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La Repubblica - Corriere della Sera - Il Sole 24 Ore - L'Unità - Avvenire Rassegna Stampa
09.07.2014 Israele sotto attacco: le nostre critiche a commenti e interviste che deformano la realtà
di David Grossman, Antonio Ferrari, Ugo Tramballi, Saeb Erekat, Fulvio Scaglione

Testata:La Repubblica - Corriere della Sera - Il Sole 24 Ore - L'Unità - Avvenire
Autore: David Grossman - Antonio Ferrari - Ugo Tramballi - Umberto De Giovannangeli - Fulvio Scaglione
Titolo: «Il dovere della speranza - Il rischio di una guerra a tutto campo - I limiti e i rischi dell'ennesima escalation - Il mondo fermi Israele. Non ci sono scorciatoie militari - Un'occasione persa per cambiare»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 09/07/20144,   a pagg. 1-12-13 , l'articolo di David Grossman dal titolo" Il dovere della speranza",  dal CORRIERE della SERA a pagg. 1-2,  l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo  "Il rischio di una guerra a tutto campo" , dal SOLE 24 ORE a pag. 17,  l'articolo di Ugo Tramballi dal titolo " I limiti e i rischi dell'ennesima escalation" , dall' UNITA' a pag. 13 l'intervista di Umberto De Giovannageli a Saeb Erekat dal titolo "Il mondo fermi Israele. Non ci sono scorciatoie militari", da AVVENIRE a pag. 5 l'articolo di Fulvio Scaglione dal titolo "Un'occasione persa per cambiare".

Riuniamo in questa pagina una serie di commenti che muovono dal rifiuto di prendere atto della realtà, o dalla sua deliberata distorsione.
David Grossman nell'articolo pubblicato da REPUBBLICA  invoca trattative a oltranza, a dispetto del fatto che la risposta del terrorismo alle concessioni di Israele è stata e continua ad essere praticare una maggiore violenza.
Antonio Ferrari sul CORRIERE della SERA critica Israele per non aver voluto dialogare con la parte "moderata" di Hamas, che in realtà è sempre stato compatto nella pratica del terrorismo  e nell'opposizione all'esistenza dello Stato ebraico.
Fulvio Scaglione su AVVENIRE ritiene che Israele abbia perso l'occasione di evitare di difendersi. E' il fatto che lo faccia, non la precedente aggressione di Hamas, per lui, a dar vita ad una escalation.
Ugo Tramballi sul SOLE 24 ORE reintroduce il tema, della "proporzionalità". Per Tramballi Israele ha sì il diritto di  difendersi, ma con vincoli che, di fatto, renderebbero la sua azione inefficace e garantirebbero il successo della strategia criminale dei terroristi, che si fanno scudo dei civili.
Dal rifiuto della realtà si approda così alla condanna di Israele anziché dei suoi aggressori. Esemplare, in questo senso, l'intervista al portavoce palestinese Saeb Erekat, intevistato da Umberto De Giovannageli. Erekat presenta i raid a Gaza come vendetta israeliana per l'omicidio dei tre adolescenti sequestrati, e non , come è di fatto, come tentativo di fermare l'aggressione con i razzi. De Giovannageli, nel corso di tutta l'intervista, non smentisce questa menzogna.

Di seguito, gli articoli

LA REPUBBLICA - David Grossman: "Il dovere della speranza"


