospettiva di una possibile sopravvivenza per sé e per sua moglie, ha anche quella di mettere di nuovo in pratica le sue capacità di regista, di realizzarsi come artista anche nel ghetto. Questo film, dopo averlo iniziato, vuole farlo bene. Il dilemma non è solo più fra la sopravvivenza dei più e la resistenza al nazismo, è tra la resistenza e la professionalità. E Gerron fa il suo film, tra mille difficoltà, solo per vedere tutti i suoi protagonisti, tutte le sue comparse, tutti i suoi tecnici sul treno, insieme a lui: il film non ha comprato la vita di nessuno, i trasporti riprendono. Gerron, che pur credeva con questo film di essere divenuto indispensabile, è solo un ebreo. E nessun ebreo è indispensabile ai nazisti.
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