Una falsa accusa: 'coloni' ladri d'acqua la disinformazione di Roberta Zunini
Testata: Il Fatto Quotidiano Data: 23 giugno 2014 Pagina: 17 Autore: Roberta Zunini Titolo: «Un fiore di timo vince la guerra dell'acqua - Quando i militari decidono a chi aprire i rubinetti»
Riprendiamo dal FATTO QUOTIDIANO di oggi, 23/06/2014, a pagg. 17-18, gli articoli di Roberta Zunini dai titoli "Un fiore di timo vince la guerra dell'acqua" e "Quando i militari decidono a chi aprire i rubinetti". Vi si accusa Israele per la mancanza d'acqua nei campi degli agricoltori arabi. Il problema delle risorse idriche, legato al clima di Israele e alla necessità di una gestione attenta delle risorse, e non ad una volontà di privarne gli arabi, è spesso sfruttato dalla propaganda antisraeliana. Per fornire ai nostri lettori un approccio oggettivo al problema, riprendiamo l'articolo di Angelo Pezzana, pubblicato da IC lo 07/08/2009, dal titolo "La questione dell'acqua, numeri e dati", e l'articolo di Giuseppe Di Paola dal titolo "Israele e il problema dell'acqua", ripreso dal sito FRIENDSOFISRAEL.GO.ILCANNOCCHIALE.IT su IC del 19/07/2008
Impianto israeliano di desalinizzazione dell'acqua
Di seguito, gli articoli:
Il FATTO QUOTIDIANO - Roberta Zunini - Un fiore di timo vince la guerra dell'acqua
Il miracolo di un fiore di timo che sboccia nei Territori palestinesi, vale il doppio. Nonostante sia stato annaffiato con acqua nera, perché quella buona la possono usare solo i coloni di Ariel, l'insediamento vicino al campo di Ezdehar Mohammad Haj Al, nel villaggio cisgiordano di Jamain, provincia di Nablus. Ezdehar Mohammad Haj Al è una signora di 38 anni, invecchiata anzitempo, sposata e madre di 3 figli. La incontriamo in una giornata torrida e ventosa, con l'aria offuscata dalla terra sabbiosa che mulinella e ci finisce, a turno, negli occhi e nella gola. Con la differenza che loro non hanno gli occhiali da sole né una bottiglia d'acqua, grazie a cui io e la fotografa che mi accompagna ci ripuliamo la bocca dai granuli roventi. "L'acqua è troppo preziosa qui, la dobbiamo conservare per farla bere ai nostri bambini, lavarci, pulire i loro vestiti e cucinare oltre che per lavorare il timo", ci spiega Ezdehar, che sogna ancora di andare all'università per studiare psicologia e capire come funziona la coscienza degli esseri umani, "capaci di ogni forma di brutalità". Ma intanto, ogni mattina del mondo, del suo mondo ristretto a pochi chilometri, con le altre donne velate del villaggio, pie verso Allah trasfuso nel timo e nei frutti degli olivi che gli crescono accanto, va a scegliere le piantine migliori , per poi pulirle, essiccarle e quindi venderle al mercato, anche in forma di focaccine dal profumo squisito. Il timo cresce spontanentamente nei terreni aridi, soleggiati e sassosi, così come gli ulivi, ma, rispetto a queste piante nodose e centenarie, il timo ha bisogno di più acqua. Così come il pomodoro e il cetriolo, gli altri vegetali usati nella cucina palestinese. "Ma Israele mantiene il controllo su tutte le nostre risorse idriche sotterranee e superficiali. A noi palestinesi, in tutte le aree ( A, B, C, ndr) è permesso estrarre solo il 20 % del potenziale stimato della falda acquifera che si trova sotto i nostri piedi, a circa 40 metri di profondità mentre Israele ne estrae ben l'80%, ci dice con la voce roca di rabbia e un sorriso amaro stampato sul volto Malek Al-lam ( è un nome di fantasia perché l'uomo teme la ritorsione dei coloni vicini), ex agricoltore che vive a Wadi Fouki, l'ennesimo villaggio su cui incombe l'espansione quotidiana di un insediamento colonico. In questo caso, Betar Ellit. "Prima dell'occupazione io e la mia famiglia avevamo 20 ettari di terreno, ereditati dal mio trisnonno, tutti coltivati, negli anni sono scesi a 10, e ora, come vedi è