Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 24/06/2014, a pag. 3, l'editoriale dal titolo "Il senso di Sisi per il pluralismo", dal CORRIERE della SERA, a pag. 14, l'articolo di Cecilia Zecchinelli dal titolo "Carcere ai reporter di Al Jazeera. L'Egitto mette il bavaglio ai media" e dalla STAMPA, a pag. 25, l'editoriale di Marco Bardazzi dal titolo "Sui giornalisti in carcere silenzio globale" .
Tutti i quotidiani di oggi condannano la sentenza egiziana come una violazione della libertà di informazione, senza mimimamente considerare la vera natura di Al Jazeera: una rete televisiva che è in realtà uno strumento politico del Qatar e un alleato dei Fratelli Musulmani, e ha svolto un ruolo fondamentale nel promuovere e organizzare le manifestazioni che hanno portato alla caduta dei regimi dittatoriali, ma laici, al potere nei paesi arabi. Promuovendo l'ascesa dei fondamentalisti islamici, dalla Tunsia all'Egitto. A motivo di questo ruolo politico, è inevitabile che Al Jazeera venga affrontata dai regimi che vorrebbe contribuire ad abbattere come una forza nemica e non come una qualsiasi testata giornalistica.
Tutto ciò è completamente ignorato nella cronaca di Cecilia Zecchinelli, che si conclude chiamando alla "lotta" per i giornalisti di Al Jazeera "le famiglie, gli attivisti, gli amici e i colleghi, i diplomatici presenti in aula e nel mondo", da Antonio Ferrari nell'editoriale dal titolo "La barbarie egiziana che colpisce tre cronisti", pubblicato a pagg. 1-38 del CORRIERE della SERA, nel quale la sentenza è definita "un'intimidazione collettiva" diretta contro i giornalisti, nella cronaca di Francesca Paci dal titolo "Egitto, 7 anni ai giornalisti "Hanno dato notizie false", pubblicata dalla STAMPA a pag. 13, che esordisce definendo l'Egitto un paese "non per giornalisti", e nell'editoriale di Marco Bardazzi che chiede l'intervento della comunità internazionale e denuncia quello che giudica un uso strumentale dell'accusa di "terrorismo" rivolta ai giornalisti di Al Jazeera. In realtà però, l'agenda politica di questa emittente è jihadista e comporta il sostegno, con le armi della propaganda, a gruppi e forze che sono terroristi o appoggiano il terrorismo. Hamas, per esempio, un gruppo terrorista anche per Stati Uniti e Unione Europea, è parte dei Fratelli Musulmani, che l'hanno sostenuto nel breve periodo in cui hanno governato l'Egitto.
Soltanto Il FOGLIO, nell'editoriale che riportiamo di seguito, si distingue dagli altri quotidiani, cogliendo la dimensione politca della vicenda.
Di seguito, gli articoli:
IL FOGLIO : "Il senso di Sisi per il pluralismo"
Bin Khalifa, emiro del Qatar, alleato dei Fratelli Musulmani
Mentre pronunciava la sentenza di condanna per cospirazione dei tre giornalisti di al Jazeera accusati di avere diffuso notizie false in combutta con la Fratellanza musulmana, il giudice Mohammed Nagi Shehata del tribunale del Cairo indossava gli occhiali da sole. Li ha tenuti per quasi tutto il processo, mentre gli avvocati dell’accusa presentavano come prove di colpevolezza le foto delle vacanze di uno dei giornalisti, un video (di Sky Arabia, non di al Jazeera) sui cavalli, un podcast della Bbc, il video musicale di un cantante pop australiano. Peter Greste, australiano, Mohamed Fadel Fahmy, con doppia cittadinanza canadese ed egiziana, e Baher Mohamed, egiziano, sono stati condannati a sette anni di detenzione, Mohamed ne ha avuti tre aggiuntivi perché al momento dell’arresto era in possesso di un proiettile già esploso raccolto come souvenir. In Egitto la stampa non può più permettersi di criticare il governo dell’ex capo dell’esercito Abdel Fattah al Sisi, appena eletto presidente con percentuali improbabili, e la durezza con cui Sisi ha colpito al Jazeera, bandita dall’Egitto, è solo il caso più evidente. Dalla caduta dell’ex presidente Mohammed Morsi un anno fa, il governo guidato da Sisi ha represso sistematicamente la libertà di parola, fatto sparire quattrocento dissidenti in un centro di detenzione illegale, gettato in prigione sedicimila prigionieri politici. Ma domenica, alla vigilia del verdetto, il segretario di stato americano John Kerry era al Cairo a rendere omaggio a Sisi. E’ la prima volta dal golpe militare, ed è il segno che l’America non solo è pronta a riconoscere, ma anche a sostenere il governo del generale. Il medio oriente frana, l’America ha bisogno di un alleato stabile, e Sisi non garantirà i diritti universali, ma la stabilità politica, quella sì. Washington ha sbloccato i quasi 500 milioni di dollari in aiuti militari che aveva congelato la scorsa estate, quando il governo soffocò (con 180 vittime) le proteste contro il golpe, e Kerry, che pure ieri ha blandamente condannato la sentenza del Cairo, ha promesso l’arrivo “presto, molto presto” di dieci nuovi elicotteri Apache.
CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli: "Carcere ai reporter di Al Jazeera. L'Egitto mette il bavaglio ai media"
Cecilia Zecchinelli
Tra le prove prodotte dall'accusa contro di loro una cartuccia usata raccolta per strada dopo una protesta e un video del cantante pop australiano Gotye: l'intero processo contro i tre giornalisti di Al Jazeera arrestati al Cairo in dicembre è stato una farsa. Le condanne di ieri sono state invece la prova che la Restaurazione imposta dal neopresidente Abdel Fattah AI Sisi non guarda in faccia a nessuno. Perché le sentenze contro i tre giornalisti detenuti e gli 11 riusciti a lasciare il Paese sono degne solo di una dittatura: dai 7 ai 10 anni per «diffusione di notizie false e lesive dell'immagine dell'Egitto» e «sostegno a un'organizzazione terrorista», i Fratelli Musulmani. Ma anche perché due dei condannati in cella, Peter Greste e Mohammed Fahmy, sono rispettivamente australiano e canadese; due dei reporter giudicati in contumacia, Sue Turton e Dominic Kane, sono del Regno Unito e una, Rena Netjes, è olandese. I giornalisti occidentali certo non contano più dei tanti colleghi egiziani in cella. Ma il verdetto di ieri, di chiara ispirazione politica, è importante perché mostra che al Cairo le relazioni con l'Occidente oggi importano poco. Eppure, dopo i tanti appelli dall'estero nei mesi scorsi, ieri il verdetto ha suscitato un'ondata di indignazione anche nei governi: il premier britannico Cameron ha convocato l'ambasciatore egiziano a Londra, la ministra degli Esteri australiana Julie Bishop («scioccata») ha fatto lo stesso, così come il suo omologo olandese, Frans Timmermans, che solleverà la questione al prossimo Consiglio Esteri Ue a Lussemburgo. Ma Al Sisi sa bene che al di là delle condanne verbali i governi occidentali raramente si spingono quando si tratta di diritti umani. Domenica l'amichevole visita del segretario di Stato Usa John Kerry ne è stata la prova. E il grande sponsor del generale-rais comunque è l'Arabia saudita, non democratica e arci nemica della Fratellanza, che certo ha gradito il verdetto di ieri. La storia di Peter Greste, Mohammad Fahmy (condannati a 7 anni) e Baher Mohammad (a 10 anni perché in possesso di «munizioni» ovvero della famosa cartuccia trovata per terra) si intreccia con la .politica egiziana e araba culminata nel colpo di Stato di Al Sisi, il 3 luglio 2013, contro il rais islamico Morsi. Poche ore dopo, gli uffici del Cairo di Al Jazeera erano stati chiusi, i giornalisti costretti a trasmettere dall'hotel Marriott di Zamalek, tanto che i media filo-regime li hanno soprannominati la «cellula Marriot ». La stretta sulla tv del Qatar era scontata: dalla sua nascita nel 1996 è sempre stata vicina alla Fratellanza e sempre ha avuto problemi con i governi arabi. Ma i veri guai per i suoi giornalisti erano arrivati in dicembre, quando il movimento islamico era stato dichiarato «terrorista». Subito dopo erano scattati gli arresti. Peter Greste, 48 anni e un curriculum alla Reuters e alla Bbc, era stato un mese in isolamento assoluto, con continui soprusi denunciati nelle lettere riuscite ad uscire dal carcere di Tora. Lo stesso era avvenuto al canadese Mohammed Fahmy, già alla Cnn e al New York Times, e a Baher Mohammed. Tutti e tre hanno sempre negato ogni affiliazione con la Fratellanza ed erano convinti che presto sarebbero stati liberati. Ieri, mentre il giudice leggeva la sentenza attraverso gli occhiali neri (Al Sisi li indossa spesso), Greste non ha reagito come in passato, ha abbassato la testa. Famhy dalla gabbia di ferro ha urlato qualcosa alla fidanzata ma c'era troppo frastuono. Poi sono stati portati via, lasciando a lottare per loro, quando supereranno lo choc, le famiglie, gli attivisti, gli amici e i colleghi, i diplomatici presenti in aula e nel mondo.
