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La Stampa Rassegna Stampa
28.06.2014 Gli ebrei e la Germania: 'Un normalissimo ebreo' di Charles Lewinsky e 'I fratelli Oppermann' di Lion Feuchtwanger
recensiti da Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 28 giugno 2014
Pagina: 4
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Com'è fragile l'ebreo nella Berlino anni 30»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 28/06/2014, a pag. 4 dell'inserto TUTTOLIBRI, l'articolo di Elena Loewenthal dal titolo "Com'è fragile l'ebreo nella Berlino anni 30".


Elena Loewenthal


     

«Ecco. Ci siamo già. Un normale ebreo in Germania è come un normalissimo rinoceronte nero in Africa. Una contraddizione in termini. Siamo diventati troppo rari, noi rinoceronti. Ci hanno cacciato e abbattuto troppo a lungo. Siamo diventati un caso per gli animalisti. Per Greenpeace e per l’associazione per la cooperazione cristiano-giudaica. I rinoceronti si ammirano allo zoo, gli ebrei si invitano a lezione». Se tempo fa Hugh Nissenson si dedicava a L’elefante e la mia questione ebraica (tradotto nel 1991 in italiano dalla Giuntina), qui è Charles Lewinsky, autore della saga La fortuna dei Meyer (uscita da Einaudi nel 2007, con gran successo) ad attingere ancora una volta alla zoologia in una straordinaria riflessione sulla questione ebraico- tedesca in forma di monologo teatrale: Un normalissimo ebreo (Abendstern edizioni, con una prefazione di Vittorio Dan Segre). Emanuel Goldfarb è infatti un ebreo residuale, un giornalista tedesco cui ai nostri giorni viene cortesemente chiesto di intervenire di fronte a una classe di scuola, per raccontare qualcosa dell’«essere ebrei». Che sfida. Goldfarb ci ragiona su a lungo. Più che altro elucubra. Di fatto racconta l’inenarrabilità di questa condizione. Che più che un’identità è un nodo, irrisolto e doloroso. Queste pagine davvero straordinarie nella loro lucidità sono il perfetto contraltare a un grande romanzo che torna ora dopo tanto tempo, nella traduzione forse antiquata (e in parte rivista) ma certamente molto suggestiva di Ervino Porcar, con una interessante nota finale sui destini del libro in Italia e Germania a cura di Eileen Romano. Si tratta de I fratelli Oppermann, forse l’opus magnum di Lion Feuchtwanger. Uno scrittore che nel primo scorcio degli anni Trenta in Germania vendeva più copie del Mein Kampf: parola del nipote Edgar che lo menziona spesso nei suoi ricordi d’infanzia (Hitler, il mio vicino. Ricordi di un’infanzia ebrea, Rizzoli). Noto soprattutto per i suoi romanzi storici di ampio respiro, fra cui il famoso e famigerato – ma soprattutto tanto equivocato Süss l’ebreo che racconta la parabola di Joseph Oppenheim, banchiere e cortigiano del Settecento – Feuchtwanger (1884-1958) incarna meglio di chiunque altro il dramma di questa identità. E di questo dramma in cui, con grande lucidità, Feuchtwanger decide per l’esilio volontario già nel 1933, prima in Francia e poi negli Stati Uniti, I fratelli Oppermann sono il racconto più vero e diretto possibile, seppure in forma di romanzo. Non a caso il libro viene pubblicato in Germania nello stesso anno in cui il suo autore la abbandona. Nello stesso anno in cui si cominciano a bruciare i libri. Il 1933 è ancora lontano dal peggio, nel tempo e nelle alchimie della storia. Le leggi di Norimberga, che sono lo specchio dei nostrani provvedimenti per la difesa della razza che saranno emanati tre anni dopo di esse, arrivano «soltanto» nel 1935. E per la formulazione della soluzione finale sulla questione ebraica si dovrà aspettare il 1940, l’aria della guerra mondiale, l’idea inconcepibile dei campi di sterminio. Ma il 1933 è l’anno in cui la Germania si ritrova sotto il nazismo, tutto comincia a cambiare e la disperazione – per sé, per i destini del mondo – è solo questione di quanta lungimiranza si è disposti a investire nel pensare quel futuro. Sembrano peraltro averne poca a disposizione i protagonisti di questo romanzo, straordinario per la sua capacità di ritrarre insieme lo sconforto e l’illusione, il presentimento di un futuro prossimo e terribile e la tenacia nell’ignorare quel presentimento stesso. Gustav e Martin Oppermann sono due agiati fratelli berlinesi: la famiglia trova la sua base, sociale ed economica, in un mobilificio su scala quasi industriale. Intorno ai fratelli ruotano famiglie, amanti, conoscenti, figli. Come il piccolo Berthold, che sino a un anno prima «il bidello Mellenthin aveva salutato con grande devozione… Ora, vedendo uscire Berthold, si volse dall’altra parte». Con questo ed altro, ben altro, si dovranno confrontare in un crescendo di disorientamento, di inganni, svastiche brandite, rapporti di forza, rapporti non di forza che cambiano da un giorno all’altro. I fratelli Oppermann è un romanzo duro, aspro tanto nei contenuti quanto nei toni. C’è come una rabbia che soggiace ad ogni pagina, ed è una rabbia ancora vaga, senza confini ben precisi perché quella storia è ancora, purtroppo, tutta da farsi. E’ soprattutto un romanzo che, letto alla luce di quello che è successo, aiuta moltissimo a capire le contraddizioni dell’identità ebraica di oggi, quell’inguaribile e deleteria coscienza di essere dei sopravvissuti anche se si è nati molto dopo quella storia. E’ proprio nello specchio della distanza opposta fra oggi e quel passato di prima che il peggio arrivasse, in questo trovarci i fratelli Oppermann e noi, rispettivamente prima e dopo l’abisso, che si stabilisce una sorta di sutura mentale ed emotiva. E l’affresco storico di Feuchtwanger diventa indispensabile per fare i conti con se stessi, per provare a capire qualcosa di sé.

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