una landa piena di erbacce, abbandonata. Non posso coltivare un terreno senza acqua. Gli israeliani della Joint water mi hanno negato i permessi per costruire i pozzi e quelli che già avevo me li hanno distrutti i soldati della Civil Administration perchè sostengono siano illegali. Anche se c'erano già prima che loro occupassero la nostra terra nel 1967, quando gestivamo noi la vena che scorre qua sotto". Ora l'agricoltore, all'età di 49 anni deve ricominciare da capo e cercarsi un altro lavoro per sostenere la famiglia composta dalla moglie e 4 figli, tra i quali due bambini di 6 e 8 anni. "Mia moglie si è ridotta a lavorare nelle piantagioni dei coloni finché non troverò un lavoro, dobbiamo pur far crescere i nostri bambini e mandarli all'università. Per questo ora sono disposto anche ad andare a fare lo spazzino a Betar Illit, come alcuni miei amici, ex agricoltori come me, hanno fatto. Non abbiamo alternativa. L'unica speranza per uscire da questo incubo è che i nostri figli studino e si affranchino, anche a costo di andare all'estero, ma se continua così non sarà facile". Camminiamo, pestando gli arbusti aguzzi, risultato dell'occupazione e del conseguente abbandono involontario dei campi di proprietà di tanti agricoltori. Perché i palestinesi sono, anzi erano, prevalentemente agricoltori, non latifondisti però, piuttosto contadini di piccoli appezzamenti ereditati a fatica nei secoli del dominio ottomano e quindi del mandato britannico. Dobbiamo tenere la suola dei sandali il più possibile parallela ai rovi che dobbiamo inevitabilmente schiacciare, come serpenti tentatori, per procedere verso il nulla. Verso l'abbandono progressivo della terra e della speranza di una vita dignitosa. Un puntino piccolo, poi sempre più grande, nella foschia dello zenith, prende a poco a poco le sembianze di Dror Etkes. Un professore ebreo israeliano che ha fondato l'Ong Kerem ( giardino in ebraico, ndr) Navot. Mi dà una stretta di mano forte, poi arriva subito al punto: "Da anni seguo da vicino la ripugnante violenza fisica e psicologica che i nostri governi hanno pianificato per costringere i palestinesi dei Territori ad abbandonare i loro campi, la loro terra, su cui volano come avvoltoi i coloni, pronti a scendere in picchiata per ghermirla. E sono sempre di più, perché anche loro, come i nostri ultraortodossi usano i figli come arma, l'arma demografica". Con la complicità del recente governo, che ha tra i suoi ministri più importanti l'ultranazionalista giovane miliardario Naftali Bennet che ha fatto il pieno di voti proprio tra i coloni. Bennet sostiene che l'area C debba essere annessa allo Stato israeliano. "Di fatto è come se lo fosse già - sottolinea Etkes mentre abbraccia Mohammad Mustafa, un altro ex agricoltore che ci ha appena raggiunti su quello che era il suo appezzamento di terreno - perché la guerra dell'acqua, in tutte le sue diaboliche declinazioni, è quella più efficace per costringere i palestinesi ad abbandonare le proprie terre, a diventare dipendenti dalle colonie ebraiche, che sono la causa principale dei loro problemi, e infine ad andarsene, se non fisicamente, perché l'amministrazione israeliana rifiuta loro non solo i permessi per scavare i pozzi, ma anche i permessi per spostarsi da una area all'altra dei Territori occupati, certamente mentalmente", conclude Etkes. La maggior parte dei civili palestinesi è disillusa e stanca delle finte promesse, dei processi di pace che, come ha scritto il grande scrittore israeliano Abraham Yeoshua - in lotta da sempre con i suoi colleghi Amos Oz e David Grosmann, contro l'occupazione e il regime di apartheid conclamatosi definitivamente con il recente secondo esecutivo Netanyahu - è diventato un guscio vuoto." Siamo stanchi al limite del collasso per questo camminare a vuoto, per