LA STAMPA - Marco Bardazzi: "Sui giornalisti in carcere silenzio globale"
Marco Bardazzi
«Terrorista». È diventata un’etichetta, facile da usare nel mondo post-11 settembre, difficile da togliersi di dosso per chi la subisce, devastante nelle conseguenze giudiziarie che si porta dietro. Ci sono governi che la usano sempre più spesso per liberarsi di un ostacolo fastidioso, una complicazione ritenuta inutile da ogni potere: la libertà di stampa. E ci sono altri governi, quelli dei Paesi che si definiscono democratici, che sembrano assuefatti all’abuso di quell’etichetta e non sanno più alzare la voce.
Sta accadendo in queste ore con l’Egitto, un Paese ormai lontano dalle speranze (e illusioni) della Primavera araba. Ieri una corte del Cairo ha condannato tre giornalisti di Al Jazeera a pene tra i 7 e i 10 anni per accuse previste dalla legge antiterrorismo. Cosa hanno fatto Peter Greste, ex giornalista della Bbc, Mohamed Fadel Fahmy, capo dell’ufficio del Cairo dell’emittente del Qatar ed ex reporter della Cnn, e Baher Mohamed, un «producer» egiziano? A detta dei giudici, hanno diffuso «notizie false» e favorito un’organizzazione terrorista, i Fratelli Musulmani. A detta degli osservatori indipendenti di tutto il mondo, stavano semplicemente facendo il loro lavoro, quando il 29 dicembre scorso sono stati prelevati dalle camere d’albergo e sbattuti in una prigione dove rischiano di restare per un decennio.
Niente di molto diverso dalla sorte toccata al giornalista etiope Eskinder Nega, condannato a 18 anni per «terrorismo» da un governo che non tollerava le sue inchieste scomode. Come lui e come i tre reporter di Al Jazeera, oltre la metà dei 211 giornalisti finiti in cella nel 2013 (dati del Committee to Protect Journalists) risultano essere stati accusati di aver messo «in pericolo» lo Stato. Di qui l’etichetta infamante: «Terroristi».
Che cosa sta facendo la comunità internazionale di fronte a questo attacco alla libertà di stampa globale (e quindi alla democrazia e al diritto di ciascuno di noi a essere informati)? Poco o niente. I giornalisti in carcere non indignano, non scaldano, non mobilitano le cancellerie. Soprattutto, sono scomodi.
John Kerry, il segretario di Stato americano, un giorno prima del verdetto del Cairo aveva incontrato il presidente egiziano el Sisi per perorare la causa dei tre di Al Jazeera. Gli Usa si aspettavano un gesto di buona volontà da un governo a cui hanno appena riaperto una ricca linea di credito. Invece, in meno di 24 ore è arrivata una sentenza che è uno schiaffo in faccia all’intromissione di Washington. Kerry si è indignato, l’ha definita una decisione «spaventosa», ha chiesto la grazia, ma in pratica ha incassato un’evidente umiliazione.
La Casa Bianca ha tuonato un po’, ma senza troppa enfasi. La Gran Bretagna ha convocato l’ambasciatore egiziano per spiegazioni, l’Australia si è detta sconvolta, l’Onu ha protestato. Ma la sensazione è che a dominare sia la «realpolitik» del momento, la necessità di non disturbare troppo Russia, Cina, i Paesi arabi e tutti i luoghi dove viene violata la libertà di stampa, perché in gioco ci sono altri interessi. C’è anche aria di rassegnazione, come se fossero evaporate tutte le speranze che Usa ed Europa avevano riposto in un futuro democratico per le «primavere».
Ma non si può sacrificare una libertà per quieto vivere diplomatico. È ora di affermare con chiarezza che il giornalismo non è terrorismo e che la libertà di stampa non si baratta con niente. Sarebbe bello che fosse proprio il governo italiano a segnare l’inversione di tendenza. Il caso di Peter, Mohamed e Baher è lì, davanti agli occhi di tutti: basta avere il coraggio di alzare la voce.
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