La memoria e la sfida
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
A destra, preghiera al Kotel per la liberazione di Naftali, Gilad ed Eyal
Passano i giorni, ormai sono quasi due settimane, non ci sono tracce dei tre ragazzi rapiti in Israele, ma la mobilitazione per il loro ritorno non si ferma. Non si è arrestata per Gilad Shalit durante quasi cinque anni, e certo se disgraziatamente questo sequestro dovesse andare avanti altrettanto a lungo, non cederebbe. Perché fra le caratteristiche del popolo ebraico c'è la solidarietà reciproca, anzi la “responsabilità di uno per l'altro”, secondo un detto molto citato, e soprattutto la memoria. Nella Bibbia si ricorda come, all'inizio dell'Esodo cioè della formazione del popolo ebraico, un oscuro brigante di nome Amalek diede l'assalto alla retroguardia del popolo uscito dall'Egitto, dove stavano i più deboli e i più stanchi. Ne venne fuori una lotta il cui racconto è ricordato solennemente ogni anno da tre millenni e passa. Allo stesso modo sono presenti ancora oggi nella memoria collettiva i mali e i beni, le oppressioni e gli aiuti del lunghissimo percorso storico di Israele: quel piccolo re locale che ospitò Abramo, quel ministro persiano che cercò di diventare più potente uccidendo tutti gli ebrei, la cacciata di Spagna e le stragi dei cosacchi, i Giusti che salvarono qualche vittima della Shoah e Carlo Alberto che decretò l'emancipazione... Uno storico potrebbe criticare questi processi di memoria in quanto unilaterali e non critici (e in effetti l'ha fatto Yosef Haim Yerushalmi in quel piccolo grande libro che è “Zakhor”). Ma si tratta di un modo di essere costitutivo, forse del metodo centrale dell'identità ebraica. Probabilmente anche di una delle motivazioni profonde che stanno alla base dell'antisemitismo, perché è molto più comoda e maneggevole una popolazione che dimentica, che non conserva ostinatamente la propria memoria.
Ricordare la propria identità, i propri costumi, le proprie leggi, i benefattori e i nemici vuol dire rifiutare di assumere i costumi maggioritari, ostinarsi a essere se stessi, non lasciarsi portare dall'onda del tempo, ma restare il più possibile stabili e integri in esso. Vuol dire anche ricordarsi di ogni singolo, sentirsi responsabili per lui, non tralasciare il possibile per salvare lui, o almeno la sua memoria. La Torah contiene una norma che permette alle vedove senza figli di sposare il fratello del loro ex marito per prolungarne il nome; il museo e centro di ricerca della Shoah di Gerusalemme si chiama con espressione biblica Yad Vashem, cioè “la mano” (che metaforicamente vale: monumento, lapide) “e il nome”, perché il suo compito è ancor più che insegnare quel che è accaduto, ricostruire il ricordo di quelli che sono stati uccisi e fatti sparire, uno a uno. Per questa stessa ragione l'ebraismo non consente, con pochissime eccezioni, di spostare le tombe, traslare le salme o accumularne i resti in ossari: la persona non dev'essere annullata in una folla neppure dopo le generazioni e i secoli.
Gilad Shalit
Tutto questo ha naturalmente un costo. La memoria è un investimento, uno sforzo, costituisce in un certo senso un debito. Israele ha pagato riscatti molto alti per le salme dei propri caduti sequestrati dai terroristi e riscatti ancora più alti per salvare i prigionieri, come Shalit. Poteva far scivolare queste vittime nell'oblio, ma non l'ha fatto. Sono molte le voci che hanno discusso il costo assurdo (mille terroristi condannati per un innocente rapito) sostenuto per liberare Gilad Shalit, soprattutto alla luce del fatto che i terroristi scarcerati hanno ripreso subito a fare il loro sporco lavoro e per esempio è uno di loro che è stato appena ricatturato come autore dell'agguato in cui un paio di mesi fa ha perso la vita un poliziotto fuori servizio che stava andando alla cena pasquale ( http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/182067# ) ; ma anche discutendo il numero e il modo nessuno ha negato il senso dell'operazione: non bisogna lasciarsi dietro nessuno, è intollerabile dimenticare qualcuno. Il problema è che questo tipo di memoria umanitaria è particolarmente vulnerabile, presta il fianco al ricatto. Ed è chiaro che i nemici fra cui rapitori dei tre ragazzi conoscono benissimo questa debolezza. Essi speculano su di essa, cercano di sfruttarla innanzitutto per ringalluzzirsi, come fa Hamas , fingendo di non sapere, ma compiacendosi del crimine e continuando a gloriarsene (http://alyaexpress-news.com/2014/06/le-chef-du-hamas-khaled-mashaal-benissez-ceux-qui-ont-kidnappe-les-trois-adolescents-israeliens/). Il che non è affatto diverso dal ridicolo atteggiamento minaccioso che si trova in tutte le manifestazioni simboliche del palestinismo, a partire dall'inno di Fatah, di cui vi prego di vedere il video, perché merita una bella risata liberatoria (https://www.youtube.com/watch?v=8t8QO-pTf-M). Ma soprattutto cercano – cercheranno se riusciranno a superare indenni le ricerche dell'esercito israeliano – di ottenere un altro riscatto, di liberare altri terroristi, che cercheranno di compiere altri attentati e rapimenti, secondo un ciclo destinato alla distruzione di Israele. La speranza è ovviamente che i ragazzi siano trovati presto, i rapitori catturati e puniti, la legalità ristabilita. Tutti gli sforzi vanno ora in questa direzione. Ma Israele deve prepararsi anche a resistere al ricatto e allo sfruttamento da parte del nemico della rersponsabilità che sente nei confronti dei suoi cittadini. Di qui la proposta di legge, già in discussione prima del rapimento, che limita il meccanismo della grazia presidenziale, usato finora per pagare il riscatto dei rapiti (e purtroppo, per una grave responsabilità americana, anche per il “biglietto di ingresso” alle “trattative di pace” esatto senza alcun costrutto dall'Autorità Palestinese).
E' un tema delicatissimo, che investe nel profondo la coscienza collettiva di Israele e del popolo ebraico. Che speriamo non si debba affrontare in pratica, anche perché il momento in Medio Oriente è estremamente pericoloso e confuso, in seguito ai gravi errori commessi dall'Amministrazione Obama. Israele è sola in mezo alla tempesta islamista, l'America rischia di scegliere rimedi peggiori del male (l'autorizzazione all'Iran a espandersi in Iraq “per combattere il terrorismo” farebbe del blocco Iran-Iraq-Siria una superpotenza per dimensioni e forza economica) e rifiuta anche di ammettere il macroscopico errore che ha fatto fidandosi dell'esercito iracheno, che vorrebbe ora ripetere nella valle del Giordano ( http://www.jpost.com/International/Pentagon-pushes-back-against-Israeli-critique-of-Iraq-360445 ). Per sopravvivere in un ambiente del genere non basta non essere deboili, non bisogna neppure apparire tali. Questa è oggi la sfida difficilissima cui deve far fronte lo stato ebraico.
Ugo Volli