L' odio si sè di Simone Weil diventa 'amore per la verità' in un articolo di Marcello Veneziani
Testata: Informazione Corretta Data: 30 giugno 2014 Pagina: 22 Autore: Marcello Veneziani Titolo: «Simone Weil era l'ebreia più antisemita del mondo»
Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 30/06/2014, l'articolo di Marcello Veneziani dal titolo 'Simone Weil era l'ebrea più antisemita del mondo'. Il titolo dell'articolo coglie nel segno: Simone Weil fu davvero "l'ebrea più antisemita del mondo" . Aggiungiamo che il "culto" acritico di cui questa autrice è oggetto ci appare del tutto ingiustificato. Ragion per cui, se Veneziani si limitasse a ricordare che la Weil è autrice di pagine che possono essere legittimamente accostate a quelle dei peggiori antisemiti nazisti, non potremmo che approvarlo. Nell'articolo, però, c'è anche altro. Veneziani si chiede se le pagine antigiudaiche della Weil ora raccolte e pubblicate ne Il fardello dell'identità dalle edizioni Medusa, saranno ignorate o se da esse "scaturirà via via una serpeggiante emarginazione". Per concludere che "Simone Weil nel suo amore assoluto e spavaldo per la verità non ne sarebbe scalfita, tantomeno intimorita". Un modo di presentare l'odio di sè come una forma di coraggio, e di insinuare il sospetto che nelle tesi denigratorie di Simone Weil sulla religione ebraica vi fosse qualcosa di vero.
Di seguito, l'articolo:
Marcello Veneziani Simone Weil
Simone Weil è ormai da decenni una figura di culto, amata e citata da tanti con assoluta ammirazione per la sua vita e le sue opere. Ebrea, rivoluzionaria, operaia «volontaria» alla Renault, accorsa in Spagna a combattere con gli antifascisti, consacrata da noi con la pubblicazione da Adelphi delle sue opere e dei suoi quaderni, è oggetto di diffusa venerazione. Anch'io la considero da anni una luce e un riferimento prezioso. Ma ora giunge in libreria un testo che mette insieme le sue riflessioni sull'ebraismo e fa emergere quello che taluni chiamano l'antisemitismo di Simone Weil. Al cospetto delle sue pagine, sembrano innocue le polemiche che divisero Hannah Arendt, anch'ella ebrea, dal mondo ebraico. E i giudizi della Weil sugli ebrei e sullo sradicamento che avrebbero prodotto nel mondo fanno impallidire le vaghe e paludate allusioni a cui è stato «impiccato» Martin Heidegger. Ne Il fardello dell'identità, a cura di Roberto Peverelli (Medusa, pagg. 160, euro 16), troviamo giudizi tremendi. «La maledizione d'Israele - scrive - pesa sulla cristianità. Le atrocità, gli stermini di eretici e infedeli, era Israele. Il capitalismo, era Israele (e lo è ancora, in una certa misura). Il totalitarismo è Israele». E altrove precisa: «Gli ebrei, questo manipolo di sradicati, hanno causato lo sradicamento di tutto il globo terrestre... attraverso la menzogna del progresso. E l'Europa sradicata ha sradicato il resto del mondo con la conquista coloniale. Il capitalismo, il totalitarismo fanno parte di questa progressione nello sradicamento; gli antisemiti naturalmente propagano l'influenza giudaica. Gli ebrei sono il veleno dello sradicamento». Terribile, neanche i razzisti Baumler o Rosenberg si spinsero a tanto... Secondo Simone Weil la mostruosità della religione ebraica fu la pretesa di coniugare divinità e potenza. Mentre in Cristo come in Dioniso, in Osiride come in Zeus, c'è la passione, nel Dio ebraico c'è l'ebbrezza della potenza. «Difficile immaginare un Jahvè supplicante». Da qui la tesi che la storia d'Israele sia storia di massacri e ferocia, la storia di un'idolatria che ha il proprio esito «nell'idea detestabile del popolo eletto». In realtà, arriva a scrivere la Weil, Israele è il popolo eletto soltanto in quanto scelto da Dio per la nascita e la crocifissione di Gesù: «un popolo eletto per essere il carnefice del Cristo». Simone paragona Mosè a Maurras, il leader della destra francese, perché ambedue concepiscono la religione «come semplice strumento della