questo ruotare sul posto senza un risultato, come criceti in gabbia, sono stufo di vedere i soldati israeliani che guardano indifferenti, e spesso complici, i coloni gettare la spazzatura e i loro liquami nei nostri campi, del loro sonno tanto pesante, quanto finto, che protegge gli squadroni dei coloni quando di notte escono dalle loro case, sorvegliate dai militari e da barriere con il filo spinato collegato alla corrente, per bruciarci i nostri raccolti", dice Mustafa con gli occhi pieni di lacrime. Da tre mesi lavora come cameriere in un bar di Ramallah, la capitale provvisoria dell'Autorità Nazionale Palestinese. Il sole è ancora accecante alle quattro del pomeriggio mentre beviamo tè alla menta per rinfrescarci dentro la casa di sua madre, a 40 chilometri da dove questo giovane uomo di 29 anni lavora. "Non so quando mi potrò sposare perché il mio lavoro è incerto e i miei campi sono irrecuperabili. Non ho avuto il permesso per scavare nuovi pozzi e quelli che c'erano sono diventati aridi". Alle cinque mettiamo la testa fuori dalle spesse mura che costituiscono di fatto la casa, con tre mobili, tre, della signora Jasmine, vedova perchè il marito è morto l'anno scorso d'infarto, un mattino all'alba, dopo aver visto tutto il suo raccolto carbonizzato dal fuoco dei coloni. Il sole è ancora caldo, sembra impossibile che prima o poi si spenga dietro la collina. I passanti sudati non vedono l'ora che arrivi la brezza fresca del crepuscolo, quando il deserto, che ci circonda, traspira e rovescia la temperatura fino a obbligare tutti a indossare il maglione di lana non appena arriva la notte.
Il FATTO QUOTIDIANO - Roberta Zunini - Quando i militari decidono a chi aprire i rubinetti
Il poco oro blu che scorre a vari metri di profondità sotto il terreno dei Territori palestinesi occupati, è da sempre ostaggio della politica israeliana, di ogni governo che si è alternato alla guida dello Stato ebraico, indifferentemente dal suo colore: bianco, rosso o nero. Sia i partiti di sinistra, sia quelli di centro, i conservatori cosi come i nazionalisti e gli utranazionalisti, che oggi siedono al governo di Gerusalemme, hanno usato l'acqua come un'arma per distruggere la vita degli abitanti dei Territori e piegare la loro lotta per ottenere uno Stato dove vivere da cittadini liberi e indipendenti. Ma dopo la firma del trattato di Oslo, vent'anni fa, la situazione è andata peggiorando anno dopo anno, come testimonia il lavoro di coraggiose e indipendenti Organizzazioni non governative israeliane. Che non hanno esitato e non esitano a denunciare i propri governi per la politica di sfruttamento volutamente intensivo delle risorse idriche dei Territori occupati a partire dalla fine della guerra dei Sei giorni, nel 1967. Dopo ml'uscita forzata dei coloni israeliani dalla striscia di Gaza, ordinata da Ariel Sharon nel 2005, la guerra dell'acqua, caldeggiata soprattutto dal-l'ultranazionalista ministro degli esteri israeliano, Avigdor Lieberman - alleato di ferro del premier conservatore Netanyahu - che peraltro vive nella colonia di Nokdim, si è concentrata in Cisgiordania (chiamata West Bank nei trattati di diritto internazionale). Una politica che ha contribuito all'aumento esponenziale della desertificazione dei cam pi palestinesi, quelli delle colonie invece hanno acqua in abbondanza. All'interno dei territori occupati, abitati da 2 milioni e mezzo di palestinesi e da 600mila coloni ebrei, anche l'acqua è stato ed è uno strumento dirimente nelle mani di Israele per sviluppare la logica dell'apartheid, soprattutto in quella zona che porta il nome di Area C. L'idrologo israeliano Youval Arbel dell'Organizzazione Non Governativa FoEme, sottolinea una distinzione cruciale per comprendere chiaramente la questione: "Il territorio occupato cisgiordano è suddiviso