Barack Obama e il premeier iracheno Nouri Al Maliki
Dall’inizio della cosiddetta Primavera Araba l’America ha fatto una serie di errori che l’hanno allontanata dai suoi alleati tradizionali in Medio Oriente, perciò oggi non può che osservare passivamente quanto avviene nella regione. L’Iraq è un caso esemplare. L’ISIS (lo Stato Islamico in Iraq e Siria), l’organizzazione terroristica jihadista che controlla ormai considerevoli porzioni della Siria, ha fatto notevoli progressi in Iraq, ed è più vicina che mai a raggiungere l’obiettivo: la nascita di uno stato islamico nel bel mezzo del Medio Oriente. Apparentemente sorpresi di quanto stava accadendo, gli USA si sono ritrovati dalla stessa parte della Repubblica Islamica dell’Iran, nemico giurato da sempre. Ovviamente è deplorevole che nessuno degli stati arabi della regione sia in grado di sconfiggere un’organizzazione di poche migliaia di terroristi; d'altra parte sin dal secondo dopoguerra non hanno fatto altro che utilizzare tutte le risorse a disposizione in una guerra di logoramento contro Israele, convinti che la Russia sovietica e gli USA sarebbero intervenuti in loro sostegno in caso di necessità. E ora la più grande potenza mondiale oltre a non avere uno straccio di strategia per l’Iraq non ha nemmeno più alleati su cui contare. Solo ora Washington sembra aver capito la gravità della situazione. Il segretario di stato Kerry ha fatto il giro dei paesi arabi nel tentativo di radunare una coalizione disposta a intervenire in Siria e Iraq. Prima è volato al Cairo con una serie di promesse, fra cui quella di sbloccare la distribuzione degli elicotteri Apache di cui l’Egitto ha bisogno per combattere i jihadisti nel Sinai. Lo stop alla consegna degli elicotteri così come la sospensione degli aiuti militari erano mosse per “punire” il popolo egiziano e l’esercito che avevano osato rovesciare un “presidente democraticamente eletto”. Washington non ha ancora capito che per avere elezioni realmente democratiche in Medio Oriente non si può prescindere da una profonda evoluzione culturale che preveda il rispetto dei diritti individuali, l’uguaglianza di genere e maggiore tolleranza nei confronti delle minoranze. La pressione esterna non cambierà la situazione in Egitto. Kerry ha promesso di sbloccare gli aiuti militari, lasciando comunque intendere che l’Egitto debba ancora progredire sulla strada della democrazia. Questo non servirà a ricucire i rapporti perché i leader egiziani, così come la maggioranza dei cittadini, non hanno ancora dimenticato quella che considerano un’offesa immeritata, soprattutto perché dopo aver eliminato i Fratelli Musulmani si aspettavano applausi e aiuti dall’America. Pare che Washington abbia capito che l’Egitto è un alleato fondamentale per la stabilità della regione. Ma questi non sono semplici errori di politica estera. Washington è riuscita a offendere altri alleati di vecchia data come l’Arabia Saudita, cui era legata da un rapporto d’amicizia dal 1940. Riyadh non ha ancora digerito che gli USA abbiano negoziato in gran segreto con l’Iran sul programma nucleare. Per non parlare di quanto avvenuto in Siria, dove gli USA hanno si sono astenuti da qualsiasi decisione: oltre a non aver contribuito alla caduta di Assad, non hanno nemmeno fornito aiuto ai sunniti moderati che combattevano contro il dittatore, e così facendo hanno indirettamente contribuito all’ascesa dell’ISIS. Anche in Libia Washington ha le armi spuntate: dopo aver “guidato dalle retrovie” la campagna che ha portato alla caduta di Gheddafi, ha preferito starsene a guardare proprio mentre il paese precipita nel caos. È senz’altro vero che i paesi arabi non sono un fulgido esempio di democrazia e che la maggior parte degli abitanti della regione odiano l’Occidente e gli USA; ma una grande potenza deve agire secondo i propri interessi e non può