David Grossman

Speranza e
disperazione. Ci sono stati anni in cui abbiamo oscillato fra le due. Oggi sembra che la maggior parte degli israeliani e dei palestinesi si trovi in uno stato d’animo nebuloso, piatto, privo di orizzonte. In un torpore ottuso, in un’auto-narcosi.
AL giorno d’oggi, in un Israele avvezzo alle delusioni, la speranza (sempre che qualcuno vi faccia cenno) è immancabilmente insicura, un po’ timida, sulla difensiva. La disperazione invece è disinvolta, risoluta. Pare che parli a nome di una legge della natura o di un assioma che stabilisce che questi due popoli saranno per sempre condannati alla guerra e non avranno mai pace. Agli occhi della disperazione chi ancora spera, o crede, in una possibilità di pace è, nella migliore delle ipotesi, un ingenuo o un visionario delirante, e, nella peggiore, un traditore che, irretendo gli israeliani con miraggi, ne indebolisce la capacità di resistenza.
In questo senso la destra ha vinto. È riuscita a instillare la sua pessimistica visione del mondo nella maggior parte degli israeliani. E si potrebbe dire che non solo ha sconfitto la sinistra, ma che ha sconfitto Israele. Non tanto perché questo suo modo di vedere le cose spinge lo stato ebraico a una condizione di paralisi su un terreno tanto cruciale per lui, dove servirebbero audacia e flessibilità e creatività, ma perché ha sconfitto quello che un tempo si sarebbe potuto definire «lo spirito israeliano»: quella scintilla, quella capacità di rinascere a dispetto di tutto. Ha annientato il nostro coraggio e la nostra speranza.
Nell’ambito più importante della sua esistenza Israele è quasi del tutto immobile, se non addirittura impotente. Stranamente, però, questa situazione non comporta una sofferenza visibile per i suoi leader e per gran parte dei suoi cittadini che sono bravissimi a compiere una netta separazione tra lo stato di cose esistente e la loro coscienza. Molti israeliani vivono così da molti anni, quarantasette per la precisione, e nemmeno troppo male, laddove di fatto, al centro del loro essere, c’è il vuoto. Un vuoto di azioni e di coscienza in cui si verifica un’efficace sospensione del giudizio morale.
Lo scrittore americano David Foster Wallace racconta di due pesciolini che, mentre nuotano in mare, incontrano un anziano pesce. Salve ragazzi, li saluta l’anziano, come va? Alla grande, rispondono i due. E l’acqua, com’è? Domanda il vecchio. Ottima, gli rispondono. Poi lo salutano e continuano a nuotare. Dopo qualche istante uno dei pesciolini domanda all’altro: dì un po’, ma cosa diavolo è l’acqua?
Ascoltate l’acqua. L’acqua in cui nuotiamo e che beviamo da quarantasette anni. Alla quale siamo talmente abituati da non percepirla. È la vita che scorre qui, ancora indubbiamente piena di vitalità e di creatività ma anche un po’ folle, con un’atmosfera caotica da saldi di fine stagione, da disturbo bipolare in cui mania e depressione si intrecciano, in cui la sensazione di possedere un grande potere si alterna a cadute di profonda debolezza. Una vita che scorre in una democrazia compiaciuta di se stessa, con pretese di liberalità e di umanesimo ma che da decenni si impone su un altro popolo, lo umilia e lo schiaccia. Una vita che scorre nel forte clamore dei media, in gran parte mirato a distrarre l’opinione pubblica e a intorpidire i sensi. Come si può infatti resistere in una situazione simile senza distrazioni, senza un po’ di autonarcosi? Come si possono affrontare, per esempio, le conseguenze della cosiddetta “opera di insediamento” e il pieno significato di questa folle scommessa sul futuro del paese? Ascoltate l’acqua: sotto la melma nella quale sguazziamo ormai da quarantasette anni c’è una corrente profonda e gelida: il terrore di un errore storico, di uno sbaglio madornale, di ciò che, sotto ai nostri occhi, sta assumendo la forma di uno Stato binazionale, o di uno Stato di apartheid, o militare, o rabbinico, o messianico.
Nella disperazione israeliana c’è anche uno strano elemento, una specie di gaiezza per l’imminente catastrofe, o per la delusione. Una sorta di gioia maligna nei confronti di chi ha visto deluse le proprie speranze. Una gioia particolarmente distorta perché, in fin dei conti, ci rallegriamo delle nostre stesse disgrazie. Talvolta sembra che nell’animo degli israeliani frema ancora l’offesa del 1993 quando, con la firma degli accordi di Oslo, osarono credere non solo che il nemico si fosse trasformato in un partner, ma che le cose avrebbero anche potuto andar bene qui, che un giorno saremmo stati bene. È come se avessimo tradito noi stessi — dicono i rappresentanti del partito della disperazione — per essere stati tentati a credere a qualcosa di totalmente contrario alla nostra esperienza, alla nostra tragica storia, a un qualche segno distintivo del nostro destino. E per questo abbiamo pagato e ancora pagheremo, con gli interessi. Ma per lo meno, da ora in poi, nessuno più ci coglierà in fallo, non crederemo più a niente, a nessuna promessa, a nessuna opportunità. E anche se Mahmoud Abbas si batterà con tutte le sue forze per prevenire il terrorismo contro gli israeliani, anche se proclamerà che verrà a Safed, sua città natale, unicamente come turista, anche se dichiarerà che la Shoah è il peggior crimine della storia umana e attaccherà ferocemente gli assassini dei tre ragazzi rapiti, il primo ministro israeliano Netanyahu si affretterà a versargli in testa un secchio d’acqua gelata.