in tre zone: A, B, C. La C, la più vasta, con la maggior parte dei terreni agricoli, contiene tutti gli insediamenti israeliani, le strade di accesso utilizzate esclusivamente dai coloni, zone cuscinetto, e quasi tutta la Valle del Giordano e il deserto di Giudea". Dato che la C copre il 67 % della Cisgiordania ed è sotto il completo controllo dello Stato di Israele, è gioco forza per la maggior parte degli agricoltori palestinesi attendere il permesso delle autorità israeliane per scavare pozzi. "Ed è una procedura lunga, complessa e quasi sempre frustrante, poichè il permesso non viene quasi mai accordato, dato che la Joint Water Commitee, a cui gli agricoltori palestinesi si devono rivolgere, è costituita solo da due entità: il ministro dell'acqua israeliano e il suo omologo dell'Autorità Nazionale Palestinese, ma l'entità israeliana ha potere di veto. Non ci sono contrappesi pertanto". Nell'area C, proprio perché la più vasta e proprio perchè sotto il completo controllo di Israele , c'è un ulteriore passo da compiere per poter scavare un pozzo o connettersi a un acquedotto: avere il permesso della Israeli Civil Administration. "La Israeli Civil Administration è l'osso più duro della trafila perché è composta esclusivamente da membri dell'esercito: dal soldato semplice, che ha il compito di andare a distruggere i pozzi e gli allacciamenti illegali (molti agricoltori palestinesi hanno cercato di bypassare il rifiuto dell'Ica irrigando i campi attraverso collegamenti di fortuna alle condutture delle colonie ebraiche vicine) fino agli ufficiali più alti in grado". Soldati, senza competenze in materia, hanno dunque l'ultima parola sui permessi che determinano non solo la sussistenza di intere famiglie che vivono di ciò che raccolgono nei propri campi, ma anche sulla salute di tutti i cittadini palestinesi perché i permessi, quando vengono concessi, riguardano solo pozzi non più profondi di trenta metri. Solo i coloni possono scavare fino a 50 per trovare l'acqua pulita, non contaminata dalle fogne a cielo aperto che impestano la Palestina sotto occupazione. FoEme, il cui nome è l'acronimo in inglese di "Amici della terra mediorientale", ha sede in tre città: Tel Aviv, in Israele; Betlemme in Cisgiordania; Amman in Giordania. "Il nostro obiettivo è la protezione dell'ambiente che coinvolge queste tre Nazioni confinanti. Anche se la Palestina non è ancora una Nazione riconosciuta dall'Onu, noi speriamo lo sarà presto. Nel frattempo i palestinesi devono affrontare una realtà sempre più difficile. Uno dei principali problemi è la mancanza d'acqua, l'elemento fondamentale per la sopravvivenza", ribadisce Arbel. Sul sito dell'organizzazione si possono vedere video che testimoniano le difficoltà quotidiane anche delle madri di famiglia che non hanno l'acqua per preparare il cibo e lavare i panni dei propri figli, costrette a comprarla in bottiglia dalla Mekorot, la società pubblica israeliana dell'acqua, che gestisce l'oro blu palestinese. Del resto, si sa, le cose più sono preziose, più costano. Anche quelle che per il diritto internazionale sono considerate beni comuni, diritti non negoziabili dell'essere umano. Ma non per i palestinesi.
INFORMAZIONE CORRETTA - Angelo Pezzana -La questione dell'acqua, numeri e dati
Sui giornali che attaccano Israele per partito preso l'argomento "acqua" è uno dei più ricorrenti. Spiegarlo comporta una conoscenza tecnica, mentre il commento è sufficiente che sia politico-demagogico per soddisfare l'ideologia che guida il giornale. L'impressione che ne trae il lettore è che in Israele i rubinetti sono sempre aperti, a danno degli arabi che vengono presentati nella veste dei derubati. Lo scrivono molte testate, chi segue informazione corretta lo sa, mentre fra le agenzie, come sempre, in testa troviamo l'Ansa.
