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La Stampa Rassegna Stampa
29.06.2014 'Stato islamico': la minaccia a Giordania e Israele, la crisi umanitaria
Analisi di Maurizio Molinari, cronaca di Francesco Semprini

Testata: La Stampa
Data: 29 giugno 2014
Pagina: 11
Autore: Maurizio Molinari - Francesco Semprini
Titolo: «Giordania nel mirino. Israele teme il crollo. 'E' pronta a intervenire' - Deserto, ramadan e magliette mondiali. I sogni spezzati dei bimbi in fuga dall'Isis»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 29/06/2014, a pag. 11, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "Giordania nel mirino. Israele teme il crollo. 'E' pronta a intervenire' " e, a pagg. 11-12, l'articolo di Francesco Semprini dal titolo "Deserto, ramadan e magliette mondiali. I sogni spezzati dei bimbi in fuga dall'Isis".



Abu Bakr Al Baghdadi, capo dello 'Stato islamico'

Di seguito, l'articolo di Maurizio Molinari:


Maurizio Molinari

Il 95 per cento del confine siriano sul Golan è in mano ai ribelli islamici, nella città giordana di Maan si manifesta a favore dei jihadisti e il re hashemita Abdallah rafforza il dispiegamento di uomini a ridosso dell’Iraq: il fronte occidentale delle attività militari dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) è in pieno movimento e, secondo fonti Usa, potrebbe obbligare Amman a chiedere il sostegno militare di Israele. A descrivere i nuovi equilibri sul Golan è il tenente colonnello Anan Abbas, vicecomandante della brigata israeliana responsabile delle Alture, spiegando a Channel 10 che «circa il 95% del lato siriano è in mano ai ribelli islamici anti-Assad». Alle forze di Damasco resta solo il controllo della città di Quneitra e Israele dedica ingenti risorse per monitorare i progressi dei ribelli, la cui affiliazione varia da Al Nusra a Isis. Il rafforzamento di Isis in Siria, per l’Osservatorio siriano sui diritti umani di base a Londra, è una conseguenza della conquista di vaste aree in Iraq perché gli hanno consentito di impossessarsi di tank, blindati e jeep abbandonati dai soldati di Baghdad. Alcuni di questi armamenti sono stati già osservati in Siria, come le jeep Humvee di produzione americana usate da Isis ad Aleppo. Il controllo dei posti di confine fra Siria e Iraq facilita il trasferimento dei mezzi, rafforzando le capacità militari dei jihadisti guidati dal «Principe dei fedeli» Abu Bakr al Baghdadi. Ciò significa aumentare la pressione sulla Giordania perché dopo aver catturato la città irachena di frontiera Turayvil, Isis mostra più aggressività anche dentro il regno. A provarlo è quanto avviene da tre settimane a Maan, piccolo centro nel Sud con una notevole presenza di salafiti. Dallo scorso 2 giugno si svolgono manifestazioni con le bandiere nere di Isis e striscioni inneggianti a «Maan, Falluja giordana» contro «Satana, Dio degli sciiti». I canti ritmati «La nostra via è la Jihad» e «Sciiti, stiamo arrivando» descrivono una mobilitazione crescente da parte di manifestanti che neppure  celano i volti. A guidarli è Abu Mohammed al Maqdesi, 55 anni, ex studente islamico a Mosul e mentore di Abu Musab al Zarqawi fondatore nel 2004 di Al Qaeda in Iraq da cui nel 2013 è nata Isis. Per «Daily Beast» alti funzionari dell’amministrazione Obama hanno informato un ristretto gruppo di leader del Congresso Usa sui pericoli che incombono sulla Giordania, spiegando che «non è in grado di resistere da sola ad un’offensiva massiccia» e potrebbe, in caso di necessità, «chiedere aiuto a Israele e Stati Uniti». Per «Haaretz» Israele avrebbe già avvertito Washington che potrebbe «agire» per «salvare la Giordania dagli islamici».

Di seguito, l'articolo di Francesco Semprini:


Francesco Semprini

Ahmed indossa la maglia del Barcellona col nome di Messi, Rasheed quella dell’Inter di Palacio, mentre Samad porta quella del Chelsea targata Oscar. Lo vivono così il mondiale di calcio i bambini iracheni sfollati a causa dell’ultima offensiva jihadista, tenendosi stretti i loro beniamini, quasi a voler esorcizzare, complice l’innocenza fanciullesca, l’ennesimo dramma che la loro popolazione sta vivendo.
Siamo a Qasyar, zona a ridosso di Erbil, nel Kurdistan iracheno, dove è stato approntato a tempo di record il primo campo di accoglienza per le persone che fuggono dalla provincia di Ninive, dove diverse città sono cadute nelle mani delle milizie dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria. Quasi tremila persone si trovano qui, solo una parte dei 500 mila sfollati scappati dall’offensiva degli jihadisti del Califfato iniziata il 5 giugno, ma già tanti per questo campo che mostra diversi limiti. Qui l’Unicef e altre agenzie Onu, mettono a disposizione tende, acqua, vaccinazioni, generatori e cibo, ci sono anche Ong e il Programma alimentare mondiale, a far fronte a una realtà che cresce e si popola a vista d’occhio.
Dalle città cadute gli sfollati fanno rotta nelle zone blindate dai guerrieri Peshmerga, a nord verso Dahuk, ad est verso Erbil, ma anche a sud-est verso Kalan. Un certo numero appartiene alle minoranze turcomanne, cristiane e assire, ma ci sono anche sciiti: hanno il timore di repressione a sfondo etnico o settario. Tutti tentano di varcare il confine immaginario tra Iraq e Kurdistan. È una colonna di automobili, pick-up, camioncini, moto e persino trattori, c’è un po’ di tutto su quegli 88 km di fuga, costellata da posti di blocco Peshmerga. I volti sono coperti da passamontagna, hanno fucili d’assalto, giubbetti antiproiettile, dalle feritoie spuntano mitragliatrici pesanti. Non vogliono essere fotografati, la paura di attentati, blitz o ritorsioni da parte dell’Isis è molto forte. Sono diverse decine i Peshmerga che hanno perso la vita in meno di un mese, per difendere il loro territorio, ma anche per garantire sicurezza a una popolazione che nulla ha a che fare con i curdi. Lungo la strada le file per la benzina raggiungono anche i 500 metri, il prezzo è rimasto lo stesso, 300 dinari al litro, ma per il timore di un’esplosione del mercato nero c’è il razionamento, non si possono acquistare più di 30 litri a volta.
Dopo aver guidato per circa due ore, con tratti a passo d’uomo su un asfalto rovente per i quasi 40 gradi, arriviamo a Qasyar: sulla destra c’è la fila per la registrazione, tutti devono passare il controllo documenti. Alcuni proseguono per Erbil, diretti da parenti o amici, quelli più benestanti si riversano negli hotel, gli altri si fermano qui, nel campo. La trafila prevede un secondo controllo, quindi l’assegnazione di una tenda, o se non c’è, l’iscrizione in una lista di attesa. L’entrata del campo è controllata da guardie armate di Ak-47, ci sono poi gli uffici-container dei responsabili e quelli dei programmi umanitari. Camminando tra le file di tende, mentre mulinelli di sabbia si infilano in ogni interstizio, le famiglie ospiti ci guardano con diffidenza, sono i bambini a fare da ambasciatori, chiedendo di essere fotografati con le loro maglie da calcio. Un «mondiale» di colori e sorrisi che stridono con lo sfondo drammatico della fuga. Houd ci prende la mano e ci porta verso la tenda dove vive: le donne della sua famiglia preparano qualche dono frugale per il Ramadan che inizia oggi, mentre il fratello ci saluta: «Houd a settembre inizia la scuola - ci dice - speriamo di potercelo mandare». La loro famiglia è fuggita da Mosul: «Non c’era polizia, né esercito, non potevamo fare altro che andarcene, avevamo un negozio, chissà mai se lo ritroveremo». Il ritorno per adesso è fuori discussione: «Non c’è acqua né servizi, quella gente controlla ogni cosa, sono dei violenti affaristi». Non tutti la pensano così però, a microfoni spenti c’è chi dice che «non sono terroristi, ma mujahidin». «Chi l’ha detto che si starebbe peggio con loro? In fondo è colpa di chi ci governa se succede questo», dice un signore senza rivelare il nome, mentre indica le latrine sporche e i bambini che si lavano tra rigagnoli di fango. Le condizioni sono difficili nonostante gli enormi sforzi dell’Unicef e degli altri operatori, sia a causa delle lentezze gestionali dei funzionari preposti, sia per la totale assenza del governo centrale che, nonostante il diritto internazionale, non ha dato né un soldo, né un soldato per aiutare i suoi cittadini.
Marzio Babille è il responsabile Unicef per l’Iraq, conosce palmo a palmo questa regione dove opera con la sua instancabile squadra. È lui a spiegarci perché questa crisi è unica: «Perché è fatta di più fasi che si sviluppano con grande rapidità, nella mia vita professionale non ho mai vissuto una crisi così, con uno sfollamento massiccio che si muove continuamente». Per capirne il senso occorre tornare all’agosto scorso, quando 250 mila profughi siriani, attraverso il passo di Peshshklaborg, hanno trovato rifugio in 12 campi curdi. All’inizio dell’anno ha fatto seguito una seconda ondata, 400 mila iracheni, che da Anbar si sono diretti verso Nord ed Est, in fuga dalla repressione governativa contro le proteste sunnite per le pessime condizioni economico-politiche, e l’arrivo degli Isis dal valico di Al-Qaim. Infine la terza ondata causata dalla nuova offensiva Isis: «Siamo preoccupati per lo sfollamento delle minoranze etnico-religiose, spiazzate dall’offensiva dei guerriglieri», sottolinea Babille il quale dice che del milione di iracheni sfollati, il 48% non ha ancora 18 anni, e circa il 20% sono bambini sotto i cinque anni. «Lavoriamo per evitare che si perda un’intera generazione - prosegue -, per dare a questi bambini speranze di vita, tranquillità e istruzione». Bambini come Ahmed, Rasheed, Samad e Houd, che con i loro sorrisi e le maglie da calcio tentano di strappare il Ramadan dall’odio jihadista.

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