È interessante notare che sebbene Israele abbia seriamente tentato la via della pace con i palestinesi soltanto una volta, nel 1993, è come se avesse deciso di rinunciare per sempre a perseguire questa possibilità dopo quel fallito tentativo. Anche qui entra in gioco la logica distorta della disperazione. La strada della guerra, dell’occupazione, del terrorismo, dell’odio, l’abbiamo provata decine di volte senza stancarci né scoraggiarci. Come mai invece ci affrettiamo a respingere definitivamente quella della pace dopo un solo fallimento?
Israele, naturalmente, ha molte ragioni di preoccuparsi, di stare in ansia. Ma proprio davanti a pericoli e minacce la disperazione e l’inazione non possono essere considerate una linea politica efficace. L’attuale governo israeliano, come i suoi predecessori, si comporta come se fosse prigioniero della disperazione. Non ricordo di aver mai sentito un discorso di seria speranza da parte di Netanyahu, dei suoi ministri e dei suoi consulenti. Nemmeno una parola sul sogno di vivere in pace, sulle possibilità racchiuse in un simile ideale, o sull’opportunità che Israele si inserisca in un intreccio di nuove alleanze e interessi in Medio Oriente. Come ha fatto la speranza a trasformarsi in un termine volgare, colpevolizzante, secondo per pericolosità soltanto a “pace”? Guardateci: il paese più forte della regione — una potenza, in termini locali — che gode dell’appoggio quasi inconcepibile degli Stati Uniti, della simpatia e del sostegno di Germania, Inghilterra e Francia, dentro di sé si considera ancora una vittima impotente. E si comporta come tale: vittima delle proprie paure, reali o immaginarie, delle atrocità sofferte in passato, degli errori di vicini e nemici.
Quale speranza ci può essere in una situazione tanto difficile? Una ce n’è, malgrado tutto. La speranza che, senza ignorare i pericoli e le numerose difficoltà, si rifiuta di vedere solo quelli. La speranza che, se le fiamme del conflitto si affievoliranno, potrebbero ancora emergere, a poco a poco, i tratti sani ed equilibrati dei due popoli sui quali comincerà ad agire il potere terapeutico della quotidianità, della saggezza della vita, del compromesso, di una sensazione di sicurezza esistenziale grazie alla quale poter crescere i figli senza la minaccia della morte, senza l’umiliazione dell’occupazione, senza la paura del terrorismo, e aspirare a un tessuto di vita semplice, familiare, fatto di lavoro e di studio.
Oggi, nei due popoli, agiscono quasi esclusivamente agenti di disperazione e di odio. Potrebbe essere quindi difficile credere che la visione che ho prospettato sia possibile. Ma una realtà di pace comincerà a forgiare agenti di speranza, di vicinanza e di ottimismo, che abbiano un interesse concreto e privo di risvolti ideologici a creare sempre più contatti con i membri dell’altro popolo. Forse, un giorno, fra molti anni, ci saranno un riavvicinamento più profondo e persino rapporti di amicizia tra questi due popoli. Tra questi esseri umani. Non sarebbe la prima volta nella storia.
Io mi aggrappo a questa speranza e la custodisco in me perché voglio continuare a vivere qui. Non posso permettermi il lusso della disperazione. La situazione è troppo grave per esse- re lasciata ai disperati e, accettarla con rassegnazione, sarebbe di fatto un’ammissione di sconfitta. Non una sconfitta sul campo di battaglia ma una sconfitta umana. Nel momento infatti in cui accettiamo che la disperazione ci governi qualcosa di profondo e di vitale in noi esseri umani ci viene negato, ci viene portato via. Chi segue una linea politica che, di fatto, non è che una sottile patina di rivestimento di un sentimento di profonda disperazione, mette in pericolo l’esistenza di Israele. Chi si comporta in questo modo non può sostenere di «essere un popolo libero nella nostra terra». Può forse cantare la Tikvah, la Speranza, il nostro inno nazionale, ma nella sua voce, al posto della parola «speranza», echeggerà «disperazione ». «Una disperazione di duemila anni».
Noi, che da moltissimi anni chiediamo la pace, continueremo a insistere sulla speranza. Una speranza consapevole e che non si dà per vinta. Che sa di essere, per israeliani e palestinesi, l’unica possibilità di sconfiggere la forza di gravità della disperazione.
© David Grossman ( Traduzione di Alessandra Shomromi)

CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari: "Il rischio di una guerra a tutto campo"


Antonio Ferrari

 Mai in Israele, negli ultimi decenni, la guerra — intendo una guerra vera, di cui tutti vedono l’inizio ma non immaginano né la fine né le devastanti conseguenze — era stata così vicina. Non era così vicina nel ’91, al tempo dei missili Scud di Saddam Hussein; non la era nella seconda intifada, quando non si contavano gli attentati-suicidi palestinesi che terrorizzavano Israele; non lo è stata neppure due anni fa, quando Israele aveva richiamato 70.000 riservisti per attaccare la Striscia di Gaza da terra.
n passo che avrebbe rischiato di annullare l’operazione — smantellamento degli insediamenti ebraici deciso da Ariel Sharon. L’attacco non ci fu e il mondo respirò di sollievo.
Oggi è tutto molto più difficile ed estremamente pericoloso perché un eccesso, una provocazione, una tragica forzatura trascinerebbe tutti nell’abisso di un conflitto incattivito da un odio crescente e da un’incontrollata emotività: senza quel ricorso alla ragione invocato assieme, in Israele, dal presidente uscente Shimon Peres e da quello entrante Reuven Rivlin. Il passo verso il punto di non ritorno è lungo il tempo di un respiro, perché l’offensiva israeliana sulla Striscia, con il bombardamento di un centinaio di siti sensibili, e i missili che sono piovuti su Tel Aviv e su Gerusalemme, lasciano intendere quanto sia possibile lo scenario più terribile: una guerra a tutto campo, senza sapere che ci sia qualcuno in grado di fermarla.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sta sicuramente affrontando la prova più difficile. Non essendo un uomo di guerra, come tanti suoi predecessori, è abilissimo nel minacciare, assai incerto nel decidere di assumersi rischi che potrebbero nuocere tremendamente a Israele. Compiacendo l’estrema destra del suo governo, probabilmente si è spinto troppo avanti nel concentrare accuse e propositi di vendetta contro Hamas, senza distinguere i fondamentalisti da altri estremisti concorrenti, ancor più feroci. Anche Abu Mazen, che aveva sperato, con fiducia assai velleitaria, in un governo di unità nazionale con gli storici avversari di Hamas, si ritrova più debole di prima.
La risultante è che tutti sembrano impotenti. Netanyahu sta conoscendo le più velenose insidie del potere: ha richiamato 40.000 riservisti, ma è troppo scaltro per pensare di impiegarli in un’operazione di terra a Gaza che potrebbe risolversi in una tragedia, con un costo insopportabile di vite umane. Anche se sa che l’irreparabile non è affatto escluso.
Eppure nel momento dell’allarme estremo, Israele non si sottrae alla lezione della propria coscienza. Orribile l’assassinio dei tre studenti ebrei, atroce la vendetta nei confronti di un ragazzo palestinese, catturato, obbligato a bere benzina, e poi bruciato vivo per vendetta. Lo Stato ebraico ha vinto guerre, ha compiuto vendette, i suoi militari hanno ucciso. Ma c’è qualcosa che l’israeliano medio non accetta: la violenza feroce e gratuita sui civili. Dopo la strage di Sabra e Shatila, quando i soldati di Tel Aviv voltarono la testa mentre i falangisti cristiani libanesi compivano il massacro, 400.000 israeliani scesero in piazza per gridare vergogna. Oggi la mano tesa tra i familiari di uno dei ragazzi ebrei uccisi e quelli del palestinese bruciato vivo danno forza alla speranza di uscire da questo incubo.