Questa disinvoltura nel raccontare come stanno esattamente le cose, non è solo italiana. La BBC, è forse la televisione che in Europa mai perde occasione di presentare lo Stato ebraico nella luce peggiore, quando entra in scena un' inchiesta sull'acqua, per la "prestigiosa" emittente inglese è come andare a nozze. Recentemente ha trasmesso un servizio dal quale risulterebbe che nella Cisgiordania e a Gaza il consumo di acqua da parte degli israeliani è quattro volte superiore di quello dei palestinesi, dato preso da una indagine del World Bank Report. Perchè è così che funziona la catena di trasmissione della disinformazione. La World Bank pubblica un rapporto, superficiale, che non analizza le cause, citando unicamente fonti palestinesi, la BBC lo riprende, ed essendo, appunto, "prestigiosa", la notizia finisce sui nostri media come se fosse lampante verità. Le cose non stanno così. Lo ha rivelato, fornendo numeri e dati, il colonnello Amnon Cohen, capo dipartimento delle infrastrutture civili, definendo "scorrette e prive di base" le notizie diffuse dal rapporto. C'è da dire che insieme alla Cisgiordania, il rapporto della World Bank metteva anche Gaza, dove,non essendoci nessun israeliano nella Striscia, fa capisce bene quanto accuratamente lavori la banca mondiale quando di mezzo c'è Israele. Ma torniamo alle cifre, che dimostrano come Israele abbia creato infrastrutture e management che si occuppano della gestione degli acquedotti, mentre il livello di impegno dell'Autorità palestinese è paragonabile, per mancanza di scelte decisionali, a quelle di un paese del terzo mondo. Nel 2007, ha dichiarato Cohen rispondendo alla denuncia della World Bank,ricevevano 47 milioni di metri cubi di acqua, nel 2008 più di 52 milioni. Ha poi aggiunto che un anno fa l'Autorità palestinese ha avuto in uso un terreno sulla costa mediterranea vicino alla città di Hadera per costruirvi un impianto di desalinizzazione dell'acqua, il quale, se in funzione, potrebbe fornire 100 milioni di metri cubi di acqua potabile all'anno.Ma per l'Anp è rimasto un progetto sulla carta, molto meglio restare come sono per poter accusare Israele. Dove invece l'uso dell'acqua è governato da leggi severe per impedirne lo spreco, e per chi non le segue ci sono multe... salate. Ma tutto questo sembra non interessare ai palestinesi. Se queste informazioni venissero diffuse, la questione acqua assumerebbe tutt'altro aspetto. Sarà per questo che non lo sono.
Angelo Pezzana
INFORMAZIONE CORRETTA - FRIENDSOFISRAEL - Giuseppe Di Paola - Israele e il problema dell'acqua
In Medioriente è l'acqua che fa scoppiare le guerre, non solo il petrolio. Nel 1965 i siriani tentarono di deviare il flusso d’acqua del Giordano facendo mancare una parte delle risorse idriche ad Israele. Potrebbe essere stato un casus belli per la guerra dei sei giorni? Lo fu eccome. La Turchia ha costruito una gigantesca diga per bloccare gli affluenti dei fiumi Tigri ed Eufrate il cui volume d’acqua è diminuito sensibilmente, lasciando gli iracheni all’asciutto. Ovviamente nessuna protesta nei confronti della Turchia. Anche fra Turchia e Siria è contenzioso sull'acqua. La Turchia fornisce alla Siria 500 metri cubi al secondo, la Siria ne pretende di più. Fra Messico e Stati Uniti vi sono frizioni a causa dell'acqua, e pure fra India e Bangladesh per il controllo del Gange. Sentiamo proteste? Ovviamente no. Si protesta solo per Israele che secondo i media è "predatrice" d'acqua nei confronti dei poveri palestinesi e di alcuni paesi arabi confinanti. Tutto è utile e lecito per demonizzare lo Stato Ebraico: qualsiasi pretesto è buono per muovere campagne denigratorie e accusatorie nei confronti di Israele. La realtà è completamente diversa. Israele ha investito in potenti impianti di desalinizzazione dell’acqua marina situati ad Eilat (Mar Rosso) e ad Ashkelon (Mar Mediterraneo). L’impianto di Eilat fornisce ben 27.000 metri cubi al giorno di acqua desalinizzata. L'impianto di Ashkelon produce oggi 320.000 metri cubi di acqua pura al giorno e ha ricevuto il Global Water Award nel 2006 quando, dopo solo un anno dall'inizio del progetto, ha desalinizzato con successo 100 milioni di metri cubi di acqua. Solo