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Ugo Volli
Cartoline
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Capire la guerra per vincere 09/07/2014

Capire la guerra per vincere
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli

A destra, soldati di Tsahal


Cari amici,

bisogna ragionare. E' sempre necessario, ma in circostanze come queste, è indispensabile se non  si vuole finire male. Cerchiamo di tenere i nervi freddi, come dice Netanyahu - e di ragionare. Partiamo da un dato evidente anche se molti lo ignorano e lo mistificano, probabilmente perché è un po' antipatico. Eccolo: in Israele c'è la guerra. Non un malinteso, delle sfortunate incomprensioni, degli incidenti, cose così: una guerra. Neppure un'”occupazione” e una “resistenza” come dicono i nemici: una guerra. E' una guerra che dura da centoventi anni, da quanto gli arabi si resero conto che l'immigrazione ebraica era lì per restare e intendeva rovesciare i tradizionale rapporti di oppressione che il Corano autorizzava. Gli ebrei non volevano più inchinarsi, obbedire, pagare tasse discriminatorie, farsi piccoli, lasciarsi umiliare e maltrattare. Per gli arabi erano schiavi ribelli, bisognava eliminarli o almeno dar loro una serissima lezione. Questo sentimento dura da 120 anni ed è vivissimo ancora oggi. Esso è alla base della lunga violenza araba, che diventò sistematica, programmata e generale già a partire dal 1920 e oggi prosegue in forma più sofisticata, ma con gli stessi obiettivi. E' in corso dunque una guerra dei cent'anni, che molto probabilmente durerà un altro secolo, almeno. La posta sono l'esistenza ebraica da un lato e l'autostima araba dall'altro. La vera catastrofe, la Nabka di cui loro si lamentano sta in questo, che i nobili signori arabi sono stati battuti dai vili schiavi ebrei, duramente e ripetutamente. Senza vendetta totale, il loro onore è ferito, la loro autostima distrutta. Di qui la guerra


Carl Von Clausewitz

Come ha scritto Carl von Clausewitz,  «la guerra è un atto di forza che ha lo scopo di costringere l'avversario a sottomettersi alla nostra volontà,»  o a distruggerlo se non lo fa. Ai tempi di Clausewitz, due secoli fa, la distruzione totale, il genocidio non appariva possibile, almeno in Europa; da settant'anni abbiamo imparato che lo è. La volontà degli arabi è che gli ebrei spariscano dal Medio Oriente in qualche modo, vivi o morti – preferibilmente morti. La volontà di Israele non può essere simmetrica, se non altro per questioni di numeri. Israele non vuole e realisticamente non può voler distruggere la nazione araba; vuole semplicemente stare sulle terre dei suoi progenitori; nella migliore delle ipotesi farlo con l'amicizia dei vicini e vantaggio reciproco; nella peggiore con indifferenza e freddezza. Gli basta che lo lascino in pace.
Per ottenere i propri obiettivi, in guerra si usa la violenza. Detto chiaramente, si fa del male, più male possibile al proprio nemico, finché si sottomette – o sparisce. Lo si danneggia, lo si logora, si uccidono i suoi cittadini (i soldati ma spesso non solo loro). Non che in guerra non ci siano proprio regole, per esempio è proibito mirare missili sulla popolazione civile o rapire dei ragazzi inermi per ucciderli. Ma i mezzi della guerra non sono essere gentili coi propri nemici, educarli, convincerli delle proprie buone ragioni, apparire loro moralmente superiori (anche se queste possono essere tattiche di guerra psicologica). La guerra è esercitare abbastanza violenza da costringerli a cedere.  C'è una moralità della guerra, ci può essere perfino in certe condizioni di riconoscimento reciproco (che in Medio Oriente oggi certamente mancano) un regime di rispetto che si chiama non a caso “cavalleria” che limita fortemente i comportamenti ammessi. Ma non c'è certamente il precetto di non nuocere, di non approfittare delle debolezze altrui, di non usare la propria forza, di far prevalere la pietà sull'obiettivo. E' sgradevole da dire ma è così, sanzionato anche nei testi religiosi, oltre che in quelli politologici e strategici. Una conseguenza di questo fatto (e del disinteresse del mondo) è che ha poco senso lamentarsi dei crimini di guerra dei nemici, del rapimento degli studenti, dei razzi sulle città. In questa maniera si dà solo loro la misura dell'efficacia psicologica delle loro azioni, e in guerra la psicologia è importante. Bisogna reagire, ribattere, colpire di più.
Israele e gli arabi sono in guerra, ma non hanno la stessa posizione. Non solo perché il fronte della guerra negli ultimi decenni è sostenuto soprattutto da entità non statali che praticano una guerriglia per definizione asimmetrica che si esprime nel terrorismo: “mordi e fuggi”, “colpisci il nemico dov'è più debole, cioè nella popolazione civile”, “non rispettare alcun limite” sono fra i suoi principi. Non si tratta solo di questa asimmetria tattica, vi è un'asimmetria strategica. Israele è arroccato sulla difensiva, protegge il suo spazio vitale; gli arabi sono all'offensiva, cercano di eroderlo e distruggerlo. Questo dà un vantaggio a Israele, che può agire per linee interne ed ha un esercito che sa di combattere per le proprie case e le proprie famiglie. Inoltre dovrebbe garantirgli maggiore legittimità, perché risponde sempre ad aggressioni, ma questo in realtà non accade per l'atteggiamento antsionista/antisemita della comunità internazionale.
Questo stesso fatto (la posizione difensiva) rischia però di irrigidire la sua azione, spingerlo a reagire invece che ad agire, togliergli insomma l'iniziativa strategica. Il che è puntualmente accaduto almeno a partire dagli accordi di Oslo (ma anche nella guerra del '73 ci fu questo problema). Quando si decide ad agire, l'esercito israeliano degli ultimi decenni spesso monta una grande macchina pesante, che rischia di impantanarsi nelle schermaglie, com'è accaduto spesso a Gaza o di restare vittima della guerriglia nemica, come nell'ultima guerra in Libano. E puntualmente gli alleati dei nemici, nella stampa e nella politica, parlando della reazione e non dell'azione, fanno di sei milioni che si difendono contro l'attacco di trecento un Golia che opprime un povero Davide. Sono falsità, ma contano.