Il SOLE 24 ORE - Ugo Tramballi: " I limiti e i rischi dell'ennesima escalation" 


Ugo Tramballi


La domanda è la stessa di tutte le altre volte: fino a dove si può spingere l'indiscutibile diritto di Israele a garantire la sua sicurezza? Perché come "Piombo fuso" fra il 2008 e l'inizio del 2009, e tutte le precedenti operazioni militari su Gaza, anche "Soglia di protezione" - così è stata chiamata dai militari la missione in corso - porrà Israele e i suoi amici nel mondo di fronte allo stesso dilemma. Cinque anni fa morirono circa 1.200 palestinesi, due terzi dei quali civili; e 13 militari israeliani, quattro dei quali uccisi da fuoco amico. Almeno fino a ieri pomeriggio si registra la morte di 16 palestinesi: ancora dei civili fra loro. Un diritto fondamentale come la sicurezza non si misura sul calcolo delle vittime. Ma questo calcolo ha il suo peso, anche morale. Soprattutto perché il conflitto al quale stiamo assistendo è politico, religioso e fra due nazionalismi in competizione per lo stesso fazzoletto di terra. Ma soprattutto è una faida nella quale anche una sola vittima mette in moto la catena che porta a una guerra. Come Israele non può sopportare senza reagire la morte di un suo cittadino, così Hamas. E questa priorità supera ormai qualsiasi considerazione politica o strategica. Il partito islamico non ha mai dimostrato di avere cara la popolazione civile di Gaza: è stato provato che spesso i razzi partono dai centri abitati; che i loro arsenali sono nel sottoscala delle case. Per pesante che ne sia il prezzo, la faida per loro è diventata un fortino imprendibile. Per quanto Israele bombardi o intervenga con la fanteria, la Striscia non potrà essere ridotta in cenere. Né militarmente occupata: è già stato fatto e non è servito a nulla. Cioè, è facile vincere la battaglia, impossibile la guerra. Cinque anni fa Israele tenne sotto attacco Gaza per 23 giorni. Quando i soldati si ritirarono, la Striscia non aveva più un'economia e migliaia di abitanti non avevano più una casa. Poche settimane più tardi i Qassam ricominciarono sporadicamente a partire. Durante "Piombo fuso" Hosni Mubarak se ne andò in vacanza nella sua villa di Sharm el-Sheikh e Abu Mazen tacque: in Cisgiordania la vita era continuata normalmente. Oggi le cose sono differenti in Medio Oriente. Il generale egiziano al-Sisi sta spendendo i suoi servizi segreti per mediare un cessate il fuoco. Ma se fallisse del tutto e "Soglia di protezione" mettesse in campo anche i 40mila fanti mobilitati, al-Sisi non potrebbe far finta di niente. Così Abu Mazen. Alle spalle degli israeliani schierati, la Cisgiordania non è più un luogo tranquillo: i segni premonitori di una nuova Intifada ci sono già stati. L'egiziano e il palestinese sono arabi moderati. Quale sarebbe la reazione nel resto del Medio Oriente? Regimi sotto assedio e milizie islamiche troverebbero la scusa perfetta per tornare a mettere gli occhi sul nemico comune. Ripartendo le colpe fra israeliani e palestinesi per il fallimento del suo negoziato di pace, l'americano John Kerry aveva comunque chiarito che la colpa è stata più dei primi che dei secondi. Un accordo o quanto meno la continuazione della trattativa, avrebbe dimostrato la bontà delle ragioni dei palestinesi moderati: la pace aveva una posibilità Fallito quel negoziato e tirando su Israele i suoi razzi, in qualche modo Hamas ha già vinto la sua guerra prima che la fanteria israeliana decida di avanzare. 

