Dalla Bibbia alla politica Commento di Federico Steinhaus
Testata: Informazione Corretta Data: 24 giugno 2014 Pagina: 1 Autore: Federico Steinhaus Titolo: «Dalla Bibbia alla politica»
Dalla Bibbia alla politica Commento di Federico Steinhaus
Federico Steinhaus
Berlino, Memoriale della Shoah, di Peter Eisenmann
"Se io non sono per me, chi è per me?” è un detto di Hillel il Vecchio, una delle più celebri Massime dei Padri, ripresa in tempi recenti da Primo Levi. Questa massima vale per tutti, ma in primo luogo per gli ebrei, che ancora oggi, malgrado le tragedie del secolo scorso, sanno di poter contare solamente su se stessi, che nessuno nel momento del bisogno estremo verrà loro in soccorso. Non è vittimismo, è una banale ed esemplare analisi della storia recente, che ricalca la storia più lontana nel tempo. Chi ha soccorso gli ebrei durante la Shoah ? Chi li ha soccorsi durante le Crociate o durante l’Inquisizione ? E chi dimostra empatia e solidarietà nei confronti di un Israele guerriero per necessità, che per sopravvivere come nazione deve continuamente dar prova della propria forza ? Ci siamo già dimenticati la seconda intifada, agli inizi di questo secolo, ed alla fine del secolo scorso l’aggressione di Saddam, che dimostrarono l’isolamento di Israele ? Ebbene, Israele ha deciso di fare di questa massima una bandiera, un simbolo destinato a cementare l’unità del popolo ebraico dentro e fuori da Israele. All’inizio di questo mese il governo israeliano ha deciso di investire 17 milioni di dollari in programmi destinati agli ebrei della Diaspora; se questi programmi avranno successo, dal 2016 Israele investirà ogni anno 116 milioni di dollari in attività destinate alla Diaspora. Sono cifre importanti, specialmente in un sistema economico che per espandersi deve rivolgersi alle imprese di nazioni lontane - quelle vicine sono in guerra contro Israele – e spesso corrose da molti anni di crisi profonda. Il senso politico di questa decisione è evidente: dare un maggior peso alla solidarietà del mondo ebraico diasporico nei confronti di Israele, rafforzandolo all’interno delle proprie molte patrie non sempre amichevoli, ma anche dargli uno slancio culturale e spirituale che ha perso a causa della Shoah. E’ vero, la Shoah è relativamente lontana nella nostra memoria e nelle nostre emozioni, ma essa continua ad avere ricadute significative anche oggi. Lo sterminio fisico della maggior parte degli ebrei d’Europa e l’emigrazione di una parte dei sopravvissuti ha cancellato duemila anni di cultura e di spiritualità, che gli ebrei europei non sono stati in grado di ricreare o ricostruire se non come ricordo. Prima della Shoah in Europa viveva il 70% almeno degli ebrei del mondo,qui si trovavano le principali infrastrutture culturali e religiose, qui erano nati il hassidismo, il sionismo, l’idea dell’emancipazione, una lingua colta e popolare al tempo stesso come lo yiddish. Tutto ciò era stato spazzato via in pochi anni. Il milione e mezzo di bambini uccisi dai nazisti avrebbe oggi circa ottant’anni, ed avrebbe generato figli e nipoti che ne avrebbero almeno quadruplicato il numero: 6 milioni di giovani, che mancano all’appello generazionale a causa della Shoah. Israele riconosce la propria responsabilità nell’onere di ricostituire non semplicemente una mutua solidarietà politica ma una reciproca comprensione. Come i giovani ebrei americani, anche quelli israeliani sanno poco della Shoah, a meno che non abbiano parenti da ricordare o sopravvissuti da ascoltare (sempre di meno, ovviamente); questa lacuna ha una rilevanza non secondaria, ma non è esclusiva nella creazione di una distanza fra lo Stato ebraico ed almeno una parte dell’ebraismo diasporico. Non si tratta, o non solo, di riempire piazze occidentali di bandiere e slogan quando Israele è sotto attacco, bensì di dare agli ebrei una consapevolezza che dalle radici storiche si proietti verso un futuro identitario. In tutto ciò non vi è solo il generoso slancio del fratello più forte verso quello più debole. Vi è anche l’idea di un ritorno meno spirituale e più prosaico. Aumenterà il turismo che porta valuta pregiata nelle casse dello Stato, aumenteranno investimenti in aziende israeliane ed offerte alle istituzioni caritatevoli, aumenterà l’immigrazione. E’ la contropartita di un progetto audace e lungimirante, che non ne svaluta il significato ma lo giustifica agli occhi del cittadino israeliano che vi contribuisce pagando le tasse.