l’impianto di Ashkelon soddisfa ben il 13 per cento del fabbisogno nazionale. In Israele la ricerca tecnologica idrica è fra le migliori al mondo. Esistono centri di studio (denominati “incubatori”) per sviluppare nuove idee e tecnologie per far fronte al fabbisogno idrico. Il quale è sempre maggiore a causa della demografia crescente, dello sviluppo industriale e del clima della regione che permette coltivazioni di tipo mediterraneo solo grazie ad un’ingente quantità d’acqua per le irrigazioni. Ad Israele si deve la nascita e la creazione del sistema d’irrigazione a microgoccia, che fa risparmiare tantissima acqua e permette coltivazioni di parecchi tipi di prodotti (La CEO Netafim, leader mondiale dell'irrigazione goccia a goccia, e' stata progettata nel lontano 1965 nel kibbuz Hatzerim e oggi il sistema israeliano Netafim è usato in tutto il mondo). Insomma il fabbisogno israeliano d’acqua viene soddisfatto dalle falde acquifere e dal lago Kinneret (Tiberiade) ma anche dall’inventiva e creatività delle quali gli ebrei pare non siano proprio sprovvisti. Per tornare al fantomatico “ladrocinio d’acqua” che Israele commetterebbe nei confronti dei palestinesi, in base agli accordi di Oslo Israele rende disponibili ai palestinesi della Cisgiordania 50 milioni di metri cubi d’acqua l’anno, invece dei 40 stipulati nell’accordo. L’ottanta per cento del fabbisogno idrico della Cisgiordania proviene dalla società israeliana Mekorot, nonostante gli agricoltori israeliani abbiano dovuto subire una riduzione a causa della siccità. Ovviamente nei media occidentali e arabi non trova spazio la notizia che circa il quaranta per cento di questa fornitura viene rubata dai palestinesi delle zone agricole di Hebron e Bethlem. Parlando di storia, anche le accuse mosse ad Israele di aver deviato il corso del Giordano a spese delle nazioni confinanti sono assolutamente false. E’ se mai vero il contrario; già nel 1964 (e quindi prima della guerra dei sei giorni) la Lega Araba progettò di deviare l'Hashbani (affluente del fiume Giordano) all'interno del Libano, incanalandone le acque in eccesso verso il Banias (altro affluente) in Siria, nonché di deviare le acque del Banias verso lo Yarmuk a vantaggio della Giordania. Vi furono persino scontri militari fra siriani ed israeliani dopo la conferenza d’Alessandria nel 1964, giacché fu affidato all’Egitto il comando militare per mettere in atto il piano della Lega Araba senza ostacoli. Dopo la vittoria della guerra dei sei giorni dove Israele fu attaccato proprio da Siria e Giordania, furono trovati accomodamenti sulla spartizione idrica con la Giordania, che espresse il desiderio di riconoscere lo stato Ebraico sino alla sottoscrizione, il 26 luglio 1994, del vero e proprio trattato di pace tra i due Stati (con il quale le due nazioni hanno deciso la riallocazione delle acque dei fiumi Yarmuk e Giordano). La Siria invece perse le alture del Golan, posizione strategicamente importante per Israele e da dove, non dimentichiamo, venivano lanciati missili sul nord del paese. Il Golan è il punto di confluenza di circa 1/3 delle risorse idriche israeliane. Senza un trattato di pace e cooperazione con la Siria, restituire le alture del Golan sarebbe assolutamente pericoloso per la sopravvivenza dello stato Ebraico ma anche per quella del futuro stato Palestinese. Queste difficoltà e parecchie dispute sulla spartizione dell’acqua potrebbero essere risolte diplomaticamente, ma solo con la precisa volontà degli stati arabi di non continuare la loro politica di aggressione verso Israele. Riconoscere lo stato Ebraico, sedersi ad un tavolo di trattative e cooperare per la soluzione anche di questo aspetto sarebbe foriero di nuove possibilità e soluzioni per tutto il Medioriente, che nei prossimi decenni vedrà diminuire le proprie risorse idriche. Del resto più volte Israele ha dimostrato la volontà di giungere ad accordi di pace, sarebbe il momento che anche i suoi vicini di casa dimostrassero la stessa volontà e, perchè no, farsi anche aiutare dall’inventiva e dal genio israeliano per poter amministrare e gestire meglio il prezioso liquido. Giuseppe Di Paola
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