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La Stampa Rassegna Stampa
22.06.2014 Amos Gitai gira un film tratto da un racconto di Appelfeld, incrociamo le dita
Alain Elkann intervista il regista

Testata: La Stampa
Data: 22 giugno 2014
Pagina: 20
Autore: Alain Elkann
Titolo: «Israele deve trovare un senso oltre la Shoah»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 22/06/2014, a pag.20, con il titolo "Israele deve trovare un senso oltre la Shoah", l'intervista di Alain Elkann a Amos Gitai.
Il regista/scrittore israeliano gira un film tratto da un racconto di Aharon Appelfed, uno dei più grandi  scrittori in Israele. La notizia ci turba alquanto, conoscendo l'opera narrativa e cinematografica di Gitai, il risultato sarà probabilmente una distruzione del testo di Appelfeld: un film noioso, mal girato, come i precedenti, tutti premiati fuori da Israele perchè tutti pieni di astio verso lo Stato ebraico e le sue istituzioni, Tsahal per prima.
Vorremmo essere smentiti, ma dubitiamo che avverrà..


Alain Elkann           Amos Gitai          Aharon Appelfeld

Incontro Amos Gitai a Londra insieme alla moglie Rivka: sta per partire per Edimburgo, dove è presidente della giuria del Festival del Cinema. II suo nuovo film «Tzili», tratto dal racconto di Aharon Appelfeld, è in post produzione. È stato difficiletrasportare il testo di Appelfeld al cinema? «L'adattamento di un testo letterario per il cinema non è una faccenda così ovvia, un buon testo non ha bisogno di un film. Quindi, se si decide di farlo, occorre trovare i parametri che permettano al cinema di dialogare con la letteratura come due mezzi autonomi. Appelfeld, come in tutta la sua opera, qui indaga nella sua memoria. Scrive il testo in ebraico perché, ha spiegato, non poteva scrivere opere letterarie in tedesco, la lingua degli assassini di sua madre». Perché allora il film è girato in yiddish e non in ebraico? «L'ebraico era la lingua che rimarginava le ferite. Ma quando mi stavo accingendo a girare il film mi sono chiesto quali lingue si parlavano davvero in quella parte della Galizia orientale. Gli ebrei parlavano lo yiddish e non l'ebraico e i non ebrei parlavano le lingue locali come l'ucraino, il polacco, il rumeno, il tedesco. Girando il film mi sono appassionato allo yiddish, a questa specie in via d'estinzione dell'eredità ebraica della Diaspora». Lei parla yiddish? «Non lo parlo correntemente, ma dirigere il film mi ha riportato dei ricordi». Ricordi di che cosa? «Conversazioni dei miei genitori con i loro amici nei piccoli caffè di Haifa, la mia città natale. All'epoca la gente si vestiva all'europea, anche nell'estate israeliana. Quella lingua a me, bambino, sembrava piena di brio. E poiché il cinema è un modo di memorizzare, ho voluto riportare in auge lo yiddish». Con l'assenso diAppelfeld? «Si, gli ho detto che volevo girare il film in yiddish e lui era curioso». Di che parla la storia? «E la storia di una giovane donna un po' ritardata che viene lasciata dalla sua famiglia a fare la guardia alla casa mentre tutti i ragazzi intelligenti scappano, ma saranno presi uno dopo l'altro e fucilati. Tzili invece si nasconde nella foresta, sul fronte. E deve procacciarsi il cibo, tutto ciò che può trovare in natura per sopravvivere». È una metafora del destino di Appelfeld? «Assolutamente si, Tzili è un'incarnazione femminile dello stesso Appelfeld. Dopo che sua madre fu fucilata e suo padre scomparve, fu salvato da ladri e prostitute fino a che un giorno la guerra fini. E la grandezza dei libri di Appelfeld è che non strumentalizza l'Olocausto come alcuni grandi scrittori, descrive i fatti quotidiani lasciando che il lettore tragga le conclusioni. Questo è particolarmente raro in un momento in cui l'Olocausto è diventato uno strumento politico tanto importante». È la prima volta che fa un film sull'Olocausto? «In modo indiretto l'Olocausto era presente in molti dei miei film, come "Berlin-Jerusalem", "Kedma", e "Plus Tard", con Jeanne Moreau». L'antisemitismo in forme diverse sembra ancora molto vivo nel mondo. «Per essere giusto verso Appelfeld e in segno di rispetto per le vittime dell'Olocausto bisogna vedere le cose in prospettiva. Le Pen può sproloquiare finché vuole, ma il Terzo Reich non sta ancora marciando sugli Champs-Elysées. Se banalizziamo la memoria dell'Olocausto, questo perderà il suo terrificante ed eccezionale posto nella storia umana. Recentemente mia moglie Rivka ed io abbiamo lavorato agli archivi di mio padre, un architetto che si era formato nella Bauhaus di Dessau con Mies Van Der Rohe e Kandinsky. Nel settembre 1941, quando era già in Palestina da alcuni anni, un amico di un kibbutz gli chiese di fare i primi disegni di ciò che poi è diventato il memoriale Yad Vashem dell'Olocausto. È sorprendente perché l'Olocausto non era ancora di pubblico dominio né ne era nota l'enormità». I sopravvissuti si sentivano straniati anche in Israele? «II fatto che Appelfeld, che è sopravvissuto all'Olocausto, scriva i suoi libri in ebraico significa che ha voluto contribuire al progetto di creazione di questa nuova identità: qualcosa dev'essere dimenticato per generare energia ed entusiasmo, anche per costruire qualcosa di nuovo. Queste persone hanno fatto sforzi eroici per dimenticare e non solo per ricordare, per riuscire ad andare avanti». Per andare avanti lei intende lo Stato di Israele. Ma purtroppo Israele è costantemente minacciato e il Medio Oriente continua a essere un bagno di sangue. Che ne pensa? «Gli israeliani devono trovare altri significati, l'Olocausto non può essere l'unica "ragione di esistere". Dobbiamo trovare un altro senso anche nella ferocia del Medio Oriente. Dobbiamo cercare di fare la pace e coesistere». La ragione però non sembra in grado di risolvere questi conflitti «Ecco perché dobbiamo introdurre idee. Anche le idee hanno una loro forza, non solo la cupidigia e le mitragliatrici».

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