Terroristi di Hamas
 
Il fatto più problematico però è che la guerra contemporanea non è più quasi mai scontro frontale di eserciti; vi si affiancano o lo sostituiscono i bombardamenti aerei e missilistici, la guerriglia e il terrorismo (che è un'estensione di quest'ultima), la guerra economica, quella diplomatica, quella legale, quella dei media. E mentre Israele, nonostante la sproporzione numerica, è sempre stato più forte nello scontro militare tradizionale (la fanteria, i carri armati, l'aviazione), negli altri teatri di guerra è da tempo perdente. Sul suo territorio non ha senso praticare la guerriglia (ma ci sono ancora operazioni segrete e di commando su territori nemici). Il terrorismo ripugna alla sua etica (anche se fu applicato nella guerra di liberazione dagli inglesi, fra il '45 e il '47). Nell'ambito politico, economico, legale e diplomatico pesa moltissimo la potenza del mondo islamico, diviso su tutto, salvo che sull'odio per gli ebrei e Israele e conta un legame storico fra mondo arabo, paesi ex comunisti, paesi del terzo mondo. Israele in sostanza non ha quasi alleati; non l'Europa, che da sempre corteggia le suoi ex colonizzati arabi per ragioni demografiche, di confini e di petrolio. Non la Russia e la Cina, che continuano le vecchie alleanze con gli arabi, non il “terzo mondo” plagiato ideologicamente dall'etichetta “colonialista” che gli arabi hanno cucito addosso a Israele. Restano gli Stati Uniti, che però sono in mano a un uomo come Obama, che per ragioni ideologiche, familiari, strategiche è un nemico di Israele appena dissimulato dietro le buone parole. E restano dei partner commerciali, dei paesi anche nemici che condividono interessi tattici (per esempio l'Arabia Saudita contro l'Iran). Dunque Israele è debole dappertutto salvo che sul terreno militare vero e proprio e su fattori non direttamente bellici ma importanti come l'economia che cresce, la tecnologia molto innovativa, la democrazia che consente una coesione sociale maggiore.


Manifesto della campagna per il boicottaggio di Israele

Nell'ultimo periodo, dopo aver fatto fallire le trattative di pace volute da Kerry, gli arabi hanno tentato un'offensiva coordinata su tutti i terreni su cui possono avere vantaggio. Il terrorismo quotidiano è stato il primo, con una dozzina di omicidi politici negli ultimi mesi, di cui quello dei tre studenti è il più recente; con episodi quotidiani di aggressioni al coltello, coi sassi sulle macchine, con le moltov, coi pestaggi. Contemporaneamente c'è stata un'offensiva propagandistica, diplomatica, economica (il BDS) benevolmente appoggiata dagli antisemiti di tutto il mondo.
Negli ultimi giorni c'è stata una fiammata di questi episodi di terrorismo spicciolo e disordini, con cui si è coordinata l'aggressione coi razzi da Gaza, più altri tentativi di rapimento e la mobilitazione internazionale. Israele ha reagito lentamente, si è lasciato prendere nella trappola di chiedere scusa per un delitto (quello del ragazzo arabo assassinato) che per quanto odioso riguarda i suoi responsabili e non l'intera società che ha reagito come fa una società democratica: indagando arrestando i sospetti, portandoli a processo, distinguendosi insomma nei fatti e non solo con buone parole dal delitto. La risposta ai disordini è stata prudente, nonostante la ricerca e spesso l'invenzione di abusi, che è caratteristica della propaganda palestinista. E' stata lenta e pesante, finora, la risposta all'aggressione missilistica di Gaza sulle città israeliane. C'è stata più autocoscienza che azione. Certamente questa lentezza viene da un calcolo politico o militare, speriamo giusto.  L'importante è capire che non conta aver ragione e neppure esssere più forti in astratto. Bisogna esercitare più forza nel singolo spazio e tempo dell'azione.
Siamo destinati ad essere spettatori dei prossimi atti di questa lunga guerra. Quel che importa è capire che di questo si tratta, non illudersi che la storia contemporanea sia una prova di buona condotta, di elevati sentimenti, di autocontrollo; non pensare che presentandoci come buoni potremo ottenere sconti dagli arabi, anzi. Né peraltro dobbiamo pensare che dando semplicemente sfogo ai malumori e magari ai dolori veri e grandi che gli atti della guerra araba ci hanno provocato si risolva qualcosa con slogan e striscioni. E' necessario pensare strategicamente, calcolare costi e benefici non solo sul singolo teatro geografico e di medium bellico, ma sul complesso dell'equilibrio di forze fra Israele è i suoi nemici. Bisogna sperare che l'attuale dirigenza israeliana sia all'altezza del compito; ogni tanto vengono dei dubbi, ma certamente è molto migliore delle sue alternative di sinistra, nello stile di Peres, perché almeno Netanyahu non si fa illusioni.



Ugo Volli


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