L’inizio di qualcosa di bello Lizzie Doron
Traduzione di Anna Linda Callow
Giuntina euro 15
In una strada abitano i sopravvissuti di Auschwitz, in un’altra gli scampati a Dachau e in un’altra ancora i partigiani. Sono tutte piccole palazzine biancastre, a due piani, con dentro due stanze e un salottino e davanti un piccolo giardino. I padri sono pochi, vulnerabili, deboli. Le madri molte, determinate, forti. E i figli delle diverse famiglie crescono uniti, sentendosi parte di un tutt’uno. Questo è Bitzaron, il quartiere a Sud di Tel Aviv che in coincidenza con la nascita del giovane Stato, nel 1948, si trasforma in un luogo dove i sopravvissuti alla Shoah si ritrovano, vivono assieme, parlano yiddish e non in ebraico, ricordano tra loro ciò che hanno passato, tenendo fuori tutti gli altri. «Era come in un vecchio ghetto»ricorda Lizzie Doron, figlia di sopravvissuti allo sterminio e autrice di cinque libri frutto proprio della gioventù passata a Bitzaron. L’inizio di qualcosa di bello è in uscita per la Giuntina e per comprenderne la genesi ci sediamo nella cucina di casa Doron, in un grattacielo poco distante dall’ateneo di Tel Aviv. Ci troviamo attorno ai «matzabrei», frittelle di azzime, che Lizzie ripassa nell’uovo tornando con la memoria a Bitzaron. «Gli uomini erano pochi e deboli, segnati dalle sofferenze subite e fiaccati dalla difficoltà di rappresentare l’ebreo diasporico che non aveva combattuto in una società israeliana tutta proiettata sul mito dei combattenti sionisti, eroici e forti» ricorda, spiegando lei stessa, che non ha mai conosciuto il padre, arrivò «a mentire sulla biografia paterna, dicendo che era morto nella guerra di Indipendenza», per non dover ammettere che era stato ucciso dalla tubercolosi dopo l’arrivo dai campi di Cipro.
Le donne invece «erano più forti, erano loro a educare i figli, portarli a scuola , a fare ginnastica o disegno». Alcune avevano perso i figli nei Lager, volevano sentirsi responsabili di qualcuno e adottavano i figli di altri. Il risultato è che «noi bambini di Bitzaron ci sentivamo tutti fratelli e sorelle». Nel gruppo di Lizzie «eravamo in 41, andavamo spesso fuori assieme, fuggivamo dalla depressione, inseguivamo il sogno di avere un futuro migliore, di andare in kibbutz o sotto le armi per diventare israeliani», ovvero l’esatto opposto dei deportati. Con il 1967 e la vittoria della Guerra dei Sei Giorni «provammo tutti un senso di potenza, i nostri parenti erano degli sconfitti ma noi eravamo dei vincitori, furono i giorni più felici di Israele, anche se era un mito». Quando la mattina bisognava andare a scuola, la madre di Lizzie preferiva affidarla a un guidatore di bus ex deportato, «perché sa cosa significa perdere una persona», e a scuola gli studenti chiamavano le insegnanti non per nome ma con il numero tatuato sul braccio. Durante la pausa o nel doposcuola le madri portavano di tutto ai figli: succhi di frutta, dolci, pillole contro ogni tipo di malanno. «Sapevamo di essere molto importanti per loro, perché molti dei nostri genitori avevano perso le famiglie precedenti, altri figli».
«La sensazione era quella di essere schiacciati dall’affetto dei genitori».dice Doron. «Andammo poi tutti in kibbutz o sotto le armi, nelle unità combattenti». Quindi arrivò la guerra del Kippur nel 1973, con l’attacco a sorpresa degli eserciti arabi e il pesante bilancio di perdite per lo Stato ebraico.
«Fu un trauma, perdemmo sette dei nostri 41, tutti caduti nella fase iniziale, fino ad allora avevo creduto che Israele avrebbe sempre vinto, ma cambiò tutto, lasciai il kibbutz nel Golan e tornai nel quartiere e nella casa di mia madre».
Quando Lizzie apre la porta, la madre è immobile nel buio, in salotto, davanti a un televisore rotto.