permettersi di farsi cogliere da ingenui moralismi. Washington non può permettersi di intervenire in Iraq: richiederebbe uno sforzo enorme concentrarsi su un’area così vasta che va dalla Siria all’Iraq e agli Americani non va a genio l’idea di dover di nuovo affrontare la guerriglia. I costi in termini umani e materiali sarebbero enormi e non ci sarebbe nessun modo di portare sciiti e sunniti a un accordo. Gli Americani potrebbero anche puntellare il regime sciita a Baghdad perché si riprenda almeno temporaneamente, ma non possono garantire l’integrità territoriale del paese. Di recente Washington ha intimato a Baghdad di formare un governo di unità nazionale con i sunniti – il che equivale a curare una malattia terminale con un placebo. Sfortunatamente quello cui assistiamo è l’effetto delle irresponsabili scelte politiche compiute dopo l’invasione del 2003. Allora l’esercito iracheno venne sciolto e il potere politico, da tempo in mano sunnita, venne trasferito in mano degli sciiti, che presto adottarono misure discriminatorie contro i sunniti avvicinandosi all’Iran, nemico numero uno dell’Occidente. Di conseguenza i sunniti abbracciarono il terrorismo prima contro le truppe americane, poi contro la popolazione sciita, e alcuni si unirono ad al Qaeda. Obama ha ritirato le truppe dall’Iraq: se fossero rimaste più a lungo avrebbero potuto combattere realmente l’ISIS. Ma ha preferito tener fede a una decisione di Bush. D’altronde chi avrebbe potuto immaginare che una manciata di terroristi, per quanto preparati, sarebbero riusciti a metter in fuga un esercito composto da centinaia di migliaia di soldati addestrati da esperti americani ? Per quanto al Maliki sia da condannare per aver esagerato con i sunniti, sono stati gli USA nel 2003 a mettere i semi per l’attuale situazione. L’ISIS non è solo: nelle sue fila si sono unite tribù sunnite e beduine che in passato avevano combattuto con successo contro al Qaeda dopo essere state reclutate dagli USA. Per ora gli scontri non si sono ancora estesi a tutta la popolazione, non si può ancora parlare di guerra civile, ma il paese di fatto è ormai diviso. L’ISIS ha conquistato molti centri sunniti nella parte centrale e occidentale del paese. Incontrerà certamente una maggiore resistenza man mano che avanzerà in territorio sciita più a sud, ma al Maliki non ha le capacità né la forza di cacciare l’ISIS dai territori conquistati recentemente. Stiamo assistendo alla nascita di uno stato islamico militante nel cuore del Medio Oriente, un bastione del terrorismo da cui verranno pianificati e scagliati attacchi contro i paesi vicini e dove si formeranno jihadisti che verranno inviati in Europa e negli USA a compiere attentati terroristici. La disintegrazione dell’Impero Ottomano dopo la prima guerra mondiale lasciò sul terreno una serie di entità politiche artificiali, i cui confini tracciati a tavolino non tenevano conto della composizione etnica o tribale e costringevano quindi nemici di vecchia data a vivere fianco a fianco. Per via di quelle scelte ora tutti questi paesi sono vittima di instabilità e assenza totale di crescita economica. Siria, Somalia, Sudan, Siria, Iraq e Yemen – e aggiungerei anche il Libano – non hanno i mezzi per garantire sicurezza e servizi di base ai cittadini, che a volte decidono di unirsi alla guerriglia causando un enorme flusso di rifugiati. Si può ancora fare qualcosa per invertire la rotta? Ho molti dubbi in proposito. L’America ha preferito starsene alla finestra, e preferisce continuare a guardare da lontano il diffondersi di un caos che rappresenta una minaccia per l’Occidente.
Zvi Mazel è stato ambasciatore in Egitto, Romania e Svezia. Fa parte del Jerusalem Center fo Public Affairs. I suoi editoriali escono sul Jerusalem Post. Collabora con Informazione Corretta http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90