L'UNITA' - Umberto de Giovannangeli: "Il mondo fermi Israele. Non ci sono scorciatoie militari"



Umberto De Giovannangeli,   Saeb Erekat

 «Non c'è più tempo da perdere. Il mondo fermi la mano d'Israele e faccia pressione perché cessino immediatamente gli attacchi aerei. Una nuova invasione di Gaza sarebbe la tomba di ogni speranza di pace.. A sostenerlo è una delle figure più autorevoli della leadership palestinese: Saeb Erekat, capo negoziatore dell'Autorità nazionale palestinese (Anp). «La sicurezza può essere garantita solo da un negoziato di pace, ha scritto Barack Obama (in un articolo su Haaretz, ndr). Sottoscrivamo questa affermazione del presidente americano. Ma le parole, per quanto importanti, non bastano a porre fine a questa nuova escalation di violenza. Obama agisca su Tel Aviv perché torni al tavolo delle trattative invece di coltivare l'illusione che esista una scorciatoia militare per cancellare nel sangue la questione palestinese»
I ventl di guerra tornano a spirare a Gaza Israele ha mobilitato 40mila riservisti, Hamas ha minacciato dl lanciar razzi contro Tel Aviv. Siamo alla vigilia di una nuova prova di forza?
«Se così fosse sarebbe una sciagura dalle conseguenze devastanti. Una sciagura per la popolazione civile di Gaza, che ha già vissuto sulla propria pelle altre operazioni militari d'Israele. Quelle messe in atto da Israele sono punizioni collettive che vanno contro ogni legge internazionale. Ma una nuova guerra a Gaza sarebbe una sciagura anche per quanti, in Palestina come in Israele e nel mondo, continuano a battersi per la ripresa delle trattative e per una pace fondata sulla soluzione "due popoli, due Stati". Violenza chiama violenza e la vendetta non è sinonimo di giustizia».
Ma da Gaza continuano ad esser. lanciati ras contro le città frontaliere del sud d'Israele, mentre a ancora vivo nello Stato ebraicoil dolore per il barbaro assassinio del tre seminaristi
«Il presidente Abbas ha usato parole chiare e forti per condannare l'assassinio dei tre giovani israeliani. Chi si è macchiato di questo crimine è un nemico della causa palestinese. Ma quel crimine non giustifica l'offensiva militare scatenata da Israele a Gaza. Questa non è la ricerca di giustizia è applicare una inaccettabile logica di rappresaglia. L'atroce morte del giovane Mohammed, bruciato vivo da estremisti israeliani, avrebbe dovuto far capire a Netanyahu che la vendetta può scatenare il peggio del peggio. Nei raid aerei israeliani di questi ore a Gaza sono morti anche donne e bambini. È que-sto Netanyahu lo considera un diritto di difesa?..
Israele ha accusato Hamas dell' assassino del tre adolscenti
«E per punire i responsabili si giustificano i bombardamenti su Gaza? Questa è rappresaglia, non ricerca dei colpevoli di quel crimine. Israele accusail presidente Abbas di aver dato il via libera a un governo con i terroristl d Hamas «Il negoziato non è entrato im crisi per la formazione del governo dii unità nazionale ma per il rilancio dellla colonizzazione nei Territori. Il presiidente Abbas è il garante del rispetto degli accordi sottoscritti dall'Autorità nazionale palestinese. Non siamo stati noi a venir meno a quelle intese. Il rilancio del processo di pace può avvenire sulla base del piano avanzato dalla Lega Araba. Quel piano significherebbe una svolta storica non solo nei rapporti fra israeliani e palestinesi ma fra Israele e il mondo arabo. Il coraggio da sfoderare oggi non è quello di dichiarare guerra ma di "osare" la pace»
In un Intervento pubblicato lerl dal quotidiano israeliano Haaretz, Barack Obama è tonato a sollecitare una soluzione al conflitto , sottolineando come «la pace sia l'unica strada per ottenere una vera sicurezza».
«E un'affermazione importante, ragionevole, ma le parole da sole non fermano le armi. Troppo tempo si è perso nel trascinare le trattative, e il tempo in Medio Oriente non lavora per la pace. Per questo torniamo a chiedere al presidente Usa di premere su Israele perché cessi immediatamente i raid su Gaza. E questa oggi la condizione minima per riaprire un tavolo negoziale»