«Mamma, cosa è successo?». La risposta è gelida: «L’ho rotta io, ho sentito il tuo capo del governo dire che abbiamo sconfitto gli arabi e che hanno subito molte perdite, ma io conosco la guerra e so in guerra tutti hanno delle perdite». Lizzie sa dei sette caduti ma si chiude nella sua stanza, non ne parla con nessuno. Le madri degli altri bussano a casa per sapere, ma lei si fa negare. La madre la protegge: «Sta male, lasciate in pace». Ma è un raro momento di intesa nel rapporto madre-figlia. Quando Lizzie è piccola, la madre la porta spesso in una chiesa di Giaffa, la fa sedere su una panca e dopo aver salutato il prete inizia a maledire Dio in yiddish. «Un giorno le chiesi se eravamo ebrei o cristiani, e lei mi spiegò che eravamo ebrei ma il Dio degli ebrei è cieco perché durante l’Olocausto non ha visto gli ebrei che lo imploravano dalle sinagoghe e dunque lei aveva scelto di andare in una chiesa per fargli sapere cosa pensava». In un’altra occasione Lizzie, ormai ventenne, porta a casa un fidanzato che, figlio di un alto ufficiale, si presenta con una cartucciera al collo. «Era bellissimo e ne ero innamorata» ricorda, con un’emozione ancora viva. Ma la madre non lo fa neanche entrare in casa, perché «con tutti quei proiettili al collo chissà quante persone ha ucciso» gli dice, sbattendogli la porta in faccia. Tempo dopo, invece, la stessa madre accoglierà a braccia aperte un altro fidanzato-soldato, perché sotto le armi era stato responsabile della raccolta della spazzatura e dunque non aveva mai sparato un colpo. È questo l’uomo che Lizzie ha sposato e con il quale ha cresciuto tre figli anch’essi segnati dall’impatto della Shoah. Per spiegare di cosa si tratta, Lizzie racconta una storia: «Ho insegnato ai miei figli che quando si va in vacanza all’estero bisogna dormire sempre vestiti in maniera da poter scappare in fretta, con pantaloni e documenti indosso. Una volta a Londra in piena notte suonò l’allarme in hotel, scappammo come tutti ma eravamo gli unici a essere vestiti quasi perfettamente: il problema fu quando si trattò di rientrare nelle camere perché il portiere non credeva che eravamo degli ospiti proprio perché troppo vestiti, mentre gli altri erano tutti mezzi nudi. Fu allora che mio figlio piccolo gli disse: “Mia madre è figlia di sopravvissuti”». A Bitzaron ci furono molti suicidi. Una donna si gettò dal tetto del cinema appena costruito, nella notte dell’inaugurazione, perché ammise di non riuscire a vivere «in un quartiere dove ci si diverte», mentre in un altro caso fu un marito a trovare la moglie morta. Si occupò della sepoltura e molti anni dopo, quando era a sua volta sul letto di morte, chiamò il figlio per fargli una confessione: «Tua madre non è morta, ma è impazzita, l’ho rinchiusa in una casa per malati di mente e ho finto il funerale per non farti soffrire. La sua tomba è vuota, usala per me». Il figlio andò a trovare la madre, che era ancora viva, e davanti all’evidente schizofrenia comprese la scelta del padre e lo raccontò a Lizzie, testimone delle vite dei sopravvissuti e dei loro figli. «Le donne parlavano di quanto era loro avvenuto solo dal parrucchiere, mentre facevano manicure e pedicure, e lo facevano solo in yiddish, tenendo fuori gli altri». Solo nel 1962, con il processo a Adolf Eichmann, l’architetto della Soluzione finale, i sopravvissuti iniziarono ad aprirsi e a raccontare: «Ma più ai nipoti che ai figli». Giunta al quinto libro ambientato a Bitzaron, Lizzie Doron ora lavora a un soggetto diverso: il quartiere arabo di Silwan, a Gerusalemme, nel bel mezzo del conflitto israelo-palestinese, «perché dobbiamo conoscere i nostri vicini». La ricerca delle radici l’ha portata spesso a Berlino - dove ha la sua seconda casa - e guarda ai tedeschi, come agli arabi, con l’intento di costruire una «memoria condivisa». «Il ricordo della Shoah non deve essere trasmesso solo dagli ebrei e tra ebrei», afferma, «bisogna coinvolgere gli altri, deve essere universale». Per far capire cosa intende cita una sopravvissuta, ricoverata nella casa di riposo «Palace»: «Mi ha detto che bisognerebbe ricordare l’Olocausto dedicando un’intera giornata a lanciare fuochi di artificio, ballare e gioire, per celebrare la sconfitta del Male sul Pianeta territorio di ogni essere umano».
Maurizio Molinari
La Stampa