grandezza patriottica». La Weil vede nell'ebraismo una miscela di fanatismo e di ateismo («un ebreo ateo è più ateo di tutti gli altri»), di religione come volontà di potenza, d'irreligione e culto del denaro. Simone Weil tiene a precisare che «niente certamente ho ereditato dalla religione ebraica» e aggiunge che «se c'è una tradizione religiosa che considero mio patrimonio, questa è senz'altro la tradizione cattolica. La tradizione cristiana, francese, ellenica, questa è la mia; la tradizione ebraica mi è estranea». E si spinge a sposare le proposte xenofobe e antisemite di un'organizzazione che pure fiancheggiava la Resistenza, l'Organisation Civile et Militaire, per adottare misure discriminatorie - per esempio impedire agli ebrei d'insegnare nelle scuole -, l'imposizione di un'educazione cristiana agli ebrei, l'eventuale privazione della nazionalità francese per gli ebrei più fanatici. Il tutto per lasciarsi alle spalle per sempre la matrice ebraica. A tale scopo Simone auspica pure l'incentivazione dei matrimoni misti per disperdere quell'origine. Le sciagurate leggi razziali in Italia furono poca cosa al confronto... Nel 1978 uno scrittore ebreo, Paul Giniewski, scrisse un durissimo pamphlet contro la Weil, accusandola d'ignoranza, odio e malevolenza verso gli ebrei. Arrivò a sostenere che la Weil si mostra indifferente al genocidio del popolo ebraico e per cancellarlo propone una forma di assimilazione, anzi di «arianizzazione». L'obbiettivo polemico è il suo testo L'enracinement, curato da Camus, che in Italia pubblicò l'ebreo Olivetti con la curatela dell'ebreo Franco Fortini (al secolo Lattes) e col titolo La prima radice. In quel libro straordinario Simone Weil difende la centralità delle radici e del dovere, dell'onore e dell'amor patrio, della fedeltà e della tradizione. Ma s'intravede in qualche suo passo quella polemica antigiudaica poi esplicitata in altri scritti, qui pubblicati, e in alcuni passi dei suoi Quaderni. C'è in Simone Weil il rigore assoluto della purezza e l'intransigenza di una cristallina aderenza alla Verità. Ma, come ogni purezza in nome della Verità Assoluta, c'è in lei un forte irrealismo che la spinge a pensare una specie di violenza metafisica nel nome del Bene. La vita è trascurabile cosa rispetto alla Verità. C'è però da dire che Simone Weil, morta nel '43, non seppe la verità atroce dei lager né dei gulag. E non fu mai indulgente verso il nazismo. E poi di quell'assoluta purezza la prima martire fu lei stessa, che sacrificò la vita al rigore del suo amore sovrumano, che rischiò di tradursi in disumano. La Weil patì il risvolto atroce di una santità intransigente e di una bontà spietata verso di sé. Del resto, non ebbe esitazioni, Simone, nel suo integralismo dell'onestà, a criticare aspramente il socialismo, il sindacalismo operaio e gli eccidi antifascisti in Spagna, dopo averne abbracciato la causa. Georges Bataille, che non amava il pensiero di Simone, riconosceva però che pochissime persone gli avevano suscitato interesse come lei. «La sua innegabile bruttezza faceva spavento», ma nascondeva «una bellezza autentica». «Riusciva seducente per un'autorevolezza dolcissima, e molto semplice; era certamente un essere ammirevole, asessuato, con qualcosa di nefasto. Nera sempre, neri i vestiti, i capelli come ali di corvo, la carnagione bruna. Era senza dubbio molto buona, ma nutrita da un pessimismo impavido e un coraggio estremo attratto dall'impossibile, aveva ben poco umorismo». In fondo, nota Bataille, si inflisse la morte per eccesso di rigore e per la sua «asprezza geniale». Chissà se di quelle pagine scabrose, del resto già note in frammenti dispersi, mai raccolte tutte insieme, si preferirà ignorare l'esistenza per continuare l'esercizio d'ammirazione verso Simone Weil o se ne scaturirà via via una serpeggiante emarginazione. Simone Weil nel suo amore assoluto e spavaldo per la verità non ne sarebbe scalfita, tantomeno intimorita.