AVVENIRE
- Fulvio Scaglione:  "Un'occasione persa per cambiare"

Fulvio Scaglione
Fulvio Scaglione

Un gesto di violenza, orribile, palestinese. Israele fa volare i caccia, che colpiscono Gaza. Le brigate terroristiche che fiancheggiano Hamas cominciano a lanciare razzi sulle città israeliane e minacciano ulteriori attentati. Il premier di Israele allora richiama i riservisti e prepara la spedizione via terra. Nel frattempo, muoiono donne e bambini palestinesi: vittime perché scudi umani sacrificati dai loro, come dicono i portavoce del governo e dell'esercito di Israele, o vittime perché quando bombardi una casa bombardi anche chi ci vive? Poco importa, perché alla fine nessuno andrà a controllare e la verità diventa quella di chi grida più forte. Questo è quanto succede in queste ore ma è anche quanto è successo, con maggiore o minore intensità, in media due volte l'anno dal 2000 a oggi. Secondo B'tselem, l'organizzazione umanitaria e pacifista israeliana attiva in Israele dal 1989, tra il 2000 e il 2010 gli israeliani hanno ucciso 6.404 palestinesi e i palestinesi 1.080 israeliani, senza che questo cumulo di morti abbia cambiato di un millimetro la sostanza del problema o avvicinato una delle parti a una qualunque forma di vittoria. Questi precedenti, tale insopprimibile coazione a perpetuare l'uso delle armi qualunque sia il problema e qualunque siano le circostanze, dimostra che ciò che ora stanno facendo il premier Benjamin Netanyahu e i dirigenti di Hamas non ha nulla a che fare con la morte di Eyal, Gilad e Naftali, i tre studenti israeliani assassinati nei pressi di Hebron, né con quella di Mohammed, il ragazzo palestinese bruciato vivo a Gerusalemme. Anche perché dalla tragedia collettiva erano comunque emersi segnali del fatto che un altro modo, anzi, un altro mondo, era ed è possibile. Rachele Frenkel, mamma di Naftali, che aveva commosso tutti raccontando dalla tribuna dell'Onu il dramma suo e delle altre madri israeliane, aveva avuto un colloquio con i parenti di Mohammed, mostrando con la carne, il sangue e i sentimenti delle famiglie come la violenza distrugga il futuro e, alla fine, lasci solo essere umani sconfitti. Era un'occasione preziosa, da non perdere. Soprattutto per due popoli che la storia ha condannato a convivere. Soprattutto dopo un rapimento, quello dei ragazzi israeliani a Hebron, che con ogni evidenza era larisposta "a orologeria" cuna serie di eventi che, in ogni caso, avevano rimesso in movimento una situazione stagnante e una trattativa di pace ridotta a farsa: la visita di papa Francesco in Terra Santa, la preghiera di Shimon Peres e Abu Mazen in Vaticano, l'ipotesi di un governo unitario al Fatah-Hamas in Palestina. Eyal, Gilad, Naftali e Mohammed sono stati massacrati da chi voleva mandare all'aria qualunque prospettiva positiva. Da chi voleva che succedesse proprio ciò che sta succedendo: altri morti, altri rancori, altri muri. La politica mediorientale, ancora una volta, non è stata all'altezza della sfida e, per mere questioni di potere, ha rifiutato di leggere i segni dei tempi. Quelli che invece la signora Frenkel, nel suo dolore materno, aveva ben chiari agli occhi. Perché in certi casi ci vuol più coraggio a fare una telefonata che a muovere un esercito.

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